Taluni provvedimenti limitativi della libertà personale recentemente emessi dalla autorità giudiziaria italiana ci hanno informati del fatto che in Francia sembrano esserci dei server appartenenti a una società canadese nei quali pare siano depositati tutti i messaggi inviati dagli utilizzatori di apparecchi definiti “cripto-fonini”.
Tali provvedimenti, altresì, ci dicono che l’autorità giudiziaria francese, di sua iniziativa, ha aperto un procedimento penale per una serie di reati genericamente descritti, ha emesso dei provvedimenti con cui veniva autorizzata l’esecuzione di intercettazioni telematiche e, sulla base di essi, ha setacciato i server, ha acquisito i dati telematici colà reperiti, li ha decodificati con l’uso di una chiave ignota e, a distanza di tempo, li ha trasmessi all’autorità giudiziaria italiana che, con apposito O.E.I., ne ha fatto richiesta.
Inoltre, sempre l’autorità giudiziaria francese sembra aver opposto il segreto di Stato sulle modalità di acquisizione, estrapolazione e decrittazione dei dati ritenendo di non poter rendere ostensibili i relativi passaggi procedimentali.
Ciò significa che le modalità con le quali sono state intercettate le comunicazioni telematiche sono ignote così come il sistema che avrebbe consentito l’acquisizione dei dati criptati e la successiva trascrizione dei medesimi.
Ciò ulteriormente implica che il giudice italiano dovrebbe utilizzare quale prova a carico i risultati di una attività di intercettazione compiuta nel territorio di un altro Stato senza poter verificare se le modalità con cui essa è stata compiuta siano conformi ai principi generali dell’ordinamento interno.
Ciò, altresì, comporta che l’imputato del processo interno dovrebbe essere giudicato senza poter conoscere le modalità con le quali è stata, di fatto, acquisita la prova con cui egli verrà, verosimilmente, condannato e senza poterne verificare realmente il contenuto.
Orbene, la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema evidenziando:
- che lo “Stato francese può legittimamente opporre il segreto sul punto”;
- che “la legittimità delle modalità di acquisizione e decrittazione dei dati deve ritenersi garantita dal controllo che su questa attività è stato compiuto dall’autorità giudiziaria francese”;
- che il segreto è stato opposto non solo alla parte privata, ma, anche, alla Procura della Repubblica di Napoli;
- che l’opposto segreto non lede il diritto all’informazione nei procedimenti penali posto che, in base alla disposizione contenuta nell’art. 7 comma 4 della direttiva 2012/13 UE, l’accesso può essere rifiutato “qualora possa minacciare gravemente la sicurezza interna dello Stato membro in cui si svolge il procedimento penale” (Corte di Cassazione – sez. IV 5 giugno 2023, n. 23999).
La riferita pronuncia pone il problema del rapporto tra segreto di Stato e diritto di difesa.
Un ulteriore problema è quello di stabilire se il segreto, che pertiene a uno Stato diverso da quello italiano, può eventualmente condizionare il processo penale che si svolge nel territorio dello Stato ovvero se il diritto alla conoscenza degli atti, riconosciuto al soggetto che riveste la qualifica di imputato, può essere escluso a cagione della riferita esistenza del menzionato “segreto”.
In proposito, devesi rilevare che i documenti trasmessi dalla autorità giudiziaria francese a quella italiana divengono atti procedimentali, il contenuto di tali documenti è destinato a costituire prova e, di conseguenza, si pone il problema della loro utilizzazione nel procedimento interno.
Però, tale profilo ovvero quello della validità degli atti compiuti all’estero da altra autorità giudiziaria diversa da quella italiana secondo la lex loci postula la trattazione di una questione connessa che, in modo atecnico, può definirsi preliminare siccome concernente la conoscenza e il controllo della prova e, segnatamente, degli atti che ne documentano l’esistenza.
Invero, il primo problema che si pone in relazione alla prova è, evidentemente, quello di provare che essa esiste e presenta un determinato contenuto.
Quindi, la parte, che intende utilizzare una prova, deve innanzitutto dare dimostrazione della sua esistenza e degli atti compiuti per acquisire l’elemento che ne sostanzia i contenuti.
Il tema della dimostrazione delle modalità acquisitive dell’elemento ovvero del procedimento seguito per il compimento dell’atto riveste primario rilievo poiché concerne il rispetto delle regole procedurali e il controllo giudiziale afferente la legittimità delle medesime.
Orbene, la mancata ostensione di tali atti, il fatto di darne giustificazione accampando il segreto di Stato e la conseguente negazione del diritto di accesso agli atti riguardanti le attività volte alla acquisizione della prova significa abdicare al processo tecnico ovvero rinunziare a verificare il rispetto delle regole procedurali.
L’operazione sinora evocata ovvero quella concernente la dimostrazione dell’esistenza della prova necessariamente postula che l’atto compiuto dalla parte venga documentato con le forme e nei modi previsti dalla legge.
Così, la parte non può affermare che esistono “dichiarazioni” né può tentare di processualizzarle se le stesse non sono documentate in un verbale debitamente sottoscritto dal soggetto che le ha rese e lo stesso dicasi degli esiti di una perquisizione o del fatto che si è proceduto a un sequestro.
La legge processuale, imponendo la documentazione degli atti, vuole sostanzialmente scongiurare il rischio che si possa pervenire alla affermazione della penale responsabilità dell’imputato in assenza di un effettivo contraddittorio ovvero attraverso la dichiarazione indiretta di un ufficiale di polizia giudiziaria che racconta il contenuto di prove non documentate delle quali semplicemente ne assume l’esistenza.
Così, il risultato di una intercettazione non può essere riferito dal testimone o riassunto in una annotazione di P.G. eventualmente inclusa nel fascicolo in virtù del consenso acquisitivo, ma deve risultare da un documento fonico che necessita di essere ascoltato e trascritto e, prima ancora, tempestivamente osteso alla parte che lo richiede.
Del pari, il contenuto di una dichiarazione non può essere riportato in sintesi da un “testimone qualificato” adducendosi che, dell’atto acquisitivo, non è stato redatto il relativo verbale.
Quindi, il fascicolo delle indagini preliminari deve presentare un contenuto “tipico” ovvero deve essere costituito da atti che documentano tutte le attività investigative progressivamente compiute secondo la loro scansione temporale e logica.
Tale fascicolo, il cui contenuto deve essere osteso alla parte privata al fine di consentire il corretto esercizio del diritto di difesa, non può essere sostituito da una sorta di “dossier investigativo” il cui contenuto sarebbe insuscettibile di qualsiasi controllo a opera delle parti e del giudice.
E, invero, le norme di diritto interno e anche quelle di diritto internazionale pattizio riconoscono all’incolpato il diritto di essere informato sui motivi dell’accusa, di conoscere le prove a carico, di disporre del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la propria difesa.
Quindi, il diritto di difesa si sostanzia nella concreta possibilità, data all’imputato, di difendersi.
Orbene, la possibilità di difendersi primariamente postula che l’incolpato possa esercitare il diritto di accesso agli atti procedimentali e che, all’interno di tali atti, trovi tutti gli elementi inizialmente impiegati per formulare l’accusa nei suoi confronti e, poi, per sostenerla in giudizio.
Pertanto, può affermarsi che non esiste diritto di difesa senza conoscenza degli atti.
Ciò premesso, ci si deve chiedere che cosa accade se la conoscenza degli atti procedimentali è inibita dall’esistenza del segreto di Stato ovvero se essi, per tale motivo, sono reputati segreti e vengono, conseguentemente, sottratti alla conoscenza dell’incolpato.
Il problema vieppiù si pone allorquando il segreto non riguarda lo Stato italiano e non viene opposto dai pubblici ufficiali, dai pubblici impiegati e dagli incaricati di un pubblico servizio nel corso di una deposizione resa nel territorio dello Stato e nell’ambito di un procedimento penale interno.
In proposito, devesi evidenziare che l’ordinamento giuridico interno, assegnando rilevanza al segreto di Stato, inibisce alla autorità giudiziaria l’acquisizione e la utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte da segreto.
Naturalmente l’autorità giudiziaria può procedere in base a elementi autonomi e indipendenti dagli atti, documenti e cose coperte dal segreto di Stato ossia può condurre l’accertamento penale facendo uso di altre prove diverse da quelle segretate.
Però, se la conoscenza degli atti coperti dal segreto di Stato risulti essenziale per la definizione del processo, il giudice dichiara non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato.
Inoltre, la legge processuale italiana prevede l’esclusione del segreto per fatti, notizie o documenti riguardanti taluni reati normativamente indicati ovvero afferenti condotte poste in essere da appartenenti ai servizi di informazione per la sicurezza in violazione della disciplina concernente la speciale causa di giustificazione prevista per le attività del personale del servizio di informazione per la sicurezza.
La disciplina interna, testé riassunta, induce ad affermare che il fatto, costituente oggetto del segreto di Stato, non può essere rivelato e neppure utilizzato per condannare l’imputato.
Inutile precisare che ci troviamo in presenza di un vero e proprio divieto d’uso espressamente previsto dalla legge e posto a presidio del diritto di difesa.
Tale divieto riguarda il fatto del quale non sono note le modalità di acquisizione o di conoscenza e che non possono essere rivelate stante l’esistenza del segreto di Stato.
Peraltro, la norma di diritto interno unicamente si riferisce al segreto che riguarda lo Stato italiano posto che la procedura per escluderne l’esistenza postula l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri che viene chiamato a darne conferma.
Ciò posto, devesi evidenziare che talvolta la notizia coperta da segreto non riguarda il fatto avente efficacia dimostrativa in relazione al delitto costituente oggetto di accertamento penale, ma le modalità di acquisizione o conoscenza del medesimo.
Si pensi al testimone che riferisce un fatto astrattamente decisivo e che poi oppone il segreto di Stato rifiutandosi di indicare l’ulteriore fatto che ne avrebbe consentito la conoscenza o la fonte da cui esso promana.
In casi consimili, il segreto non riguarda il fatto che costituisce oggetto di prova, ma l’insieme delle attività procedimentali che hanno condotto alla conoscenza del medesimo.
Pertanto, il segreto di Stato potrebbe riguardare l’assenza di documentazione degli atti investigativi o il mancato deposito di documenti destinati a provare il fatto che viene unicamente rivelato.
In tal caso, la conoscenza di quanto coperto da segreto è essenziale sotto il profilo procedimentale per la definizione del processo posto che incide sul corretto esercizio del diritto di difesa.
Infatti, la mancata conoscenza di attività procedimentali coperte dal segreto di Stato e la correlativa assenza della necessaria documentazione inibisce l’esercizio del diritto di difesa determinandone una concreta lesione.
Peraltro, il fatto di opporre il segreto di Stato sulle attività procedimentali funzionali alla individuazione delle fonti di prova e alla acquisizione dei relativi elementi ovvero quello di giustificare la mancata ostensione degli atti richiamando l’esistenza del segreto impedisce all’imputato di verificare la ritualità delle operazioni compiute e di eccepire l’eventuale invalidità dei relativi atti a cagione della contrarietà con i principi generali del diritto interno.
Quindi, il divieto d’uso, che il diritto interno collega al segreto di Stato, è una sanzione diretta a garantire non soltanto il diritto di difesa, ma, anche, l’equità del giudizio.
Infatti, non può esservi giusto processo senza conoscenza degli atti.
Peraltro, tale conoscenza deve essere integrale ossia deve riguardare tutti gli atti formati nel corso delle indagini preliminari ivi compresi quelli documentanti i passaggi procedimentali attraverso i quali sono stati acquisiti gli elementi destinati a essere utilizzati quale prova del fatto enunciato nell’imputazione.
Invero, tale principio non riguarda unicamente l’ordinamento interno.
In proposito, devesi evidenziare che le fonti di diritto internazionale riconoscono alle persone arrestate o ai loro avvocati il “diritto di accesso…a tutto il materiale probatorio in possesso delle autorità competenti” (art. 7 comma 2 direttiva 2012/13 UE).
Tale diritto serve “per garantire l’equità del procedimento e consentire la preparazione della difesa”.
Ciò significa che anche le fonti di diritto internazionale tendono a garantire l’equità del giudizio e il corretto esercizio del diritto di difesa riconoscendo alla parte privata un illimitato diritto di accesso agli atti.
Ne deriva che l’eventuale lesione di tale principio implica l’invalidità della prova e l’impossibilità di farne uso indipendentemente dal luogo nel quale essa è stata acquisita e dalle regole impiegate per pervenire a tale risultato.
Il segreto di Stato (anche quello riguardante un altro Stato diverso da quello italiano) non può ledere tali principi ossia non può giustificare la negazione del diritto di accesso a tutto il materiale probatorio in possesso delle autorità competenti.
Invero, il segreto di Stato può inibire l’accesso agli atti impedendone la conoscenza solo se ricorrono le situazioni normativamente previste tra cui rientra il caso in cui la rivelazione del fatto coperto da segreto e l’ostensione degli atti segretati possano “minacciare gravemente la sicurezza interna dello Stato membro in cui si svolge il procedimento penale” (art. 7 comma 4 direttiva 2021/13 UE).
Orbene, tale ipotesi, giustificante la deroga del principio generale secondo cui l’incolpato ha il diritto di accesso agli atti, deve essere provata e non meramente affermata con il deliberato intendimento di limitare il diritto di conoscenza degli elementi di prova riconosciuto all’imputato.
Inoltre, la norma testé evocata fa riferimento alla “sicurezza interna dello Stato membro nel quale si svolge il procedimento penale” che, nel caso considerato nella sentenza in commento, è da individuarsi nello Stato italiano che ha emesso l’ordine di indagine.
Ciò implica che lo Stato di esecuzione non può negare il diritto di accesso agli atti facendo unicamente menzione della generica esistenza del segreto di Stato e, comunque, si dovrebbe provare che la ostensione degli atti minaccia la sicurezza interna dello Stato di emissione dell’ordine di indagine.
Pertanto, secondo la citata pronuncia, l’imputato del processo interno non potrebbe esercitare il diritto di accesso agli atti e dovrebbe subire le conseguenze derivanti dall’uso probatorio di atti parzialmente coperti da un “segreto” opposto dalla autorità giudiziaria di un altro Stato seppure concernente la sicurezza di quello (ossia dello “Stato”) italiano.
E, ancora, la parte pubblica dovrebbe assumere le sue determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale senza avere conoscenza delle modalità di individuazione delle fonti di prova e di acquisizione degli elementi probatori costituiti dai dati telematici ottenuti anche per effetto della decriptazione dei medesimi.
Infine, il giudice interno dovrebbe pronunciarsi in punto di responsabilità senza poter effettuare il controllo di legittimità della prova stante la esistenza del segreto opposto da un altro Stato.
Di tal che, il segreto di Stato italiano implica l’impossibilità di utilizzare il fatto o l’atto coperto da segreto e determina la impossibilità di procedere nel giudizio.
Di converso, il “segreto di Stato”, opposto da un altro Stato, non determinerebbe nel procedimento interno le conseguenze dianzi indicate.
Tutto ciò sarebbe evidentemente lesivo dei principi generali dell’ordinamento giuridico italiano.
Le riferite considerazioni inducono ad affermare che il segreto di un altro Stato non può vulnerare i diritti dell’imputato nel procedimento interno né giustificare la iniquità del giudizio derivante dalla negazione del diritto di accesso agli atti e dalla impossibilità di procedere al controllo di legittimità sulla prova.
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Avv. Antonio Russo (Penalista Foro di Locri)
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