Il mondo degli altri
di Giuseppe Belcastro
(16.03.2024) Pubblicato su PQM l’approfondimento de “IL RIFORMISTA”
Entrare nell’aula di un tribunale è sempre un’esperienza ricca. Talvolta singolare. Anche chi, per mestiere o sorte, vi accede con frequenza, riesce ancora talvolta a percepire gli effetti di quel particolare sistema logico che regola il flusso degli eventi in una maniera tutta originale, diversa da quella che vale a pochi metri di distanza, fuori da quella porta. Perduto nella logica binaria di un dispositivo che o assolve o condanna, spesso il giudizio corre il rischio di mancare della terza dimensione, sottovalutando il fattore umano, che è in fondo determinante. Nel caso di cui oggi ci occupiamo – raccontato dalla bella penna di Ambrosone in Quarta Pagina– si stava correndo nuovamente il rischio di scollare il processo dal mondo degli uomini. E ciò deve esser stato chiaro sia agli inquirenti, che hanno archiviato il procedimento nato a carico del presidente del collegio per aver strappato il dispositivo, un atto pubblico, dopo averlo egli stesso pubblicato, sia alla Corte di Cassazione che, per annullare la blanda censura dell’organo disciplinare, per un verso, ha dato rilievo alla condizione di disagio nella quale il detto presidente, Malgrè lui, si è trovato ad operare e, per altro verso, ha segnalato che qui di danni nemmeno l’ombra, perché l’imputato, guarda tu a volte la fortuna, piuttosto che un processo, ne ha avuti addirittura due.
Attenzione a definirla storia enorme, inverosimile, incomprensibile, perché ogni sistema che operi secondo regole tecniche è in qualche misura esoterico, restando giocoforza i meccanismi del suo funzionamento in parte affidati alla conoscenza di quelle regole che non sono appannaggio di tutti. Qui, anzi, entra in gioco l’avvocato, il quale, se non m’inganno, ha tra i suoi doveri quello di mediare, spiegare all’assistito quanto va accadendo, affinché l’ignoranza non si trasformi in frustrazione e questa in rabbia. (Un contributo, dite voi quanto piccolo, alla tenuta del sistema)
Solo che stavolta ciò che egli dovrà spiegare è come sia potuto accade re che un reato di condotta, come il falso per soppressione dell’atto pubblico, sia rimasto escluso dal difetto dell’elemento soggettivo – quasi che lo strappatore ignorasse la natura dell’atto che egli stesso aveva reso pubblico un attimo prima di stracciarlo – e che un illecito disciplinare gravissimo sia stato caducato negli effetti dal fatto che l’autore, poverino, era stressato per il troppo lavoro. Dovrà convincere, insomma, che se al posto di quel presidente vi fosse stato un notaio a dar fuoco alla donazione appena sottoscritta e pubblicata oppure un chirurgo ad aver reciso un’arteria stremato da dieci ore di intervento a cuore aperto, la decisione sarebbe stata la stessa, perché anche i notai ed i chirurghi vivono nello stesso mondo dello strappatore e sa ranno quindi giudicati secondo lo stesso metro; e dovrà farlo, per giunta, senza poter allegare nemmeno un esempio che sia uno, dacché, massimario alla mano, non se ne conoscono. Dovrà spiegare insomma, con tutta l’arte sua, com’è che per un fatto per il quale chiunque sarebbe stato fucilato rapida mente alla schiena, qui invece nemmeno un buffetto, anzi, poco ci manca all’encomio per aver avvantaggiato l’imputato con una seconda chance processuale.
Ma, in fondo, nel caso di oggi si è solo verificato un piccolo miracolo che ha ri-avvicinato il processo e le sue dinamiche decisorie al mondo di fuori, recuperando al giudizio quella terza dimensione di cui sopra si è detto. Per una volta, protetto dal suo carico di stress e dalla sua incolpevole ignoranza, l’uomo è dunque tornato al centro del decidere, evitando, come sarebbe avvenuto se il mondo fosse rimasto lontano dal processo anche stavolta, di essere ingiustamente condannato. E che nessuno osi pensare che su tutto ciò abbia inciso il fatto che il giudicato fosse anche giudice, quasi che insomma il mondo in cui vive un giudice sia diverso da quello in cui vivono, che so, i chirurghi, gli ingegneri, gli astronauti, persino gli avvocati e che, dunque, diversi siano i metri di giudizio del rispettivo operato. Nessuno osi pensarlo; quella sarebbe per davvero roba dell’altro mondo. Anzi, del mondo degli altri.
Giuseppe Belcastro – (Penalista del Foro di Roma) Vice presidente Camera Penale di Roma
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