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La reiterata delegittimazione con condotte diffamatorie e moleste che travalichi l’esercizio della libertà di espressione o informazione configura il delitto di atti persecutori. Integra il delitto di atti persecutori l’opera di reiterata delegittimazione realizzata attraverso una serie protratta di condotte diffamatorie e moleste che, travalicando i limiti del legittimo esercizio della libertà di espressione e di informazione, configurano uno stillicidio persecutorio ai danni della persona offesa, costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita e sottoponendola ad uno stato di ansia e di turbamento determinato dalla costante paura di essere vittima di attività denigratoria.

La Quinta Sezione ha dichiarato infondato il ricorso proposto dall’imputato avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Catanzaro con la quale, detto organo giudicante, aveva confermato, anche agli effetti civili, la condanna del ridetto imputato in ordine al reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 595 c.p. commesso diffondendo, sul proprio profilo Facebook e su in sito internet, notizie di carattere diffamatorio nei confronti del Sindaco di un Comune della zona.

E, ancora, in parziale riforma della decisione assolutoria di primo grado, la Corte catanzarese aveva accolto il gravame della parte civile, dichiarando la responsabilità dell’imputato, agli effetti civili, in ordine al reato di atti persecutori, commesso ai danni della medesima persona offesa, avendo divulgato in modo sistematico, nella rete telematica, i citati post diffamatori con conseguente condanna del medesimo al risarcimento della parte civile costituita anche per i danni conseguenti al compimento degli atti persecutori (la cui liquidazione veniva rimessa al giudice civile).

Il ricorrente, con quattro motivi di ricorso, lamentava:

  • l’inammissibilità dell’atto di appello della parte civile atteso che la medesima lo avrebbe proposto ai sensi della norma contenuta nell’art. 578 c.p.p. ossia proponendo il gravame, ai soli effetti civili, avverso una sentenza in relazione a un reato per il quale è intervenuta l’amnistia o la prescrizione (nel caso di specie il reato non era prescritto né vi era stata amnistia);
  • l’inosservanza della norma contenuta nell’art. 573, comma 1-bis, c.p.p.;
  • l’insussistenza degli elementi costitutivi del delitto di atti persecutori posto che tale reato non potrebbe essere integrato solo da condotte di reiterata diffamazione a mezzo stampa;
  • la violazione delle norme contenute negli artt. 51 c.p. e 21 Cost. perché la Corte di appello non avrebbe valutato la sussistenza della esimente del diritto di critica.

Partendo dal primo motivo di doglianza, la Suprema Corte ha ribadito che “la parte civile è legittimata a proporre impugnazione avverso le sentenze di proscioglimento ex art. 576, comma 1, c.p.p..” e che l’errata indicazione della norma di legge è da intendersi quale refuso che non può incidere sulla ammissibilità del gravame.

Ancora, “sul regime temporale di applicabilità dell’art. 573 comma 1-bis c.p.p. (introdotto dall’art. 33 D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 150)” e sulla inosservanza di detta norma, le Sezioni Unite, con sentenza n. 38481 del 25/05/2023, “hanno stabilito che l’art. 573, comma 1-bis, c.p.p., si applica alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte relativamente ai giudizi nei quali la costituzione di parte civile sia intervenuta in epoca successiva al 30 dicembre 2022, quale data di entrata in vigore della citata disposizione”.

Pertanto, secondo il Supremo Collegio, non è ravvisabile alcuna inosservanza considerato che la costituzione di parte civile è avvenuta prima della entrata in vigore della norma anzidetta.

La Suprema Corte ha reputato infondato anche il terzo motivo di ricorso.

Preliminarmente devesi evidenziare che la disamina del fatto e il suo inquadramento giuridico è stata svolta “nella specifica prospettiva della responsabilità civile” e, di conseguenza” “la sussistenza o meno di fatti integranti il delitto di atti persecutori” è stata dotata di rilevanza “esclusivamente ai fini del risarcimento dei danni conseguenti”.

Orbene, la condotta posta in essere dall’imputato (trattavasi di una campagna mediatica denigratoria eseguita, con la pubblicazione, quasi giornaliera, sulla pagina Facebook e sul blog, di post contenenti violenti attacchi calunniosi ai danni della persona offesa) ha determinato, in capo alla persona offesa, uno stato d’ansia e di malessere tale da giungere alla somministrazione di una cura farmacologica.

Di tal che, secondo la Suprema Corte è ravvisabile la condotta materiale del reato di atti persecutori in caso di ripetute condotte diffamatorie e determinanti, ex se, la violazione della norma contenuta nell’art. 595 c.p..

Difatti, “secondo gli insegnamenti della Corte Costituzionale e della Corte di cassazione, la fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p. si configura come specificazione delle condotte di minaccia o di molestia già contemplate dal codice penale. Molestare significa alterare in modo fastidioso o importuno l’equilibrio psichico di una persona (così Corte Cost. sent n. 172 del 2014)

E, ancora, “rientra nella nozione di molestia, quale elemento costitutivo del reato di atti persecutori, qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza o interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio e ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica (Sez. 5 n. 1753 del 16/09/2021, dep. 2022, Q., Rv. 282426)”.

In tal senso devesi rilevare:

  • che “l’evento deve essere il risultato della condotta illecita valutata nel suo complesso, nell’ambito della quale possono assumere rilievo anche comportamenti solo indirettamente rivolti contro la persona offesa e anche di tipo subdolo (cfr. Sez. 6, n. 8050 del 12/1/2021, G., Rv. 281081)”;
  • che “nel concetto di molestia possono rientrare anche condotte diffamatorie quando, oltre a ledere ingiustamente l’altrui reputazione, si connotino in concreto, per modalità di attuazione e ripetitività, come vere e proprie molestie realizzando un’indebita ingerenza o interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione, ai danni di quest’ultima, di un clima intimidatorio e ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica (Sez. 5, n. 15734 del 13/01/2023, M., Rv. 284587) o, comunque, si correlino all’aggravamento e consolidamento della lesione della riservatezza della persona offesa e della manipolazione della sua identità personale nel contesto familiare, lavorativo, sociale, politico (cfr. Sez. 5, n. 29826 del 05/03/2015, P., Rv. 264459)”.

Secondo la Quinta Sezione, la commissione del reato di atti persecutori richiede il compimento di una serie di condotte diffamatorie tali da travalicare i limiti dell’esercizio della libertà di espressione e di informazione determinando “uno stillicidio persecutorio ai danni della persona offesa” e la conseguente necessità “di alterare le (…) abitudini di vita (da parte della persona offesa)  sottoponendola ad uno stato di ansia e di turbamento determinato dalla costante paura di essere vittima di attività denigratoria (Sez. 5, n. 1813 del 17/11/2021, dep. 2022, Biundo, Rv. 282527; Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T., Rv. 262635)

Nella fattispecie in esame, la condotta dell’imputato, secondo la Suprema Corte, è da qualificarsi come una forma di “stillicidio persecutorio (…) nel corso della sua (illecita) campagna mediatica contro la persona offesa (cfr. iri motivazione Sez. 5, n. 1813 del 17/11/2021, dep. 2022, Biundo) senza dubbio idoneo a integrare la condotta materiale degli atti persecutori”.

E, ancora, il Supremo Collegio ha ribadito che il delitto di atti persecutori può concorrere con quello di diffamazione atteso che “il confronto tra fattispecie astratte – unico criterio idoneo a riconoscere o negare il concorso apparente di norme (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, Rv. 270902; Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv. 235962; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232302) – rende evidente come ricorra un concorso di reati; né d’altra parte opera la clausola di riserva dell’art. 612-bis c.p. (riferita al fatto costituente più grave reato), né, infine, si verte in una situazione di reato complesso ex art. 84 c.p., posto che il reato di diffamazione non è elemento costitutivo del delitto di atti persecutori”.

Infine, con riferimento alla invocata esimente dell’esercizio del diritto di critica, secondo i Giudici di legittimità, la doglianza del ricorrente non è connotata da specificità risultando, invece, caratterizzata da un elevato profilo di astrattezza tale da non riuscire a contrastare l’impianto argomentativo della impugnata sentenza.

 

Cassazione penale sez. V – 15/11/2023, n. 49288

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