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Giuseppe Simonetti: l’avvocato, il maestro

Avv. Giuseppe Simonetti

“Insieme gradito e ingrato il compito che mi è stato richiesto dagli amici della Camera penale che porta il Suo nome: ricordare Giuseppe Simonetti.

Gradito, perché di Lui uomo, giurista, avvocato, devo dire; ingrato, perché devo attingere ai ricordi di tanti momenti che smuovono emozioni che si fanno commozione.”

Il ricordo del suo ultimo allievo: Sandro Furfaro

Sandro Furfaro e Giuseppe Simonetti
Avv. Giuseppe Simonetti a New York

I ricordi, poi, sono tanti se molti sono stati gli anni vissuti insieme, fianco a fianco, con Lui. Ed essi naturalmente dilatano – e mi vien dire, dilagano – in una memoria più ampia, quella dei cinquant’anni della Sua attività professionale e agli inizi anche accademica che non mancava mai di raccontarmi indicando, non solo nomi, processi, eventi ma le sensazioni vissute arricchite dai Suoi ripensamenti postumi. Incredibili, quegli anni passati insieme: la mia formazione alla vita, al pensiero, alla cultura. Incredibili e formidabili se ogni occasione – e anche il più banale bisticcio o contrattempo (ve ne sono stati tanti) – era momento di dialogo serrato, confronto, insegnamento.

Sono stato l’ultimo dei giovani avvocati che ha accompagnato nella ventura forense e nella vita. Prima di me, tantissimi altri che in seguito hanno conquistato l’agone penale nazionale: Giuseppe Gentile, che era stato il Suo primo allievo e che ebbe la sfortuna di piangere; Cosimo Pedullà, a Teramo e Lanciano; Pietro Muscolo, a Genova; Fiorenzo Grollino, a Roma. E, poi, Amedeo Macrì, Nino Maio, Giuseppe Lupis, Antonio Chirillo suo nipote, Giovanni Simonetti, che pur rimanendo a Locri si sono affermati ben oltre i confini calabresi, così come Antonio Speziale, Menotti Ferrari, Mario Mazza che quotidianamente onorano la Sua memoria in ogni curia.

Giuseppe Simonetti

Cos’è un Avvocato

Se tanto di quel che ha lasciato resta, e se a trentacinque anni dalla Sua scomparsa tanti, apprezzandone le doti, ancora lo nominano comunicando a chi non lo ha conosciuto insegnamenti e valori, vuol dire che questo ricordo di Giuseppe Simonetti è l’occasione per riflettere su che cosa sia un grande avvocato, un grande cultore del diritto, un uomo che senza riserve elargisce il suo sapere.

Chi ha detto che ogni riuscita nella vita è racchiusa nel mistero della parola successo e che essa nient’altro è che il participio passato del verbo succedere forse ha colto nel segno: Giuseppe Simonetti è stato uno degli eventi riusciti che doveva succedere!

Non aveva trovato bastoni di maresciallo nella culla, né ha avuto altro che l’affetto della famiglia che, capendo o forse solo intuendo il Suo valore, gli ha permesso di compiere gli studi universitari a Roma: a Sant’Ivo alla Sapienza, come diceva, dove allora, a due passi da Palazzo Madama, era la Facoltà di Giurisprudenza.

Gli inizi…

Era il 1930, aveva diciassette anni. I Suoi Maestri li ricordava spesso. Tra i più: Giorgio Del Vecchio, professore di Filosofia del diritto; Arturo Rocco, professore di Diritto penale; Vittorio Scialoja, professore di Diritto romano; soprattutto, Filippo Vassalli, professore di Diritto civile, col quale si laureò, nel 1933, con lode e pubblicazione della tesi in diritto ereditario, divenendone assistente fino a quando le contingenze della vita gli imposero il ritorno a Locri (mi è capitato di leggere di recente una lettera in possesso della famiglia indirizzata al padre da Vassalli: lo implorava di favorire il ritorno a Roma del giovane studioso perché era un vero peccato, scriveva, che fosse distolto dalla congeniale propensione alla carriera accademica).

Avv Giuseppe Simonetti
Avv. Giuseppe Simonetti

Gli anni dell’Università e quelli immediatamente successivi furono per Lui gli anni degli incontri che durarono una vita: Aldo Casalinuovo, che si laureò nello stesso anno con Arturo Rocco; Giuliano Vassalli, di poco più giovane ma che, come diceva, aveva sempre precorsi i temi con coraggio; Rosario Nicolò, già professore a Catania, spesso all’Istituto di Diritto privato ad incontrare Filippo Vassalli perché già avviati i lavori per il nuovo Codice civile che vedrà la luce nel 1942.

Il ritorno a Locri…

Ritornato a Locri, non potendo vivere il diritto civile come avrebbe voluto, lo abbandonò definitivamente dedicandosi allo studio del diritto e della procedura penale e alla professione con un tale approccio meticoloso e speculativo alle norme e alle questioni che ha sempre tradito l’originaria vocazione civilistica.

Da studioso, non si sottrasse mai alla divulgazione, pubblicando contributi di rilievo, tanto sulla rivista Il Nuovo Diritto, di cui era redattore, tanto su La Giustizia penale, diretta allora da Giuseppe Sabatini del quale era amico, non disdegnando, agli inizi degli Anni Ottanta, di fondare una collana – durata purtroppo poco – dal significativo titolo La Difesa controlli l’Accusa che, a cadenza mensile, pubblicava fascicoletti dedicati agli argomenti di attualità.

Avv. Giuseppe Simonetti

Da avvocato, fu subito apprezzato e divenne immediatamente un nome nell’agone penale calabrese, nel quale erano già affermati o, come Lui, si stavano affermando Aldo Casalinuovo, Alfredo Cantafora, Giuseppe Seta, a Catanzaro; Gaetano Sardiello, Francesco Giurato, Domenico D’Ascola, a Reggio; Rodolfo Ferrari, a Palmi; Luigi Gullo a Cosenza.

Fu particolarmente legato ad Alfredo De Marsico che volle spesso al Suo fianco quando, finito l’ostracismo nel 1953, il Professore poté riprendere la cattedra e la professione e dal quale, immancabilmente, riceveva ogni pubblicazione affettuosamente dedicata (la famiglia ha diverse fotografie che ritraggono i due a Locri, nel giardino di casa Simonetti o nello studio e una è particolarmente significativa del sentimento che li univa: vi compaiono loro a braccetto).

Avv. Giuseppe Simonetti e Avv Alfredo De Marsico

I quattro moschettieri…

L’agone penale a Locri negli Anni Sessanta e Settanta del Secolo scorso era ben definito su “I quattro moschettieri” (così tra loro si definivano, ognuno riconoscendo, compiaciuto, i meriti dell’altro, secondo un costume di civiltà ormai non più in voga): Giovanbattista Gliozzi, il decano, vincitore dei Ludi giuridici nazionali nel 1930; Giuseppe Femia, il migliore  a detta degli altri, che morì, giovanissimo, una settimana dopo essere stato eletto senatore; Giuseppe Simonetti, appunto, e Severino Sfara, il più giovane, che, dicevano, aveva portato nell’eloquio l’ardimento del cavallerizzo che era stato in guerra. Non ho conosciuto, purtroppo, Giuseppe Femia, ma ho potuto apprezzare Gliozzi e Sfara ed è stata una conferma.  Quel che ho colto, però, è stata l’intimità che persisteva tra i tre moschettieri superstiti che l’assenza di Femia sembrava avere maggiormente legato: davvero altri tempi rispetto a ciò che oggi contraddistingue, purtroppo, il costume forense, dove ognuno sta contro l’altro armato come una volta i mercanti nelle fiere.

Avv. Giuseppe Simonetti

L’arte oratoria…

Ma come era Giuseppe Simonetti nel processo? Nell’istruttoria, forte del monito che al di là dello strettamente necessario cheta non movere, gli interventi erano oculati, calibrati almeno fin quando tutto filava liscio in punto di rispetto delle regole; i chiarimenti richiesti ai testimoni erano pochi, evitando che essi si risolvessero in critiche immediate o, peggio, in anticipazione del pensiero che avrebbe sorretto la discussione: niente divagazioni, quindi; niente commenti; l’essenziale e soltanto rispetto a ciò che serve. Nella discussione, era invece l’eleganza a colpire. La Sua eloquenza, pur nelle diverse vibrazioni dei toni, ora caldi e suadenti, ora acuti, conservava sempre perfetta eleganza di stile al pari dell’atteggiamento che assumeva e che era destinato ad attrarre: in piedi, la testa imperante su un corpo comune che nel discutere si muoveva pochissimo, lo sguardo fisso verso i giudici ad affermare la ferma certezza dell’asserzione e l’autorità da cui proveniva, l’assenza di appunti cui attingere anche quando la discussione era previsto impegnasse ore e ore erano l’espressione plastica del Suo precedente impegno nell’appropriarsi del processo e degli argomenti da svolgere e della Sua profonda dedizione alla causa cui restava fedele sempre, senza alcuna indulgenza per l’artificio.

Avv. Giuseppe Simonetti

Lo scopo, il contenuto dell’arringa, la forma convergevano, tutti, in uno stile secco e sodo: rapidamente veniva su una costruzione a muri pieni con “la poca calce” – ha detto De Marsico – “necessaria a riempire le connessure dove i massi non combaciassero o non si equilibrassero per sovrapposizione”. Costruzione senza intonaco, senza stucchi, senza civetteria di cordoli o di cornici: l’attrazione veniva dall’interno, dalla profondità e fermezza delle fondamenta, dall’armonia dei piani dell’argomentazione piana che, inesorabilmente, convergeva verso l’obiettivo perseguito.

Il suo modo di essere…

Dei tanti processi cui potrei attingere per sottolineare il Suo modo di essere e di agire, mi piace ricordarne uno soltanto, quello a carico di un’uxoricida che mi pare davvero significativo dell’approccio di Simonetti al processo. La vicenda era brutta: dopo mesi di sofferta abnegazione, prima, e di profondo sconforto, poi, M. uccise la moglie, schizofrenica, dimessa dall’ospedale psichiatrico appena un anno prima a seguito dell’entrata in vigore della legge Basaglia. Ogni qualvolta rimaneva sola la donna fuggiva di casa e il marito, lavoratore nell’edilizia, era costretto al rientro a cercarla, spesso aiutato dai vicini e dalle forze dell’ordine. Dopo averla riportata a casa, era solito legarla al letto o seduta su una seggiola, cercando di calmarla come poteva, facendosi promettere che non sarebbe più fuggita. All’ennesima fuga, il marito, rientrato d’urgenza a casa, si mise alla ricerca di lei seguendo le indicazioni di coloro che l’avevano vista per strada e inutilmente avevano avvertito la polizia locale.

Avv. Giuseppe Simonetti

La vide che vagava sulla spiaggia e le si mosse incontro per riprenderla, ma ella fuggì e lui, raggiuntala, l’afferrò con forza, la strattonò e, mentre lei tentava di divincolarsi, in un momento d’ira la buttò a terra e con una grossa pietra lì raccattata la colpì in testa. Inutili i soccorsi subito da lui richiesti, la donna morì meno di un’ora dopo. Stante l’evidenza dell’oggettività dell’evento, definito anche a seguito della confessione dell’omicida, il problema fondamentale del processo, più che costituito dalla valutazione in termini giuridici del fatto, era rappresentato dal peso del comportamento precedente dell’imputato nei confronti della moglie. Era necessario, insomma, far comprendere ai giudici della Corte d’Assise come quel comportamento fosse ininfluente rispetto alla valutazione dell’evento. Sul comportamento pregresso aveva appuntato grande attenzione la parte civile, che per tutto il processo insistette sul punto, non senza indugiare su pretesi atteggiamenti sessisti dell’imputato. Sfilarono i testimoni e tutti furono pressoché concordi nel narrare ciò che, nei mesi, costituiva purtroppo il normale andamento della vita dei coniugi, per fortuna senza figli: all’uscita di casa del marito, la donna fuggiva, aggirandosi per le strade del paese, insensibile ai richiami dei vicini e delle persone che incontrava, così come a quelli degli agenti della polizia che, rintracciatala e ricondotta a casa, provvedeva a far rincasare il marito. Tutti, per altro, confermarono che, a quel punto, l’atteggiamento del coniuge era quanto mai duro, non mancando egli di strattonarla e di legarla al letto per farla calmare: circostanza, questa, più volte accertata anche dai poliziotti che l’avevano direttamente constatata. Nonostante il fuoco di fila delle domande del pubblico ministero e della parte civile su tale comportamento dell’imputato, non una domanda Simonetti rivolse ai testimoni. Come se davvero il processo, nei punti seriamente aggredibili (la valutazione anche in considerazione dell’esclusione di circostanze attenuanti e di ricorrenza di circostanze attenuanti), non trovasse proprio in quel comportamento il maggiore intoppo, tutto passò liscio sino al momento della discussione con le invettive della parte civile (che al tempo parlava per prima) e la richiesta della pena massima della pubblica accusa.

L’intervento di Simonetti fu un capolavoro di ricercatezza: sfruttando tutto ciò che appariva contrario vinse argomentando in maniera impeccabile. Dopo avere sommessamente ricordato che, secondo la teoria dell’ontogenesi e della filogenesi, l’uomo – ogni uomo – ripercorre dal concepimento in poi tutte le tappe compiute dall’umanità fino al suo stadio di sviluppo psichico e culturale, e dopo avere sottolineato con forza che lo sviluppo psichico e culturale dell’imputato si era fermato appena alla licenza elementare, l’affondo fu davvero esemplare: se le terapie riservate ai soggetti ribelli negli ospedali psichiatrici erano il letto di contenzione, le sveglie improvvise, le docce fredde, l’elettrochoc – pratiche, tutte, effettuate fino ad appena un anno prima che la donna fosse dimessa – perché mai, si chiese e chiese, M., appena istruito, costretto suo malgrado a sopportare, vittima al pari della moglie più di scelte ideologiche che di risultati scientifici accertati, avrebbe dovuto saperne di più di quel fior fiore di specialisti psichiatri mondiali che alla ribellione dei pazienti rispondevano ponendo in essere oggettive violenze ben maggiori di quelle che l’imputato aveva riservato alla moglie ribelle? Superato lo scoglio della pregressa violenza, dell’omicidio, adesso, si poteva davvero discutere senza alcun preconcetto e la pena inflitta all’omicida – quattordici anni – neppure impugnata dall’accusa fu davvero il riconoscimento dei meriti dell’Avvocato.

Riflessioni…

Il ricordo di quell’arringa mi consente di richiamare un’altra costante essenziale dell’atteggiamento di Simonetti nel processo: lo sforzo di avvicinare il più possibile il giudice all’imputato.

Secondo lui – come vedremo, in buona compagnia quando ancora l’umanità era evocabile – la prospettiva integrale in cui il problema del processo penale – ogni problema che concerne il processo penale – va affrontato, discusso e deciso è costituita proprio dalla unità che qualifica homo iudicans e homo iudicandus: l’essere, appunto, entrambi uomini, con tutto il seguito di difficoltà che ciò comporta in termini di confronto tra gli uomini.

Avv. Giuseppe Simonetti

Si tratta, è ovvio, delle difficoltà che nascono essenzialmente da quel guaio che Carnelutti ha individuato nell’apparire l’homo iudicandus come un nemico: “Si parla, nel gergo delle cronache, di nemico numero uno, a proposito di certi delinquenti famosi; ed è una giusta parola. Cos’è il delitto se non un atto di inimicizia? Sembra una legge naturale quella che si esprime nell’aforisma: à corsaire, corsaire et demi. Il processo, purtroppo, è insidiato dalla tentazione dell’inimicizia. E così si risolve, troppo spesso, in un altro delitto. Insomma, quello del processo penale assai più che un problema tecnico è un problema morale. Vincere l’inimicizia: ecco la difficoltà”.

E come vincere le difficoltà e, al dunque, l’inimicizia? Semplicemente tenendo costantemente presente che se l’oggetto del processo può essere definito in termini di accertamento che un reato è stato commesso da taluno, tale definizione comporta la necessaria considerazione che il soggetto – l’uomo – al quale è attribuito il reato, oltre ad essere la condizione necessaria affinché il processo esista, costituisce la materia viva del giudizio, la res iudicanda, appunto, e, dunque, il fine del giudizio.

Avv. Giuseppe Simonetti

 

Non sembri, questa, una affermazione astratta da relegare magari in una dimensione metagiuridica che, in quanto tale, può interessare solo fino a un certo punto lo studio del processo e lo svolgersi di esso. Né la si consideri alla stregua di una mera astrazione, come qualcuno la considerò allorquando Carnelutti fu il primo a dirne alla fine degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Come ha ricordato di recente una attenta studiosa della dignità umana nel pensiero giuridico, Giovanna Stanzione, altri grandi teorici del processo, quali Calamandrei e Capograssi, hanno più volte ribadito la necessità che il processo rimanga sempre a misura d’uomo; che la res iudicanda non è cosa diversa dal giudice che la giudica, un uomo; che l’imputato, colpevole o non colpevole, rimane un uomo sottoposto al giudizio di altri uomini con tutte le conseguenze, il dolore, gli errori, le fallacie che questo può comportare, con la certezza che è difficile che venga fatta veramente, concretamente giustizia. È, questa, la particolarità del processo penale rispetto ad ogni altro processo: che il giudizio è “giudizio di uomini su uomini, si svolge nel tempo, si scompone in indefinita pluralità di atti, passa di grado in grado, e infine trova conclusione nella sentenza, che non è la ‘verità’, ma che viene considerata come ‘verità’ (pro-veritate accipitur, nell’inciso latino degli antichi giureconsulti). Un uomo è sottoposto a giudizio, si sente oggetto di ricerca e materia di studio, il suo passato è ricostruito, osservato, scrutato. Propriamente giudicata non è una singola azione, un frammento, ma l’intera vita, spogliata, denudata, ridotta a schema, tipizzata in base alla ‘figura’ di ciascun reato. … Per tutti – innocenti o colpevoli (solo li sapremo nell’ora della decisione) – il processo è pena” (così Natalino Irti, nel 2021, a margine del dibattito sulla prescrizione).

Per potere superare e sperare di vincere le difficoltà, per Simonetti la via era semplice e ardua all’un tempo: semplice, perché costituiva (e, se è consentito, costituisce) compito dell’Avvocato fare tutto quanto possibile per avvicinare l’homo iudicandus all’homo iudicans; ardua, perché sovente è proprio l’avvocato che, col proprio modo di proporsi, consciamente o inconsciamente crea distanze tali tra gli uomini che, inesorabilmente, nel tempo esse diventano baratri tra posizioni, cui unico linguaggio è quello della contrapposizione a priori.

Al momento dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale mi sono chiesto come avrebbe reagito l’Avvocato Giuseppe Simonetti, venuto meno tre anni prima.

Avv. Giuseppe Simonetti

Assertore tenace dei diritti della difesa in nome dei quali tentava spesso di forzare i limiti in cui essa era ingabbiata, non dubito affatto che avrebbe messo in luce, tanto le ipocrisie di un’indagine che certamente non si è redenta dal peccato inquisitorio, gonfia com’è di accertamenti indirizzati verso l’interesse che persegue la parte e il massimo disinteresse verso ciò che potrebbe essere a favore dell’indagato, quanto le antinomie di un dibattimento che pretende di essere il luogo di formazione della prova affidando il tutto, più che alla dialettica, ai subdoli sofismi, alle lungaggini, alle divagazioni.

Avv. Giuseppe Simonetti

Conoscendolo bene, credo di poter ben dire che Simonetti avrebbe fatto suo il giudizio di un altro grande avvocato e giurista, Giovanni Aricò, recentemente scomparso: il nuovo codice, frutto dei solluccheri di chi, nell’accademia, per dimostrare di esserci doveva pur fare qualcosa, da libro dei sogni si dimostrerà (come quotidianamente dimostra) libro degli incubi!

Anche perché – e, qui, ritorno all’umanità – lo strumento processuale prescelto, esaltando il concetto di controversia, maggiormente si presta ad esacerbare le posizioni, indurire i toni, acuire le contrapposizioni.

Sandro Furfaro

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