Il Commento di Michele Bontempi
Una fotografia che scoraggia chi – come me, come molti di noi, nei limiti delle proprie possibilità – sta cercando di diffondere un’idea di giustizia e di processo contrari ad una concezione di pena come punizione e vendetta e di processo come condanna certa (id est processo mediatico).
Innanzitutto ad una settimana dall’inizio del processo di revisione nel caso mediatico di Olindo e Rosa (condannati definitivi all’ergastolo per la famosa “strage di Erba”) è stata pubblicata la notizia che Rosa, ad un certo punto del suo percorso con la “giustizia”, ha avuto accesso al beneficio del lavoro all’esterno e quindi da qualche tempo può uscire di prigione ogni giorno per andare a lavorare.
Orbene, in uno Stato “civile”, dove i cittadini hanno una corretta nozione di “giustizia”, cioè come modo di risoluzione delle controversie e non come strumento di lotta per la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, e dove soprattutto credono e hanno fiducia nella “giustizia”, anche per quanto riguarda l’esecuzione della pena e finalità della pena (cioè il reinserimento nella società di una persona diversa da quando aveva commesso il reato) … in uno Stato così – dicevo – non sarebbe nemmeno una notizia.
Ma nel nostro Stato un messaggio come questo viene lanciato unicamente con la finalità di scatenare le reazioni astiose di un popolo che – nella sua parte più numerosa – non conosce il perdono, la riabilitazione, il cambiamento, ma si esprime solo attraverso giudizi tassativi e inappellabili.
Uno di questi pregiudizi (accanto a numerosi altri che riguardano gli stranieri, le donne, i gay, le lesbiche, i transessuali, gli zingari, i ricchi, i poveri, i barboni, i drogati, gli ebrei, i palestinesi … e molto altro) riguarda i condannati il cui destino – per la mentalità comune – sarebbe uno solo: marcire in prigione!
Secondo motivo di sconforto: oggi – giorno del processo di revisione davanti alla Corte di Appello di Brescia – ho potuto sperimentare in prima persona una situazione al limite del surreale che l’immagine che vi mostro nel blog rende solo parzialmente l’idea della realtà: la strada davanti al Tribunale è stata chiusa per ragioni di ordine pubblico e davanti all’ingresso del palazzo di Giustizia – di fronte alla statua del grande Zanardelli che guardava impettito – una lunghissima folla cercava invano di entrare per accedere all’aula di udienza.
Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco: non era la massima espressione del principio democratico di pubblicità del processo perché normalmente le nostre aule – anche quando si celebrano processi in Corte di Assise – sono quasi sempre vuote, ma evidentemente della morbosità delle persone (un giornalista ha chiesto a due signore in fila perchè erano venute: “ci siamo fatte molti chilometri partendo di notte solo per vedere Olindo e Rosa”) e, in definitiva, del fatto che alcuni processi sono visti come uno spettacolo circense con l’esibizione di animali in carne e ossa.
Non ostante, in tutti questi anni, abbia assistito a vari esempi di bizzarria in Tribunale, riconosco di essere rimasto piuttosto turbato da questa folla che ha aspettato in coda per ore sotto la pioggia nella speranza di entrare e assistere anche ad un solo momento della rappresentazione tragicomica che aveva giustificato questa trasferta.
Quello che più mi ha colpito è la presenza di numerosi giovani (studenti?) che, incuriositi, hanno risposto di essere venuti per vedere con i loro occhi come funziona la giustizia… proprio e solo oggi ? Mah
Pochi giorni fa scrivevo e qui ribadisco: istituiamo un tavolo comune tra operatori della giustizia (avvocati e magistrati) e ordine dei giornalisti per mettere non un “bavaglio”, ma dei “paletti” alle notizie, nell’interesse non di tizio o di caio, ma di un interesse superiore che – a causa della sempre maggiore lontananza delle coscienze individuali – non può più attendere: riavvicinare i cittadini ai principi costituzionali.
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