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Il Commento di Michele Bontempi

Le fake news striscianti: l’omicidio colposo da infortunio sul lavoro esiste già ed è punito con la reclusione da 2 a 7 anni. Non basta ?
No, non basta per fermare gli incidenti sul lavoro, ma non perché occorre aumentare ancora di più le pene, ma in quanto in ogni parte della Terra (tutto il mondo è paese) in ogni tipo di società è dimostrato più le pene sono elevate, più (paradossalmente) aumentano i reati (pensiamo solo agli omicidi negli stati americani in cui vige la pena di morte …). Per trovare un’eccezione, forse, bisogna pensare agli Stati gravemente liberticidi come la Russia, la Corea del Nord o la Cina.
La realtà (che mi deriva da ormai quasi 30 anni di esperienza in processi per infortuni sul lavoro) – una realtà di cui però non si può parlare pubblicamente – è che nel 90% dei casi l’evento dipende dai comportamenti umani, spesso da parte del personale più esperto, comportamenti dettati dall’assuefazione al rischio dovuta alla ripetitività delle mansioni. L’esempio più evidente è quello dei mezzi di trasporto all’interno delle aziende (i c.d. muletti in particolare) che vengono utilizzati – per abitudine, per abilità di guida e per sottovalutazione dei rischio – come se fossero auto in un circuito. Per questo poi accadono infortuni spesso mortali, perché il personale sottovaluta di avere nelle mani un mezzo meccanico in grado di fare molto male nel caso di investimento di personale a piedi.

La direzione in cui lavorare, investire e collaborare le maestranze (e i loro rappresentanti sindacali) insieme ai datori di lavoro (e alle loro associazioni di categoria) è indubbiamente quella della formazione e soprattutto della responsabilizzazione della forza lavoro attraverso continui, pressanti, incessanti forme di presa d’atto, di consapevolezza che solo attraverso un comportamento prudente e responsabile si è in grado di limitare il più possibile il rischio di incidente.
Procedure, procedure e ancora procedure, sempre più precise … e poi vigilanza attiva e coinvolgimento sempre maggiore … queste sono le chiavi di volta.
Invece, il dibattito pubblico e politico da 40 anni a questa parte non sa fare altro che puntare il dito contro una ideologia, l’ideologia del profitto e del guadagno, come se fosse quella la vera causa del fenomeno degli infortuni sul lavoro, quando in realtà questi tragici eventi si ripercuotono – oltre che primariamente sulla vita delle vittime e dei loro familiari – anche sul futuro e sulla continuità dell’impresa.
Se i datori di lavoro sottovalutano i rischi legati alla sicurezza (come indubbiamente spesso accade) raramente oggi è per interesse economico legato al risparmio di spesa.
Sempre la mia esperienza professionale maturata in questi anni dimostra che nella maggior parte dei casi l’incidente si poteva evitare adottando misure a basso costo; non è quindi un problema di risparmio e di profitto sulla pelle delle persone, come il dibattito ideologico ancora oggi suggerisce, ma alla base della sottovalutazione dei rischi c’è probabilmente la mancanza di una cultura reciproca di responsabilizzazione sia dei datori di lavoro (nel puntare di più sulla formazione e sulla sorveglianza) ma sia – forse ancora di più – delle maestranze che da ormai troppi anni vengono trattati come soggetti passivi da tutelare a prescindere dai loro comportamenti.
In una parola la deresponsabilizzazione si è trasformata in un boomerang che nella sua traiettoria ellittica finisce per colpire sempre e ancora i più deboli.

Pensiamo per esempio a quella ormai inossidabile giurisprudenza della Corte di Cassazione che afferma che la condotta del lavoratore è in grado di interrompere il nesso di causalità solo se abnorme, eccezionale e totalmente eccentrica rispetto al processo lavorativo, mentre anche la più grave delle imprudenze di un lavoratore, pur se causa la morte di un collega, risulta del tutto irrilevante.
In questo modo si crea proprio terreno fertile per quella deresponsabilizzazione di chi opera in concreto nelle aziende e che si sente in qualche modo legittimato ad abbassare la guardia e a fidarsi troppo delle proprie abilità.
Servirebbe un cambio di mentalità da parte di tutte le componenti in gioco, invece chi dovrebbe realmente tutelare gli interessi dei lavoratori – ad ogni morto – non fa che invocare – come ormai per tutti i fenomeni legati all’ordine pubblico – più repressione e pene più severe. Di questo passo dove ci fermeremo se ci fermeremo (sicuramente non di fronte al prossimo morto sul lavoro)?

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