CORTE DI CASSAZIONE; sezione V; sentenza 18 ottobre 2021; Pres. DE GREGORIO;
Intercettazioni di comunicazioni – Utilizzazione in procedimenti diversi – Reato continuato e reato complesso (Codice di procedura penale artt. 12 e 270).
In base alla disciplina applicabile ai procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, antecedente alla riforma introdotta dal D.L.gs. 29 dicembre 2017, n. 216, come modificato da D.L. 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla L. 25 giugno 2020, n. 70, i risultati delle intercettazioni utilizzate per un determinato fatto-reato sono utilizzabili anche per ulteriori fatti-reato legati al primo ex art. 12 c.p.p., lett. b), vale a dire quando, al momento della commissione del primo reato della serie, i successivi siano stati già programmati (da uno o alcuno dei correi) almeno nelle loro linee essenziali, senza necessità che il disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi.
- Con la sentenza in commento prosegue la actio finium regundorum concernente l’ampiezza del divieto previsto dall’articolo 270 c.p.p. e relativo all’utilizzazione delle intercettazioni di comunicazioni in procedimenti diversi da quelli nelle quali sono state
Trattasi di un complesso percorso fatto di mutamenti interpretativi, arresti a Sezioni Unite (il riferimento è a Cass., sez. un., 28 novembre 2019, Cavallo, Foro it., Rep. 2020, voce Intercettazione di conversazioni o comunicazioni n. 91. Tra i tanti commenti alla sentenza, vedi A. INNOCENTI, Le sezioni unite limitano l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per la prova dei reati diversi da quelli per cui sono state ab origine disposte, in Dir. pen. proc., 7/2020, 993; F. VANORIO, Il permanente problema dell’utilizzo delle intercettazioni per reati diversi tra l’intervento delle sezioni unite e la riforma del 2020, in Sist. pen., 6/2020, 177) e modifiche normative che determinano difficili equilibri e lasciano agli operatori del diritto un quadro sempre più incerto con riferimento alla corretta lettura del dato normativo di cui si tratta.
Questa decisione, partendo dall’insegnamento delle citate Sezioni Unite, analizza la questione relativa alla utilizzabilità dei risultati dell’intercettazione nei procedimenti aventi ad oggetto reati connessi ex art. 12, lett. b), anche nell’ipotesi in cui il disegno criminoso che lega i più reati non fosse stato condiviso dal soggetto destinatario di indizi di reità solo a valle della attività captativa.
Il ragionamento della Corte contiene certamente corrette valutazioni relative ai presupposti necessari per l’utilizzo del mezzo di ricerca della prova in oggetto anche in riferimento a procedimenti su reati attinti dalla unicità del disegno criminoso con quello indicato nello specifico decreto autorizzativo e traduce con puntualità i risultati ermeneutici della sentenza Cavallo. Ciononostante, la pronuncia pone in evidenza taluni aspetti problematici che caratterizzano il criticabile bilanciamento tra il fondamentale interesse all’accertamento investigativo e quello alla repressione dei reati e le garanzie individuali dei soggetti coinvolti dalle operazioni di captazione.
Sarà opportuno ripercorrere, pertanto, i profili affrontati dai giudici di legittimità al fine di effettuare una valutazione sulla tenuta della soluzione adottata alla stregua dei principi di proporzionalità e riserva di giurisdizione che devono animare l’indagine processuale nella materia specifica.
- La questione devoluta alla quinta sezione riguarda la vicenda cautelare di un imprenditore raggiunto originariamente da ordinanza di custodia carceraria emessa dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in ordine all’ipotesi delittuosa di cui all’art. 319 p.,
successivamente annullata dal Tribunale del riesame di Napoli, che, però, riteneva sussistenti i gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato per i residui reati di cui agli artt. 110 e 353 bis c.p. e artt. 110, 476, 479 c.p. per avere turbato il procedimento amministrativo promosso dall’ASL di Caserta volto a scegliere l’impresa appaltatrice della fornitura di opere e apparecchiature, procedimento conclusosi con l’affidamento diretto, in assenza di gara, di un appalto del valore di € 159.000,00 in favore di società riconducibile all’imprenditore ricorrente, e, altresì, per avere falsificato le determine dirigenziali nella parte in cui si attestava la sussistenza di ragioni di urgenza, in realtà inesistenti, quale presupposto che aveva consentito l’affidamento diretto dell’appalto.
Avverso il provvedimento del Tribunale del riesame ricorreva l’indagato, articolando due motivi fondati sulla inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate in ragione della assenza di una connessione qualificata ex art. 12 c.p.p. tra i reati per i quali lo strumento era stato disposto con decreto del 7 novembre 2018 (nello specifico reati di falso, corruzione e turbata libertà degli incanti commessi da alcuni funzionari dell’ASL di Caserta al fine di assicurare le commesse pubbliche a determinate imprese con affidamento diretto) e quelli allo stesso contestati. Più in particolare, evidenziava di non aver avuto alcuna consapevolezza dell’esistenza di un disegno criminoso da parte dei funzionari coindagati, e, in virtù di ciò, denunciava che non potesse ravvisarsi alcuna ipotesi di connessione ex art. 12 c.p.p., tanto in riferimento alle ipotesi di concorso nel reato e di collegamento teleologico, quanto all’ipotesi di reato continuato per il quale solo l’identità soggettiva di tutti i compartecipi assicurerebbe l’unità del processo volitivo.
Il ricorrente precisava, infatti, che i reati addebitatigli al ricorrente sarebbero stati realizzati a valle della ideazione del disegno criminoso operata dai coindagati, non potendosi, peraltro, individuare indizi di reità in capo allo stesso al momento della emissione del decreto di autorizzazione allorquando le condotte contestategli non erano ancora state poste in essere.
Ulteriori doglianze riguardavano la carenza di motivazione sulla indispensabilità delle intercettazioni, sulla gravità indiziaria e sul necessario collegamento tra l’indagine in corso e la persona la cui utenza era stata sottoposta ad attività captativa. In definitiva, tutte le censure mosse al provvedimento cautelare si concentravano sulla possibilità di ricollegare all’ipotesi prevista dall’art. 12, lett. b) c.p.p. le condotte contestate all’indagato in virtù della assenza di indizi che qualificassero soggettivamente nei suoi confronti il provvedimento autorizzativo delle operazioni di captazione.
- Nel ritenere infondate le doglianze contenute nei motivi di ricorso i giudici partono da una premessa nella quale si dà conto della necessità di aderire alla interpretazione dell’art. 270 c.p.p. così come fornita dalle Sezioni Unite
Si ribadisce l’importanza di ancorare a criteri certi ed univoci la valutazione in ordine al legame che deve intercorrere tra i fatti-reato al fine di circoscrivere, nell’alveo di una rigida tassatività, l’area dell’utilizzabilità ex post delle captazioni, così optando per le tre ipotesi di connessione di cui all’art. 12
c.p.p. quale valida cartina di tornasole.
La Corte nella sentenza in commento condivide la soluzione prescelta dalle Sezioni Unite alla luce del fondamentale principio di cui all’art. 15 della Cost., la cui valenza rileva tanto in termini di presidio della riservatezza dei cittadini, quanto come argine nei confronti delle funzioni inquirenti, con il rischio dunque di consentire che il reato emerso grazie ai risultati dell’intercettazione non sia riconducibile al provvedimento autorizzativo e, per tale via, ribadendosi la illegittimità di autorizzazioni c.d. in bianco (vedi, in questo senso Corte cost., 11 luglio 1991, n. 366, in Foro it., 1992, I, 3257; Corte cost., 24 febbraio 1994, n. 63, in Foro it., 1994, I, 2355).
In ordine a tale problematica, è opportuno partire dalla scelta del legislatore che, posto innanzi al problema della utilizzabilità dei risultati delle operazioni di captazioni anche per l’accertamento di reati
diversi rispetto a quello oggetto di decreto autorizzativo, ha inteso formulare una norma che potesse ponderare i vari interessi in gioco. Si tratta di una soluzione che è frutto di un compromesso tra le su menzionate esigenze di tutela attinenti alla sfera privata, e quella di natura pubblicistica volta all’accertamento di gravi reati anche attraverso l’impiego di prove acquisite in diverso procedimento.
La stessa costruzione dell’art. 270 c.p.p. tradisce il reale intento di contemperare le due opposte istanze, enunciando un generale divieto di utilizzo delle registrazioni in procedimenti per reati diversi, per poi individuare le ipotesi eccezionali in cui la acquisizione del materiale probatorio in parola può rilevare, dettandone la relativa procedura (L. FILIPPI, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997, 182).
Così, le Sezioni Unite, espressamente richiamate dalla pronuncia che ci occupa, affrontando la vexata quaestio della corretta interpretazione del concetto di “diverso procedimento”, hanno fornito una attenta lettura della reale portata del divieto, soprattutto in ragione della corretta individuazione della ratio del medesimo (cfr. A. CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, 271).
Più in particolare, il legislatore pone l’accento sulla oggettiva copertura dell’autorizzazione del giudice per il reato che risulti legato da un nesso quale la finalità dell’azione, l’unicità della azione od omissione e quello dell’originario disegno criminoso, posto che tali reati, pur se emersi successivamente e proprio grazie alla attività di intercettazione, non possono dirsi “diversi” rispetto a quelli per cui l’autorità giudiziaria si è pronunciata in termini di autorizzazione. Infatti, il concetto di procedimento più volte richiamato nel codice di procedura penale non può ritenersi coincidente con quello di fascicolo delle indagini preliminari formato dal pubblico ministero, salvo che non si voglia autorizzare attività captative in grado di incidere sui diritti fondamentali degli individui in base a valutazioni assolutamente discrezionali del titolare delle indagini sul quale, per altro, non grava alcun obbligo di procedere cumulativamente solo in caso di stretta connessione delle ipotesi delittuose oggetto del procedimento. Una tale lettura, seppur apparentemente più fedele al dato testuale permetterebbe uno svincolo inaccettabile dal divieto d’uso semplicemente accorpando regiudicande distinte (cfr. T. PROCACCIANTI, in C. DI MARTINO – T. PROCACCIANTI, Le intercettazioni telefoniche, Milano, 2001, 191; F. VANORIO, op. cit., p. 181).
Le medesime argomentazioni sistematiche hanno condotto le Sezioni Unite a respingere anche l’altro orientamento che, in termini più restrittivi, si fondava sull’equiparazione tra procedimento e reato, definito dal concetto formale di iscrizione così per come previsto dall’art. 335 c.p.p., per il quale, in base alla premessa appena considerata, vi sarebbe diversità di procedimento con riferimento a tutti quei reati che, sebbene connessi o collegati sotto il profilo finalistico o probatorio rispetto a quello preso in considerazione dal decreto autorizzativo ai sensi dell’art. 267 c.p.p., non siano riconducibili alla medesima notitia criminis, riferendosi ad accadimenti storicamente diversi (in questo senso, L. FILIPPI, op. cit., 184; F. RUGGIERI, Divieti probatori e inutilizzabilità nella disciplina delle intercettazioni telefoniche, Milano, 2001, 104).
Pur non mancando pronunce a sostegno di tale lettura (cfr. Cass., 11 dicembre 2008, n. 4169, Mucciarone, in Foro it., Rep. 2009, voce Intercettazione di conversazioni o comunicazioni, n. 73; Cass., 11 dicembre 2012, P., in Foro it., Rep. 2012, id., n. 36), essa non può convincere, per un verso, non rinvenendosi in seno al codice di rito alcun univoco riferimento alla equiparazione tra procedimento e reato, per altro, per i risultati fortemente discutibili cui si perverrebbe pretendendo che l’intercettazione autorizzata debba essere utilizzata solo per la notizia di reato già iscritta. Seppure offra solide garanzie per l’imputato di fronte a possibili abusi, tale impostazione finirebbe per privare il processo di importanti elementi di prova riguardo a illeciti strettamente connessi a quelli per cui si è proceduto a intercettazione, e ciò anche nel caso in cui i diversi reati siano ricompresi tra quelli previsti dal catalogo di cui all’art. 266 c.p.p. E’ opportuno rilevare che per le intercettazioni disposte in data antecedente a quella del 31 agosto 2020, come nel caso della sentenza in commento, non può applicarsi ratione temporis il nuovo testo dell’art. 270 c.p.p.
Invero, la sentenza Cavallo ha il pregio di fornire una importante precisazione di carattere limitativo, concludendo che non si possa ricorrere al criterio del mero collegamento investigativo, ai sensi dell’art. 371, comma 2, lett. b) e c), nella definizione di procedimento diverso mediante il quale si innescherebbe un rischioso ragionamento in grado di condurre a una sostanziale disapplicazione della disposizione codicistica.
Occorre, pertanto, ribadire come l’unico criterio rilevante possa individuarsi in quello della connessione ex art. 12 e, per esplicito chiarimento delle Sezioni Unite, solo nei casi di cui alle lett. b) e c), ovvero di connessione forte in ragione del carattere sostanziale e originario che consente di ricondurre all’autorizzazione ex art. 267 c.p.p. anche il reato individuato in base al risultato delle operazioni captative (In tema, G. ILLUMINATI, Utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi: le sezioni unite ristabiliscono la legalità costituzionale, in Sist. pen., 30 gennaio 2020).
Proprio su tale punto merita attenzione la pronuncia in commento la quale si è parzialmente discostata dal dictum delle Sezioni Unite in merito al fatto che solo in ipotesi di reato continuato e connessione teleologica possa limitarsi l’operatività del divieto di utilizzo. Infatti, essa fa evidente riferimento anche al reato commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro, o il caso di più persone che, con condotte indipendenti, hanno determinato l’evento, con ciò aderendo a quella giurisprudenza successiva alla sentenza Cavallo con la quale si realizza una presa di posizione per la quale è auspicabile una nuova investitura delle Sezioni Unite (riferimento a Cass., 6 novembre 2020, n. 37407, in Sist. pen., 3/2021, con nota di M. GRIFFO, Quale connessione per la utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi ai sensi dell’art. 270 c.p.p.? Inevitabile una nuova investitura delle Sezioni Unite, p. 165).
- Sulla scorta di tali premesse, la quinta sezione affronta quello che, probabilmente, è il vero tema centrale, e, nello specifico, la valutazione della sussistenza di una ipotesi di connessione, rilevante in termini di limitazione all’operare del divieto di cui all’art. 270 c.p.p., anche in caso di assenza dell’unitarietà del processo volitivo qualificata tanto oggettivamente quanto soggettivamente. Il ricorso faceva, infatti, espressamente menzione del fatto che l’indagato non avesse minimamente contezza del disegno criminoso ideato dai coindagati e, sulla scorta di ciò, la connessione non potesse estendersi al ricorrente
A sostegno di tale lettura, si fa riferimento alla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione per la quale in tema di competenza per connessione si afferma come solo l’identità anche in senso soggettivo del disegno criminoso sia in grado di determinarne lo spostamento (Cfr. Cass., 20 novembre 2018, B., in Foro it., Rep. 2019, voce Competenza e giurisdizione penale, n. 22; Cass., 28 febbraio 2017, in Foro it., Rep. 2017, voce Competenza e giurisdizione penale, n. 31).
Infatti, l’inserimento del reato continuato in seno ai casi di connessione determina problemi posto che, sebbene si tratti di ipotesi monosoggettiva, può combinarsi con le ipotesi di cui alle lett. a) e c) dell’art. 12, determinando una cognizione unitaria per tutti i processi connessi. Ciò ha occasionato l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, volto a restringere il perimetro di tale previsione in ragione del fatto che l’interesse alla trattazione unitaria dei reati in continuazione non può pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al proprio giudice naturale. Per una tale lettura la connessione per continuazione di cui alla lett. b) dell’art. 12 rileva processualmente solo se riferibile a una fattispecie monosoggettiva o una fattispecie concorsuale in cui l’identità del disegno criminoso sia comune a tutti i soggetti, non determinandosi al di fuori di questi casi alcuna attribuzione e conseguente spostamento di competenza ai sensi degli artt. 15 e 16 c.p.p. e producendosi effetti solo sul piano sostanziale ai fini della determinazione della pena. In questi casi, infatti, se rispetto a un imputato più reati risultino unificabili ai sensi dell’art. 81, comma 2, c.p., il soggetto interessato potrà ottenere in fase esecutiva una rideterminazione ex art. 671 c.p.p., senza subire alcun pregiudizio dal mancato riconoscimento della
connessione (M. MASUCCI, La competenza per connessione determinata dalla continuazione, in Riv. it. dir. pen. proc.,
1997, 647).
Da qui la presa di posizione della Corte, per la quale tale principio deve rimanere circoscritto nell’ambito processuale dello spostamento di competenza, non assurgendo a criterio assoluto e, in particolare, non potendo essere idoneo a incidere sulla nozione di connessione intesa come legame sostanziale tra reati rilevante in tema di intercettazioni. Ciò in ossequio al più generale principio che nella materia in oggetto prevede che l’autorizzazione del giudice debba concernere i fatti–reato nella loro materialità, rimanendo indifferenti i destinatari del decreto. In questo senso, l’esempio utilizzato dalla corte è quello di intercettazioni disposte in procedimento a carico di ignoti con ovvia utilizzabilità dei risultati delle stesse nei confronti degli autori dei reati solo successivamente individuati.
Come anticipato, se la conclusione cui si perviene è sicuramente condivisibile, appare comunque necessaria qualche precisazione, data anche la brevità del passaggio motivazionale che la contiene.
Facendosi riferimento all’art. 267 c.p.p. se, da un lato, è certamente volontà del legislatore quella di sganciare da coefficienti di tipo soggettivo il requisito dei gravi indizi di reato, non dovendosi ritenere necessario che la notitia criminis sia attribuibile a una determinata persona, tuttavia, non sono mancati tentativi, per via interpretativa, volti ad affermare la necessità di un legame tra l’indagine e il soggetto intercettando al fine di evitare di giungere a conclusioni paradossali e inaccettabili come quella di potere sottoporre a intercettazione praticamente chiunque, sostanziandosi una evidente frizione col principio costituzionale di cui all’art. 15 della carta fondamentale (L. FILIPPI, op. cit. 53).
In questo senso, per altro, si è evidenziato in modo assai condivisibile come un necessario rapporto tra il titolare dell’utenza intercettata e i contenuti dell’attività investigativa debba naturalmente discendere anche dalla valorizzazione del requisito della assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini (E. MARZADURI, Spunti per una riflessione sui presupposti applicativi delle intercettazioni telefoniche a fini probatori, in Cass. pen., 2008, 4842; in tal senso v., Cass., 12 febbraio 2009, n. 12722, Lombardi Stonati, in Cass. pen., 2009, 3341 con nota di V. GREVI, Sul necessario collegamento tra utenze telefoniche e indagini in corso nel decreto autorizzativo delle intercettazioni).
Tornando al caso in oggetto, può certamente ritenersi che tale collegamento debba intercorrere col soggetto intercettato, la cui utenza è oggetto di provvedimento autorizzativo, ma non possa pretendersi rispetto a quei soggetti che partecipano alla realizzazione del disegno criminoso già ideato, necessitandosi, ai fini dell’utilizzo dell’attività captativa, solo un collegamento sostanziale così come delineato in seno all’art. 12, lett. b). Ciononostante, come ritenuto nella stessa motivazione, deve trattarsi di una connessione per la quale è necessario, in considerazione del requisito della medesimezza del disegno criminoso, che al momento della commissione del primo reato della serie i successivi fossero stati realmente programmati almeno nelle loro linee essenziali.
Tali considerazioni permettono qualche riflessione sulla necessità che venga rafforzata, in termini di effettività delle tutele, la garanzia del decreto autorizzativo, superandosi quegli orientamenti giurisprudenziali che lo hanno via via svuotato. Diventa fondamentale, a parere di chi scrive, che mediante una vera e propria delibazione concernente il materiale di indagine si dia conto anche degli sviluppi che le intercettazioni disposte possano avere e i termini della loro attinenza rispetto all’ipotesi di accusa, anche in riferimento alla realizzazione del disegno criminoso già programmato, così come espressamente richiesto nella citata giurisprudenza relativa alle ipotesi associative.
Desta, infatti, preoccupazione quel costante orientamento che, partendo dalla considerazione per la quale ai gravi indizi di reato non può attribuirsi un connotato di tipo probatorio in ordine alla colpevolezza trattandosi, invece, della esistenza di un fatto storico, è giunta ad affermare che la prescrizione normativa di cui all’art. 267 c.p.p. riguardi un controllo circa l’esistenza di esigenze di tipo investigativo e la finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento, senza che si pretenda alcuna analisi nel
merito dell’ipotesi accusatoria, escludendosi che la motivazione del decreto debba esprimere una valutazione sulla fondatezza dell’accusa (Cfr. tra le tante Cass., sez. un., 17 novembre 2004, n. 45189, Esposito, C.E.D. n. 229246 e Cass., 1 Marzo 2005, n. 10881, Gatto e altri, in Guida al Diritto, 2005, 17, 82). E’ evidente che tale interpretazione normativa risulti fortemente problematica nell’ottica di un corretto bilanciamento tra esigenze investigative e garanzie dei cittadini, e come ciò viene ad acuirsi in caso di estensione, per quanto corretta, dei risultati dell’intercettazione ai soggetti successivamente raggiunti da indizi di reato.
- La trattazione sin qui svolta riporta l’attenzione alla nota questione in ordine alle ragioni che hanno condotto il legislatore a escogitare il divieto di utilizzo dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti, fornendo un’utile occasione per incidere sulla progressiva erosione dell’obbligo di motivare i decreti autorizzativi (A. CAMON, cit., 282). Non c’è dubbio che l’estensione dell’area di utilizzabilità non può che bilanciarsi con un più scrupoloso e puntuale sforzo motivazionale, soprattutto in considerazione del fenomeno all’esito della riforma dell’art. 270 c.p.p. così per come recentemente effettuata e applicabile ai procedimenti instaurati successivamente alla data del 31 agosto 2020. Conclusivamente occorre rammentare che la vicenda trattata dalla sentenza in commento riguarda un decreto autorizzativo emesso in data 7 novembre 2018 e, perciò, nella vigenza della vecchia disciplina. Nel caso si fosse trattato di attività captative disposte in data successiva a quella di entrata in vigore della riforma, operata dal D.L.gs. 29 dicembre 2017, n. 216, come modificato dal D.L. 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla Legge 25 giugno 2020, n. 70, il problema non si sarebbe nemmeno posto, rientrando le ipotesi delittuose in contestazione del caso in commento tra quelle contenute nell’art. 266 c.p.p., circostanza che oggi, come per i procedimenti concernenti i reati per i quali è obbligatorio l’arresto, determina per ciò solo l’elisione del divieto. Il nuovo quadro normativo finisce così per acuire le frizioni con i principi proporzionalità e di riserva di giurisdizione che governano la disciplina in oggetto (per una analisi fortemente critica della riforma vedi E. N. LA ROCCA, L’art. 270 c.p.p. e la proporzionalità perduta: moniti per un recupero dalla Corte di Giustizia UE, in Arch. Pen., n. 1, 2021).
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DIEGO FOTI – Avvocato cassazionista del Foro di Messina, Dottore di ricerca in discipline penalistiche sostanziali, docente a contratto presso l’Università degli Studi di Messina di diritto processuale penale, diritto dell’esecuzione penale e diritto della prova penale.
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