L’approfondimento di giugno
Maltrattamenti in famiglia
Presupposti e configurabilità.
di Irma Conti
Per inaugurare questa rubrica di approfondimento a trecentosessanta gradi sulla violenza “di genere” e sulle principali novità che possono avere grande rilevanza pratica nella vita di ogni avvocato, ho ritenuto opportuno partire dal reato di maltrattamenti in famiglia.
Per iniziare questo percorso di aggiornamento e informazione, non si poteva non prendere in considerazione una fattispecie, quale quella prevista dall’art. 572 c.p., che è senza dubbio una di quelle che, negli ultimi anni, ha subito una maggiore espansione ed applicazione.
Secondo l’unanime giurisprudenza di legittimità, infatti, le condotte di maltrattamento non devono necessariamente integrare gli estremi di un reato, se singolarmente considerate (come i comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose abitualmente poste in essere dall’imputato nei confronti del coniuge, possono configurare il reato di maltrattamenti quando essi realizzino un regime di vita avvilente e mortificante – Cass. Pen. Sez. VI, 21.1.2015 n. 12065; Cass. Pen. Sez. VI, 16.11.2010) sempre che non consistano in semplici manchevolezze o sgarbi privi di capacità offensiva per il bene tutelato (Cass Pen. Sez. VI, 11.7.2014, n. 34197; P. Nardò 3.1.1996).
Sotto il primo profilo, infatti, tanti sono stati gli interventi normativi che sono stati sommariamente ripercorsi nella presentazione di questa rubrica ed ancora di più sono state le pronunce con le quali la giurisprudenza di legittimità ha cercato di tutelare il maggior numero di persone, attraverso l’applicazione della norma in parola.
Situazioni delicate, che richiedono un intervento immediato da parte di tutti gli operatori del diritto, da una denuncia il più possibile dettagliata che cristallizzi fin da subito le condotte che saranno oggetto di approfondimento e di accertamento, a un’azione rapida e concreta della Procura e della P.G., resa efficace dalle ultime novelle legislative.
A tali rilevanti strumenti di tipo procedurale, volti a rendere efficace e tempestiva la repressione di determinate condotte – anche grazie ad una più rapida calendarizzazione dibattimentale– si affianca la costante opera della giurisprudenza volta a delineare i confini di una fattispecie dai presupposti ben determinati, ma dalle modalità di integrazione evidentemente aperti.
Come è noto, per quanto attiene ai presupposti per l’integrazione della fattispecie, il reato in questione si consuma solo in un contesto di costanza di un rapporto familiare che prevede una convivenza stabile e mediante una ripetizione di atti di maltrattamento nel corso del tempo che siano tra essi direttamente collegati.
È la “reiterazione”, infatti, il fulcro del reato di maltrattamenti che, secondo la giurisprudenza di legittimità, diventa persino più importante del “contenuto lesivo” dei singoli atti presi in considerazione.
Tali reiterati episodi, inoltre, devono essere collegati tra loro in modo da essere inseriti in un’ampia ed abituale condotta, tale da imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.
Per quanto attiene, invece, al presupposto della stabile convivenza, si precisa, invece, che la Corte Costituzionale (Sent. n. 98/2021) ha ritenuto illegittima ogni applicazione analogica dell’art. 572 cp “a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei possibili significati letterali della norma” proprio con riferimento al requisito della convivenza.
La Consulta ha sancito che “il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. non può ritenersi integrato allorquando tra la persona offesa e l’imputato sussista solo una relazione affettiva stabile e non un vero e proprio rapporto di convivenza” e che “In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 cod. pen. in casi siffatti – in luogo dell’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva” all’agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost.”.
Tali princìpi hanno trovato costante applicazione da parte della giurisprudenza di legittimità secondo la quale “si ritiene, infatti, che il sintagma <<persona comunque convivente>> che figura nella disposizione di cui all’art. 572 cod. pen., funge da elemento di specificazione del concetto persona di famiglia sicché, ove tra i soggetti non sussista un rapporto di convivenza, la permanenza di un vincolo di tipo esclusivamente formale non è sufficiente, di per sé, ad assurgere a criterio valutativo dirimente, dovendosi, viceversa, indagare la sussistenza o meno di un rapporto che nel suo sviluppo sostanziale mantenga le caratteristiche della familiarità e riveli la permanenza di vincolo di solidarietà che della famiglia costituisce il tratto fondante, non potendo, questa, ridursi ad un mero dato anagrafico” (Cass. Pen.. Sez. II,sent. n. 43939/2023).
Tanto osservato in ordine ai “presupposti” del reato e passando ad esaminare la fattispecie sotto il profilo dell’elemento materiale del reato e del concetto stesso di “maltrattamento” integrante la fattispecie, i confini sono, invece, molto più sfumati, stante la definizione, volutamente generica fornita dal legislatore che ha cercato di “contenere in una formula legislativa le varie specie che tali maltrattamenti assumono in pratica” (Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, II, 359).
Proprio su questo punto è di grande rilevanza l’opera della giurisprudenza di legittimità, la quale – nei limiti previsti dal divieto di analogia e dei confini comunque dettati dalla norma – tramite la sua attività di interpretazione del diritto vivente, ha consentito e consente di ricondurre plurime situazioni differenti nell’alveo della previsione dell’art. 572 c.p..
Come accaduto nella recente pronuncia della VI Sezione della Suprema Corte (Cass. Pen. Sez. VI, sentenza 27.02.2024, n. 08617), in cui la Corte ha riconosciuto la sussistenza dei maltrattamenti in famiglia anche attraverso condotte di tipo “omissivo”.
In particolare, la Corte ha affermato che il reato di maltrattamenti in famiglia ben può essere commesso anche imponendo ai familiari – nel caso di specie figli minori in tenera età – un regime di vita connotato, non solo dal frequente ricorso a violenze fisiche, ma più in generale improntato a un generale degrado nell’accudimento.
Con ciò, la Suprema Corte ha pertanto sancito che il delitto di cui all’art. 572 c.p. può essere commesso anche in forma omissiva.
In particolare, la Corte, nella richiamata sentenza -con la quale è stata confermata la sentenza di condanna della Corte di Appello che aveva riformato la pronuncia assolutoria di primo grado proprio sul punto della qualificazione giuridica dei fatti – ha affermato che “si ritiene pienamente condivisibile la soluzione recepita dalla Corte di appello, secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia ben può essere commesso anche imponendo ai familiari – nel caso di specie i figli minori in tenera età – un regime di vita connotato non solo dal frequente ricorso a violenze fisiche, ma più in generale improntato a un generale degrado nell’accudimento (sia pur con riferimento a diversa fattispecie, si veda Sez.6, n. 12866 del 25/1/2018, Rv. 272737)”.
Sulla configurabilità del reato mediante omissione, la Corte, ha altresì specificato che “A tal riguardo, infatti, deve precisarsi che il reato di maltrattamenti può essere commesso anche in forma omissiva, lì dove il genitore non provveda ad assicurare al minore, specie se in tenera età, tutte quelle condotte di cura, assistenza e protezione a fronte di esigenze cui il minore non può altrimenti provvedere (Sez.6, n.4904, del 18/3/1996, Rv. 205035; Sez.6, n. 9724 del 17/1/2013, Rv. 254472)”.
Allo stesso modo, la Corte ha altresì disatteso le osservazioni difensive in punto di elemento soggettivo, fondate sulla pronuncia assolutoria di primo grado, che aveva inopinatamente ritenuto la condotta dell’imputata non fosse idonea ad integrare il reato sotto il punto di vista soggettivo in quanto in essa non sarebbe ravvisabile la volontà di avvilire e sottoporre le persone offese ad un contesto di vita familiare degradante.
Secondo la Corte di legittimità, essendo il delitto punito a titolo di dolo generico, la sua integrazione “non implica l’intenzione di sottoporre la vittima, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria (Sez.3, n. 1508 del 16/10/2018, Rv. 274341-02)”.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, la Cassazione ha pertanto ritenuto integrata la fattispecie in parola, osservando che “la reiterazione nel ricorso alla violenza nei rapporti con i figli, nonché l’abituale deficit di accudimento emerso, sono elementi di per sé dimostrativi della reiterazione di condotte idonee ad integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, sia sotto il profilo oggettivo che dell’elemento soggettivo del reato”.
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