Nicola Madìa Avvocato/ Prof. Associato abilitato di diritto penale
Articolo pubblicato su www.centoundici.it (la rivista della Camera Penale di Roma)
La cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani è stata dedicata al “processo come ostacolo”.
Se è così, non ci si può esimere dal parlare di uno dei principali ostacoli che si frappone ad un “giusto processo”. La giustizia (anzi la gogna) mediatica. La tematica è di quelle “calde”, con un rilievo giuridico, in ragione delle difficoltà di contemperare diritto di cronaca e presunzione d’innocenza, oltre che sociale, viste le ripercussioni sulla reputazione e sulla stessa possibilità di continuare a condurre una vita normale che l’esposizione mediatica determina. La giustizia mediatica pone in rotta di collisione diritti fondamentali i quali, in qualche modo, devono essere bilanciati al fine d’individuare un punto d’equilibrio che li salvaguardi tutti.
Come la Consulta ha ricordato spesso, nessuno diritto / interesse costituzionale può svolgere un ruolo tiranno, nel senso che nessuno di essi può assumere un’estensione tale da annullarne un altro. Neanche il diritto alla salute o alla salubrità dell’ambiente possono fagocitare completamente altri interessi contrapposti, come quello al lavoro e alla crescita economica (il caso Ilva docet). In questa prospettiva, bisogna necessariamente inquadrare il tema dal punto di vista dei giornalisti, ma anche degli operatori del diritto, il cui angolo visuale risulta spesso trascurato nel dibattito pubblico. Nei talk show si sente di sovente ripetere che la libera informazione non può subire limiti, essendo destinataria del dovere di pubblicare il contenuto di qualsiasi atto giudiziario (in particolare intercettazioni), dovendo prevalere il diritto di cronaca su qualsiasi altra prerogativa. Si tratta d’impostazione che, in una democrazia avanzata, è da rigettare completamente per un coacervo di ragioni convergenti che dimostrano l’erroneità di simile impostazione. I diritti della personalità sono costituzionalmente sovraordinati agli interessi della collettività, di talché l’immagine, la reputazione, la privacy e la dignità non possono cedere il passo al diritto all’informazione e alla spettacolarizzazione di un dramma giudiziario. Pubblicare atti o il contenuto di essi, tanto più se con taglio inquisitorio, scandalistico, costruendo una narrazione ricca di suggestioni negative verso l’accusato, ancorché, il più delle volte, totalmente lontana dalla realtà processuale, significa emettere condanne mediatiche e sociali prima e al posto del processo, con gravissimi danni per la possibilità di continuare a condurre un’esistenza normale o anche solo accettabile. D’altronde, la condanna mediatica, plasmandosi sui soli atti prodotti dall’accusa nella fase delle indagini (del processo non interesse niente a nessuno!), non può che condizionare i futuri collegi giudicanti, soprattutto se composti da giurie popolari, come in Corte d’Assise. La gogna mediatica si risolve, dunque, in una patente violazione del principio di presunzione d’innocenza che, come ha ormai sancito anche la Corte EDU, si esplica all’interno e all’esterno dell’agone processuale.
La presunzione d’innocenza, d’altro canto, costituisce un valore fondante del nostro edificio costituzionale, che si colloca al di sopra di qualsiasi altro diritto e la stampa non può pretendere di conculcarlo, foraggiandosi attraverso l’arma impropria di carte giudiziarie.
Infatti, i poteri investigativi, che consentono di ingerirsi tanto pesantemente nelle vite degli altri, sono pensati e calibrati soltanto per acquisire elementi da spendere in giudizio e non certo per alimentare i bilanci delle imprese d’informazione. Anche perché, la professione giornalistica si nobilita quando “scopre” notizie attraverso attività d’inchiesta, giammai quando si riduce a svolgere la funzione di passacarte di documenti consegnati da qualche manina vicina agli uffici giudiziari. E, invece, sempre più spesso si assiste a giornalisti che stazionano in Procura, mendicando notizie, stringendo rapporti di amicizia con taluni magistrati, fungendo da loro cassa di risonanza e, in sostanza, abdicando a un ruolo d’indipendenza e autonomia critica nei confronti dell’ordine giudiziario, per assumere le vesti di meri “postini” -interessati- di PM e talvolta di giudici. La comunanza d’interessi tra informazione e magistratura si tocca con mano quando sotto processo finiscono giornalisti di testate “amiche”. Pur di prosciogliere il professionista di turno, il diritto di cronaca (salvo che persona offesa sia un magistrato, s’intende, perché, in quei casi, la giustizia domestica produce condanne e risarcimenti monstre) viene evocato per legittimare qualsiasi forma di diffamazione, così da “salvare” organi d’informazione e giornalisti ideologicamente o “umanamente” vicini a chi deve valutare queste condotte. Non ci si può neppure celare dietro l’arrugginito e ipocrita adagio secondo cui il giornalista non potrebbe esimersi dal “dare la notizia”. La narrazione di una notizia non è mai operazione neutra, ma sempre mediata da suggestioni simboliche onde assecondare le pulsioni dell’opinione pubblica e attrarne l’attenzione fino a renderla morbosa, oppure al fine di orientarne le idee in sintonia con quelle del veicolo informativo. L’Avvocato è ormai costretto a vedere snaturato il suo ruolo, distogliendo energie dall’attività d’assistenza tecnica, pur di non sottrarsi all’onere di difendere l’assistito anche sui media, replicando alle propalazioni sfavorevoli e illustrando al pubblico il suo punto di vista. Anche gli ordini professionali non brillano per imparzialità, giacché, purtroppo, il codice deontologico della professione giornalistica viene costantemente e impunemente violato. Occorrerebbe rinobilitare questa fondamentale professione, riscoprendo la figura del giornalista che si “dà da fare”, svolgendo inchieste autonome rispetto a quelle della magistratura. Le notizie devono essere acquisite non dagli atti giudiziari, ma “sudandosele”, come si faceva una volta, e assumendosene la completa responsabilità. Graverà sul professionista l’onere di allegare elementi da cui inferire la veridicità dell’informazione, in caso di denuncia per diffamazione, senza potersi rifugiare dietro al facile alibi della pubblicazione di atti giudiziari e non potendo “comodamente” fruire dei risultati di attività investigative che, ingerendosi nella vita altrui, devono, per loro natura, essere utilizzabili solo per l’accertamento dei reati. Tale impostazione eviterebbe quello che il Prof. Vittorio Manes, nel suo Giustizia mediatica, ha definito: “voyerismo giudiziario, che antepone lo show al racconto e lo share alla corretta rappresentazione dei fatti”, vellicando quel populismo penale ormai così dilagante nella società contemporanea. Insomma, informare non significa diffamare e distruggere le vite altrui; se, invece, questi sono gli esiti di un’impostazione dell’attività giornalistica ormai legibus soluta, allora ben vengano quei correttivi (l’emendamento Costa è un inizio) volti al ripristino di valori certamente superiori, la cui importanza si percepisce solo quando si viene toccati personalmente.
Sarebbe meglio pensarci prima!
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