La Quarta Sezione, dovendo dirimere una particolare controversia avente a oggetto la applicazione di una pena “illegale” quantificata paradossalmente in favor rei ha affermato il principio di diritto secondo cui “Nel giudizio di rinvio, a seguito di annullamento della sola condanna per il reato più grave, il giudice non è vincolato, nella determinazione della pena per il reato residuo (che nel precedente nel calcolo complessivo era stato ritenuto meno grave), che rimanga unico o che diventi il più grave da unificare in continuazione con gli altri reati satellite, alla quantità già individuata quale aumento ex art. 81 cpv. cod. pen. e, per il divieto di ‘reformatio in peius’, non potrà irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione, ma non potrà mai irrogare una pena che sia inferiore al minimo edittale del reato residuo, che altrimenti si configurerebbe come pena illegale”.
La Corte di appello di Messina, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, dichiarava la penale responsabilità dell’imputato in relazione ai reati di stalking e violenza sessuale e, riconosciuta la circostanza attenuante ex art. 609-bis, co. 3, c.p. in regime di prevalenza rispetto alla contestata aggravante ex art. 609-ter n. 5 quater c.p., lo condannava alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione revocando la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici – già disposta in primo grado – e confermando nel resto l’impugnata sentenza.
L’imputato, per il tramite del difensore, proponeva ricorso per cassazione, chiedendo, con unico motivo, l’annullamento della sentenza di secondo grado per essere i reati estinti per remissione di querela stante la dichiarazione resa dalla p.o. ai CC in data 30.9.2021 e la contestuale accettazione della medesima da parte dell’imputato.
La Terza Sezione Penale, investita del ridetto ricorso, con sentenza n. 34052/2022 del 12 gennaio 2023, considerata la remissione di querela unicamente in relazione al delitto di stalking e la relativa accettazione da parte del ricorrente, annullava senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 612-bis c.p. poiché estinto per remissione di querela debitamente accettata.
La stessa Corte, però, disponeva l’annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Messina limitatamente alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per il reato residuo considerato che la pena-base per il delitto più grave era stata quantificata proprio sulla base dell’estinto delitto di atti persecutori.
In sede di rinvio, la Corte di appello di Messina rideterminava la pena in anni uno e mesi sette di reclusione e confermava nel resto.
L’imputato, per il tramite del difensore, presentava nuovamente ricorso per cassazione lamentando violazione e falsa applicazione delle norme contenute negli artt. 133 c.p. e 597 c.p.p. avendo il giudice di secondo grado mal applicato le norme e i principi di diritto della giurisprudenza di legittimità che hanno delineato in modo preciso il c.d. divieto di reformatio in peius per “aver quasi quintuplicato la pena irrogata, in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero” e, conseguentemente, incorrendo “in un indebito stravolgimento della valutazione operata dal giudice di primo grado ai sensi dell’art. 133 cod. pen. e in una evidente violazione del “divieto di reformatio in peius” di cui all’art 597, commi 3 e 4, cod. proc. pen.”.
La Suprema Corte reputava il motivo di doglianza infondato e rigettava il ricorso.
Preliminarmente, i Giudici di legittimità evidenziavano come i giudici di merito fossero caduti in errore nella quantificazione della pena con una determinazione a favore dell’imputato che, in assenza, di impugnazione da parte della pubblica accusa non poteva essere oggetto di “modifica” da parte dei giudici del grado successivo.
In tal senso, la Quarta Sezione, rilevava:
- che il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, nel corpo della sentenza di primo grado, individuava quale reato più grave quello previsto dalla norma contenuta nell’art. 612-bis c.p.;
- che, come stabilito dalle Sezioni Unite, in plurime occasioni, “il criterio cui deve aversi riguardo per la determinazione del reato più grave agli effetti della continuazione non è quello della comparazione degli indici di gravità concreta dei reati ex art. 133 cod. pen., bensì quello della più grave pena edittale prevista dal legislatore per ciascun reato da comparare” dovendo essere, pertanto, individuata (in caso di determinazione della pena per reati unificati sotto il vincolo della continuazione) la violazione più grave “tenendo conto della eventuale applicazione di circostanze aggravanti o attenuanti, dell’eventuale giudizio di comparazione tra circostanze di segno opposto, e di ogni altro elemento di valutazione” (cfr. Sez. 3, n. 225 del 28/06/2017, dep. 2018, Ahlal, Rv. 272211 – 01);
- che, però, in caso di concorso di reati puniti con sanzioni omogenee (genere e specie) in relazione ai quali è stato riconosciuto il vincolo della continuazione, “l’individuazione del concreto trattamento sanzionatorio per il reato ritenuto dal giudice più grave non può comportare l’irrogazione di una pena inferiore nel minimo a quella prevista per uno dei reati satellite da individuarsi con riferimento al reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze, svolto l’eventuale giudizio di bilanciamento” (cfr. Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255348 – 01 e, nel solco di quelle Sez. 3, n. 6828 del 17/12/2014, dep. 2015, Seck, Rv. 262528 – 01; Sez. 3, n. 18099 del 15/11/2019, dep. 2020, Niang, Rv. 279275; Sez. , n. 854 del 18/11/2022, dep. 2023, Glaoui, Rv. 284184 – 01);
- che, di conseguenza, il giudice di primo grado, incorrendo in errore, procedeva al calcolo della pena- base in relazione al reato di stalking (aggravato dal fatto di essere stato commesso nei confronti di persona alla quale il colpevole era stato legato da relazione affettiva) in anni uno e mesi quattro di reclusione invece di quantificarla in almeno anni uno e mesi otto di reclusione (pena minima per la violenza sessuale come risultante all’esito del compiuto bilanciamento delle circostanze sussistenti);
- che, pertanto, nel caso di specie sulla pena-base per il reato di stalking, quantificata in anni uno e mesi quattro di reclusione, venivano aggiunti mesi quattro a titolo di continuazione per il secondo reato (violenza sessuale) e il decidente perveniva al calcolo finale pari ad anni uno e mesi otto di reclusione.
Ciò posto, stante la mancata presentazione da parte del Pubblico Ministero del relativo atto di appello, il ridetto errore non era emendabile dal giudice del secondo grado.
In occasione del primo ricorso per cassazione, la Terza Sezione Penale, prendeva atto della remissione di querela da parte della persona offesa in relazione al solo reato di stalking e (come detto precedentemente) annullava con rinvio in ordine alla rideterminazione della pena in relazione al reato di violenza sessuale.
La Corte di appello messinese, in sede di rinvio, incorreva nuovamente in un errore di calcolo (ancora una volta a favore dell’imputato) posto che il giudice del rinvio “chiamat(o) a determinare la pena per il reato di violenza sessuale come risultante all’esito del già operato giudizio di bilanciamento delle circostanze (quindi ritenuta l’ipotesi lieve prevalente sulla contestata aggravante) (…) non poteva irrogare una pena inferiore al minimo edittale, ovvero anni uno e mesi otto di reclusione” e, di conseguenza, irrogava una pena illegale.
In tale caso, però, è la stessa Corte di appello a rilevare che la quantificazione della pena era da reputarsi equa in anni uno e mesi sette di reclusione ossia in una pena inferiore al minimo edittale sulla base del divieto di
divieto di reformatio in pejus e considerando l’orientamento giurisprudenziale maggioritario sul punto secondo cui “nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento della condanna per il solo reato più grave, il giudice di rinvio, nel determinare la pena per il reato residuo, meno grave, non è vincolato alla quantità di pena già individuata quale aumento “ex” art. 81, comma secondo, cod. pen., ma, per la regola del divieto di “reformatio in peius “, non può irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione” (cfr. Sez. 2 n. 2692/2023).
Ciononostante, rilevava la Suprema Corte come, nel caso di specie, risultasse incomprensibile il motivo per cui il giudice di secondo grado, in sede di rinvio, non abbia reputato necessario vincolarsi alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione (ossia quella che era stata quantificata come pena base per il reato di stalking aggravato sulla base della quale era stato, successivamente, determinato l’aumento per la continuazione con la violenza sessuale).
Paradossalmente, pur in presenza di evidenti errori aritmetici, la Quarta Sezione rileva come la motivazione della Corte di appello di Messina è immune da vizi la quale ha dato seguito all’orientamento secondo il quale “nel giudizio di rinvio, a seguito di annullamento della sola condanna per il reato più grave, il giudice non è vincolato nella determinazione della pena per il reato residuo, ritenuto nel calcolo complessivo meno grave, alla quantità già individuata quale aumento “ex” art. 81 cpv. cod. pen. E che, tuttavia, per la regola del divieto di “reformatio in peius”, non può irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione” (cfr. Sez. 2, n. 2692 del 09/12/2022, dep. 2023, Lo Presti, Rv. 284301 – 01; Sez. 4, n. 13806 del 07/03/2023 Clemente Rv. 284601 – 01; Sez. 6, n. 4162 del 07/11/2012, dep. 2013, Ancona ed altri, Rv. 254263 – 01; Sez. 2, n. 5502 del 22/10/2013, dep. 2014, Cavani, Rv. 258263 – 01).
Il problema fondamentale, nel caso di specie, è che una pena – determinata in relazione al residuo reato in misura superiore a quella in precedenza determinata quale pena-base per il reato più grave venuto meno -sarebbe una pena illegittima, mentre quella irrogata al di sotto del minimo edittale è una pena illegale, affetta, pertanto da un vizio ancora più grave.
Ciò posto, devesi rilevare che la pena può definirsi “illegale” quando essa non corrisponde per specie e quantità a quella prevista, in astratto, dalla norma di riferimento oppure quando essa sia stata commisura sulla base di un calcolo contra Costitutionem o perché quantificata in violazione del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole.
La Suprema Corte, procedeva, nell’allegata pronuncia a una cronistoria dell’applicazione del principio di legalità della pena evidenziando:
- che il suddetto principio è sancito dalla norma contenuta nell’art. 25 Cost.;
- che “la garanzia del “nullum crimen sine lege”, come declinata nella carta costituzionale, contiene in sé – in un rapporto di necessaria implicazione – il principio “nulla poena sine lege”, benché alla pena la disposizione faccia sintetico riferimento solo attraverso l’uso del verbo “punire”, evocativo sia della affermazione di responsabilità, che delle conseguenze che ne derivano”;
- che il principio del “nulla poena sine legge” trova il suo riconoscimento “oltre i confini nazionali” nella norma contenuta nell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
- che, ancora, il principio di legalità della pena espressamente sancito dall’ art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 (esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881) ha imposto la obbligatoria applicazione della pena sopravvenuta più favorevole;
- che, infine, la norma contenuta nell’art. 1 c.p. è la “proiezione” costituzionalmente orientata del principio di legalità.
Ciò posto, la Quarta Sezione passava in rassegna la più importante giurisprudenza costituzionale e convenzionale afferente la subiecta materia dalla quale è stato possibile desumere le “importanti direttrici di sistema”, tra le quali, hanno assunto fondamentale rilievo:
- la sentenza n. 15 del 1962 con la quale la Consulta “sancì che la copertura costituzionale di cui all’art. 25, secondo comma, attiene non al solo reato ma anche alla pena e chiarì che la potestà punitiva del giudice si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico”;
- la sentenza n. 299 del 1992 che stabilì che “la determinazione legislativa del minimo e del massimo della pena irrogabile per ciascun tipo di reato non rappresenta soltanto un limite alla discrezionalità giudiziale, ma costituisce anche un indispensabile parametro legislativo per l’esercizio di essa, un criterio guida senza il quale il potere così riconosciuto al giudice non sarebbe riconducibile al principio di legalità. Mediante la determinazione legislativa del minimo e del massimo di pena, infatti, il compito che viene assegnato al giudice è quello di “proporzionare” la sanzione concreta non già al proprio giudizio di disvalore sul fatto previsto dalla legge come reato, ma alla scala di graduazione”;
- la sentenza n. 391 del 1994 secondo cui “il finalismo rieducativo è un tratto identitario della pena ed implica l’osservanza costante del “principio di proporzione” tra qualità/quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra; tale valore proporzionale, proiezione del principio di uguaglianza, tiene in equilibrio le istanze di difesa sociale e di tutela delle posizioni individuali, sottese alla sanzione penale” (conf. Corte cost., n. 409 del 1989);
- la sentenza n. 393 del 2006 che ribadì che “se il divieto di retroattività della norma più sfavorevole ha un valore costituzionale assoluto e inderogabile in quanto la calcolabilità delle conseguenze giuridiche della propria condotta è condizione della libertà di autodeterminazione individuale, al contrario, il principio di retroattività della legge penale più favorevole, recepito nell’ordinamento dall’art. 2 cod. pen., non trova analoga copertura nella Carta fondamentale, essendo suscettibile dì deroga legislativa. In particolare, eventuali scostamenti dal principio di retroattività in mitius “possono essere disposti dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa” da correlarsi ad interessi di rilievo che, richiamando propri precedenti arresti, la Corte stessa ha individuato, in via esemplificativa, in quelli “dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo” (conf. Corte cost. n. 236 del 2011);
- la sentenza n. 236 del 2016 che, dichiarando “l’illegittimità costituzionale dell’art. 567, secondo comma, cod. pen. per la ritenuta manifesta sproporzione della cornice edittale in rapporto al reale disvalore della condotta, ha riaffermato la valenza ineludibile del principio di proporzionalità della pena di matrice eurounitaria, il quale esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile, a tutela delle posizioni individuali, l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali”.
Quello che sicuramente emerge è l’assenza di una effettiva definizione della “pena illegale” all’interno dell’intero comparto normativo nazionale.
Pertanto, è stata la giurisprudenza di legittimità ha plasmarne il contenuto e a fornirne una “definizione”.
Si pensi, in tal senso, a Sez. 6, n. 32243 del 15/7/2014, Tanzi, Rv. 260326 e Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013, Nisi, Rv. 255729 secondo le quali “è “ab origine” illegale – e ne è consentito il rilievo anche d’ufficio nel giudizio di cassazione – la pena diversa per specie da quella che la legge stabilisce per il reato, ovvero inferiore o superiore per quantità ai relativi limiti edittali, poiché, così caratterizzata, essa si colloca al di fuori dell’assetto normativo vigente”.
E, ancora, secondo Sez. 2, n. 14307 del 14/03/2017, Musumeci, Rv. 269748, “è stata ricondotta all’errore di diritto, non prospettabile per la prima volta e non rilevabile d’ufficio nel giudizio di legittimità, l’erronea applicazione della regola di cui all’art. 63, quarto comma, cod. pen. nella sentenza di primo grado, nella determinazione dell’incremento di pena a titolo di recidiva, in un caso in cui la pena finale non risultava comunque diversa, né esorbitante, dalla previsione legale” e secondo Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110-1, “gli errori commessi nella determinazione di una pena comunque legittima nel suo valore finale più strettamente ineriscono alla c.d. legalità processuale, che fuoriesce dall’ambito del principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., chiamando piuttosto in causa i principi regolativi del giusto processo ex art. 111 Cost; così come deve escludersi che rientrino nella nozione di pena illegale le pene ingiuste o eccessive, per le quali potrebbe porsi, semmai, un problema di coerenza con altri parametri costituzionali, quali quelli di uguaglianza, di proporzionalità, di ragionevolezza”.
La Quarta Sezione “chiude” l’excursus riprendendo i passaggi più rilevanti di varie pronunce emesse dalla Suprema Corte nella sua più alta composizione.
In tal senso, si è stabilito che “in relazione ad una pena “geneticamente” illegale, nell’accezione sopra precisata, (è stato ribadito) che l’illegalità della pena è deducibile e può essere rilevata ex officio purché il ricorso non sia tardivo (mentre è deducibile davanti al giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., quando il ricorso sia stato presentato fuori termine). In particolare, l’illegalità a tal fine rilevante sussiste quando la pena irrogata non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata, salvo che sia frutto di errore macroscopico (ipotesi che ricorre quando la sanzione sia abnorme, in quanto frutto di errore marchiano non giustificabile e non invece di una argomentata, per quanto discutibile, valutazione, ovvero quando sia il frutto di un palese errore di calcolo). Al di fuori dell’ipotesi di errore macroscopico, la condanna a pena (non illegale, ma solo) illegittima, contenuta in una sentenza non ritualmente impugnata, non può dunque essere rettificata neppure in sede esecutiva” (Sez. U, n. 47766 del 26/5/2015, Butera, Rv. 265108).
E, ancora, le Sezioni Unite “Ercolano” hanno stabilito che:
1) “pur nel riconoscimento della innegabile portata valoriale del giudicato, nel quale sono insite ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici, in uno stato di diritto deve essere costantemente garantita la conformità a legge della pena, dal momento della sua irrogazione fino a quello della sua esecuzione, giacché il rapporto di esecuzione resta sub iudice fino alla completa espiazione e non può ritenersi ostacolato dal dato formale della c.d. “situazione esaurita””;
2) “l’impossibilità di dare esecuzione ad una sanzione, su cui incide una norma che, come nella specie, è stata anche dichiarata incostituzionale (v. sent. Corte cost., n. 210 del 2013), poggia su due riferimenti normativi: l’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, lì dove recita che “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali”, e l’art. 673 cod. proc. pen., che disciplina i fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice, assegnando al giudice dell’esecuzione il compito di revocare la statuizione di condanna e di adottare i provvedimenti conseguenti”;
3) “il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona, quale certamente è la libertà dell’individuo, la cui tutela deve necessariamente prevalere”;
4) “sulla base di tale sostrato teorico è ammissibile, dunque, un intervento in executivis sulla pena”;
5) “tali situazioni di illegalità devono essere emendate “dallo stigma dell’ingiustizia” e, quindi, eventuali effetti ancora perduranti della violazione devono essere rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice Europeo nel caso Scoppola”.
Il solco tracciato dalle Sezioni Unite “Ercolano” è stato proseguito dalle Sezioni Unite “Gatto” secondo le quali “sempre con riguardo al ruolo del giudice dell’esecuzione nel rideterminare la pena in esito alla declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, ma comunque incidente sul trattamento sanzionatorio, (è stata ritenuto necessario) che si proceda a rimodulare la pena, non interamente eseguita in favore del condannato; e ciò pure se il provvedimento “correttivo” da adottare non abbia contenuto rigidamente predefinito, dovendosi riconoscere al giudice dell’esecuzione penetranti poteri di accertamento e di valutazione – in linea con i poteri, più o meno incidenti sul giudicato, di cui detto giudice dispone, evocati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 210 del 2013, e che la dottrina ha classificato come selettivi (art. 699 cod. proc. pen.), risolutivi (art. 673 cod. proc. pen.), di conversione (art. 2, terzo comma, cod. pen.), modificativi (artt. 672,676 cod. proc. pen.), ricostruttivi (art. 671 cod. proc. pen. e 188 disp. att. cod. proc. pen.), complementari e supplenti (art. 674 cod. proc. pen.).”
Ancora, le Sezioni Unite “Jazouli” hanno osservato che “del giudicato penale occorre prendere in considerazione una duplice dimensione: la prima, relativa all’accertamento del fatto, del quale non è consentita, al di fuori delle speciali ipotesi rescissorie, una rivalutazione, e ciò essenzialmente a garanzia del reo (garanzia che si traduce nel divieto del bis in idem)) la seconda, relativa alla determinazione della pena che, sprovvista di reale copertura costituzionale (o convenzionale), ha un grado di resistenza decisamente inferiore rispetto alle sollecitazioni provenienti ab extra rispetto alla res iudicata”.
E proprio in tale ultima occasione, è stato enucleato il principio in forza del quale “nel giudizio di cassazione l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo”.
Di particolare interesse è il dictum delle Sezioni Unite “Della Fazia” che, con tale pronuncia, ha affermato “il diritto dell’imputato di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, alla luce dell’art. 2 cod. pen., anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge previgente rientri nella cornice edittale sopravvenuta, per il solo fatto che sono mutati, per effetto della modifica migliorativa, i parametri di apprezzamento del disvalore della condotta”.
Di conseguenza (ed è questo il passaggio fondamentale) “nel caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e con il quale non vengano proposti motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio, la Corte ben può rilevare d’ufficio che la sentenza impugnata era stata pronunziata prima dei mutamenti normativi che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all’imputato, pronunciando l’annullamento sul punto e demandando al giudice di rinvio la rideterminazione della pena, da compiere alla luce del nuovo quadro di riferimento”.
Infine, le Sezioni Unite “Miraglia”, rispondendo al quesito sottoposto alla loro attenzione volto comprendere se, in presenza di ricorso per cassazione inammissibile, la Corte di cassazione possa rilevare ex officio la illegalità della pena in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale (al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa) hanno stabilito che “spetta alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt. 3,13,25 e 27 Cost. il potere, esercitabile anche in presenza di ricorso inammissibile, di rilevare l’illegalità della pena determinata dall’applicazione di sanzione “ab origine” contraria all’assetto normativo vigente perché di specie diversa da quella di legge o irrogata in misura superiore al massimo edittale”.
Orbene, nel caso di specie, secondo la Quarta Sezione, il giudice di secondo grado (in sede di rinvio), dovendo dare corretta applicazione alla imponente produzione giurisprudenziale dianzi indicata, si sarebbe ritrovato davanti a un bivio ovvero compiere un potenziale errore di diritto (determinando la pena in misura superiore rispetto alla pena base inizialmente quantificata dai precedenti giudici del merito e procedere al calcolo degli aumenti per la continuazione) oppure irrogare, per il reato residuo, una pena illegale trattandosi di sanzione inferiore al minimo edittale.
Di fronte a tale “scelta”, secondo la Suprema Corte, la Corte di appello di Messina avrebbe dovuto “percorrere” la prima strada.
Una argomentazione siffatta si sarebbe posta in linea con alcuni precedenti arresti della Corte di Cassazione che sottolineò come, in caso di ricorso proposto dal solo imputato – a seguito di un primo annullamento disposto dalla Corte – avverso la sentenza di condanna limitatamente all’erroneo calcolo della pena “il giudice di rinvio non può lasciare inalterata, per il reato residuo, la pena irrogata per esso a titolo di continuazione nel giudizio antecedente all’annullamento, ma deve rideterminarla secondo i criteri di cui all’art. 133 cod. pen., commisurandola ai limiti edittali, pena la possibile irrogazione, in caso contrario, di una pena illegale perché inferiore al minimo edittale” (Sez. 1, n. 32621 del 16/06/2009 Amoriello Rv. 244299 – 01).
L’evidente errore commesso dai giudici del merito che, nel caso di specie, hanno proceduto a una “illegale” quantificazione della pena (che si ricorda è stata, paradossalmente, più favorevole per il reo) induceva il ricorrente a lamentare l’errato calcolo cui era pervenuto il giudice del rinvio avendo quest’ultimo dovuto, invece, pervenire a una pena massima di anni uno di reclusione (pena per il c.d. “stalking semplice”) o, tutt’al più, ad una massima pari ad anni uno e mesi quattro di reclusione (pena per lo stalking aggravato che era stato il riferimento di pena-base su cui erano stati operati gli aumenti per la continuazione prima che il reato più grave cadesse).
La Quarta Sezione non ha condiviso l’assunto difensivo precisando come la Corte di appello ha applicato (senza poterlo fare) una pena illegale.
Una situazione siffatta, però, paralizza il potere di rettifica del giudice di legittimità considerato che “il giudice dell’impugnazione, in mancanza di uno specifico motivo di gravame da parte del pubblico ministero, non può modificare la sentenza che abbia inflitto una pena illegale di maggior favore per il reo” (cfr. Sez. 2, n. 30198 del 10/09/2020, Di Mauro, Rv. 279905 – 01), ma soprattutto che “in tema di determinazione della pena, ove il giudice abbia inflitto una pena in contrasto con la previsione di legge ma in senso favorevole all’imputato, si realizza un errore al quale la Corte di cassazione, in difetto di specifico motivo di gravame da parte del pubblico ministero, non può porre riparo né con le formalità di cui agli artt. 130 e 619 cod. proc. pen., versandosi in ipotesi di errore di giudizio e non di errore materiale del computo aritmetico della pena, né in osservanza all’art. 1 cod. pen. e in forza del proprio compito istituzionale di correggere le deviazioni da tale disposizione, in quanto la possibilità di correggere in sede di legittimità l’illegalità della pena, nella specie o nella quantità, è limitata all’ipotesi in cui l’errore sia avvenuto a danno dell’imputato, essendo anche in detta sede non superabile il limite del divieto della “reformatio in peius” ” (cfr. Sez. 3, n. 30286 del 09/03/2022 Nardelli, Rv. 283650 – 02; conforme Sez. 6, n. 49858 del 20/11/2013 G. Rv. 257672 – 01).
Di conseguenza, la “paralisi” della Suprema Corte, nel caso di specie, ha indotto la medesima a non poter accogliere la doglianza difensiva volta a ottenere un’ulteriore riduzione della pena e, al contempo, a stabilire il principio di diritto secondo il quale “Nel giudizio di rinvio, a seguito di annullamento della sola condanna per il reato più grave, il giudice non è vincolato, nella determinazione della pena per il reato residuo (che nel precedente nel calcolo complessivo era stato ritenuto meno grave), che rimanga unico o che diventi il più grave da unificare in continuazione con gli altri reati satellite, alla quantità già individuata quale aumento ex art. 81 cpv. cod. pen. e, per il divieto di ‘reformatio in peius’, non potrà irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all’annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione, ma non potrà mai irrogare una pena che sia inferiore al minimo edittale del reato residuo, che altrimenti si configurerebbe come pena illegale”.
Cass. pen., sez. IV., ud. 31 gennaio 2024 (dep. 4 marzo 2024), n. 9176
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