La nuova disposizione di cui all’art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen. (introdotta dall’art. 33, comma 1, lett. d), d. Igs. n. 150 del 2023, ed in vigore per le impugnazioni proposte avverso sentenze pronunciate in data successiva a quella di entrata in vigore del citato d. Igs.) – che richiede, a pena d’ inammissibilità, il deposito, unitamente all’atto d’impugnazione, della dichiarazione od elezione di domicilio della parte privata, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio – non opera anche nel caso in cui I’ imputato impugnante sia detenuto”
La Suprema Corte, con la presente sentenza, dirime la controversia scaturita dalla non facile lettura e disamina dell’art. 581 c.p.p. rubricato “Forme della impugnazione” con specifico riguardo alle modalità di presentazione dell’atto di appello e alla necessità o meno del difensore di essere munito di procura speciale in caso di imputato detenuto.
In tal senso, la norma contenuta nell’art. 581, comma 1 ter, testualmente prevede: “con l’atto d’impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena d’inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio”.
Il silenzio di tale norma, a seguito dell’entrata in vigore della c.d. “Riforma Cartabia”, nella parte in cui non prevede espressamente se la procura speciale, avente a oggetto la dichiarazione o elezione di domicilio “ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio”, sia necessaria tanto per l’imputato libero quanto per quello detenuto, ha fatto sorgere numerose perplessità sulla corretta modalità di proposizione dell’atto di gravame, di allegazione della relativa procura (speciale appunto) e della dichiarazione o elezione di domicilio per la notificazione del decreto del giudizio d’appello nei confronti dell’imputato.
In tal senso, devesi rilevare che la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dalla difesa, ha censurato il contenuto dell’ordinanza della Corte di Appello di Torino che aveva dichiarato inammissibile l’atto di appello proposto dall’imputato detenuto poiché privo della dichiarazione o elezione di domicilio così come prevista dalla norma contenuta nell’art. 581, comma 1 ter, c.p.p..
Difatti, il Supremo Collegio, ripercorrendo la ratio del nuovo art. 581 c.p.p. – volta a evitare i massicci rallentamenti del giudizio di impugnazione derivanti dalle difficoltà di notificazione – sottolinea la rilevanza del contenuto della norma contenuta nell’art. 161, comma 1, c.p.p. posto che quest’ultima esclude, dall’alveo dei soggetti obbligati a dichiarare o eleggere domicilio, l’imputato detenuto.
Pertanto, solo lettura sistematica delle norme dianzi indicate permette, secondo la Suprema Corte, di comprendere il “silenzio” del comma 1 ter dell’art. 581 c.p.p. e, conseguentemente, di non reputare necessaria la dichiarazione o elezione di domicilio per il giudizio d’appello da parte dell’imputato detenuto.
Difatti, l’esclusione dell’imputato detenuto dai soggetti destinatari del contenuto della norma di cui all’art. 161, comma 1, c.p.p. diventa condizione primaria e necessaria per la corretta applicazione della norma contenuta nell’art. 581, comma 1 ter, c.p.p..
Ciò posto, tale pronunciamento del Supremo Collegio si pone in linea con quanto stabilito, già prima dell’attuale riforma, dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. n. 12778 del 2020.
In tale occasione, veniva stabilito il principio di diritto secondo cui «le notifiche all’imputato detenuto, anche qualora abbia dichiarato o eletto domicilio, vanno eseguite presso il luogo di detenzione, con le modalità di cui all’art. 156 c. 1 c.p.p., mediante consegna di copia alla persona. La notifica al detenuto eseguita presso il domicilio dichiarato o eletto dà luogo ad una nullità a regime intermedio, soggetta alla sanatoria prevista dall’art. 184 c.p.p.»..
Di tal che, la “preferenza” della notificazione alla persona detenuta presso il luogo di detenzione permette la certa reperibilità dell’imputato (trattandosi di soggetto detenuto in uno specifico luogo di restrizione), si appalesa come più agevole, garantisce la conoscenza (personale appunto) da parte del detenuto degli atti processuali in modo da esercitare nel modo più corretto possibile il diritto a una difesa consapevole, evita il rischio della mancata comunicazione da parte del domiciliatario (nonostante il rapporto fiduciario) e della potenziale lesione del diritto dell’imputato detenuto a partecipare al processo e a difendersi in modo tempestivo ed adeguato.
Una lettura siffatta induce la Corte di Cassazione a seguire l’attuale orientamento di legittimità – garantendo un “stretto collegamento giurisprudenziale” tra quanto stabilito prima e dopo la riforma “Cartabia” nella subiecta materia – e al contempo, a sottolineare l’importanza dei rischi derivanti dall’eccessivo “formalismo procedurale” quale la violazione della norma contenuta nell’art. 6 CEDU.
In tal senso, devesi evidenziare che la garanzia di un equo e giusto processo, pur richiedendo il necessario rispetto delle condizioni normativamente previste, a pena di inammissibilità, per la proposizione del gravame, si fonda sulla necessità di evitare che qualsiasi forma di “inutile” formalismo possa minare l’equità del procedimento medesimo (cfr. (Corte europea dei diritti dell’uomo, 26 luglio 2007, Walchli c. Francia).
D’altronde, come più volte affermato a livello sovranazionale (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 12 luglio 2016, Reichman c. Francia; 5 novembre 2015, Henrioud c. Francia), l’applicazione di un severo formalismo, con riguardo alle modalità di proposizione di un ricorso, determinerebbe la violazione del diritto di accesso alla giustizia quando l’interpretazione (eccessivamente formale appunto) della legge interna assume caratteri patologici a discapito dell’esame nel merito dell’atto di gravame del ricorrente (Corte europea dei diritti dell’uomo, 12 luglio 2016, Reichman c. Francia; 5 novembre 2015, Henrioud c. Francia).
Pertanto, una lettura sistematica e convenzionalmente orientata della norma contenuta nell’art. 581 c.p.p. ha condotto la Suprema Corte a ribadire che la nuova disposizione di cui all’art. 581, comma 1-ter, c.p.p., introdotta dalla c.d. “Riforma Cartabia” e in vigore per le impugnazioni proposte successivamente alla data di entrata in vigore della medesima, non opera anche nel caso in cui il ricorrente sia un soggetto detenuto.