“In tema di diffamazione, l’elemento psicologico consiste nella volontà e rappresentazione che la frase intenzionalmente lesiva dell’altrui reputazione, anche se comunicata a una sola persona, venga sicuramente a conoscenza di almeno un’altra persona. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza impugnata che aveva considerato consapevolmente “comunicata a più persone” una missiva, contenente espressioni offensive, trasmessa attraverso l’applicativo “Messanger” al presidente di un’associazione, sul presupposto, non provato, della certa previsione, da parte del reo, che anche i membri del direttivo dell’associazione avessero l’accesso a tale applicativo).”
A cura di Marco Latella (Avvocato del foro di Locri e componente del comitato di redazione della Camera Penale di Locri)
La Corte di appello di L’Aquila confermava la sentenza emessa dal Tribunale di L’Aquila nei confronti di un’imputata accusata del reato di diffamazione aggravata con conferma delle relative statuizioni civili.
Nel caso di specie, la donna è stata accusata di aver divulgato tramite il social network Facebook (e, più nello specifico tramite l’applicativo “Messenger”) una missiva (redatta da altro soggetto) particolarmente offensiva dell’onore, del decoro e della professionalità della p.o..
Quest’ultima, difatti, sarebbe stata destinataria delle predette espressioni offensive sull’applicativo Messenger che, secondo l’ipotesi accusatoria, era anche nella disponibilità dei membri del direttivo di un’associazione cui la persona offesa faceva parte.
Ciò posto, l’imputata, per il tramite del difensore presentava ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello abruzzese.
La Quinta sezione ha reputato il ricorso fondato sulla scorta delle argomentazioni giuridiche, di seguito, indicate.
La Suprema Corte ha preliminarmente rilevato che “il bene giuridico tutelato dall’art. 595 cod. pen. è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (la reputazione intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera) di ciascuna persona, e l’evento [del reato] è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino […]. Si tratta di evento, non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell’espressione offensiva” (cfr. Sez. 5, n. 39059 del 27/06/2019, Belpietro, Rv. 276961 — 01, che richiama, tra le altre, Sez. 5, n. 47175 del 04/07/2013, Aquilio Ulizio, Rv. 257704; cfr. pure Sez. 5, n. 8890 del 30/11/2020 – dep. 2021, Poggi, Rv. 280622 – 01).
In tal senso, devesi rilevare che ai fini della corretta configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto di diffamazione è necessario il dolo generico (che, in taluni casi, può essere anche dolo eventuale). Difatti, l’elemento psicologico del reato trova il proprio fondamento, oltre che nella consapevolezza – da parte dell’autore della frase o di chi la pronuncia – della lesività della stessa (ossia della frase) nei confronti dell’altrui reputazione, anche nel fatto che il soggetto agente sia consapevole che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone.
Precipuo obiettivo dell’autore della condotta diffamatoria è la diffusione del messaggio denigratorio con modalità tali da permettere che lo stesso sia “raggiunto” da almeno due persone o anche da una sola (cfr. Sez. 5, n. 36602 del 15/07/2010, Selmi, Rv. 248431 – 01; Sez. 5, n. 2138 del 14/12/1972 – dep. 1973, Dagostini, Rv. 123561 – 01; cfr. pure Sez. 5, n. 1794 del 05/11/1998 – dep. 1999, Vitaloni, Rv. 212516 – 01; Sez. 5, n. 26560 del 29/04/2014, Cadoria, Rv. 260229 – 01).
In tale contesto, assume decisivo rilievo il dictum delle Sezioni Unite che, nella subiecta materia, hanno enucleato il principio di diritto secondo cui “in tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi” (cfr. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261104 – 01).
Ciò posto, nel caso di specie, la motivazione dell’impugnata sentenza – secondo la Quinta sezione – presenta un evidente vizio con specifico riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto (unico e centrale motivo di gravame del ricorso per Cassazione).
In tal senso, la Suprema Corte ha evidenziato come l’imputata avesse rappresentato tale motivo di doglianza già nel corpo dell’atto di appello.
La Corte di appello, però, con motivazione assertiva aveva affermato, nel corpo dell’impugnata sentenza, che “l’imputata, per il solo fatto di aver comunicato («sia pure tramite messenger») «con un profilo Facebook riconducibile ad un’associazione, non pote[sse] non avere la consapevolezza che agli scritti avessero accesso quantomeno i componenti del direttivo dell’associazione», dovendosi pertanto ritenere la sussistenza, in capo a lei, «quanto meno […] della previsione e dell’accettazione dell’evento» e, dunque, del dolo eventuale”.
Orbene, tale ragionamento avrebbe avuto ragion d’essere solo se l’imputata avesse avuto, nel caso di specie, la effettiva e certa contezza che i membri del direttivo avessero concretamente accesso alla conversazione in esame.
Tale contezza è stata, però, ricavata dalla Corte di Appello in modo apodittico senza specificare per quale ragione il contenuto della messaggistica potesse essere oggetto di certa conoscenza da parte dei membri del direttivo.
Ciò posto, l’avvenuto decorso del termine prescrizionale ha indotto la Quinta Sezione – sulla scorta delle considerazioni giuridiche dianzi esposte – ad annullare senza rinvio l’impugnata sentenza “agli effetti penali, perché il reato è estinto per prescrizione”, disponendo, invece, l’“annullamento della sentenza impugnata agli effetti civili (art. 622 cod. proc. pen.), con rinvio per nuovo giudizio al Giudice civile competente per valore in grado di appello”.
Cass. Pen., Sez. V, Sentenza n. 36217 del 02/07/2024 Ud. (dep. 27/09/2024)
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