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dicembre 2024

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Arringhe e contributi dottrinali di avvocati, magistrati ed accademici che, con la loro opera, hanno lasciato una traccia significativa nel mondo giudiziario.

Un ponte verso il futuro
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In questo numero: le presentazioni…

Alessandro Cassiani

franco coppi

Franco Coppi, uno dei più Autorevoli penalisti italiani. Difensore di Cesare Romiti (Fiat), di Giulio Andreotti (Prima Repubblica), di Antonio Fazio (Banca d’Italia), di Silvio Berlusconi (Seconda Repubblica).

L’avvocato difende il cittadino contro il potere dell’autorità.

Il Potere, economico e politico, nelle sue espressioni apicali, nei momenti di difficoltà chiama, in aiuto, l’Avvocato Coppi.

Docente di diritto penale presso l’Università “La Sapienza”, Emerito dal 2011, autore di numerose pubblicazioni, difensore nei più diversificati settori del sistema penale.

La difesa di Silvio Berlusconi nel Ruby ter costituisce una, tra le tante, pregevoli linee difensive, impostata esclusivamente su questioni giuridiche e  che ha determinato una sentenza di assoluzione: segno eloquente che la scelta deliberata dello scontro con la Procura, adottata in passato da altri difensori, nei processi che hanno riguardato l’illustre cliente, non avrebbe, probabilmente, raggiunto lo stesso risultato.

“Berlusconi, ha dichiarato Coppi, ha pagato le ragazze, ma in una fase in cui non avevano ancora assunto la veste di testimoni. La Procura, contestando la corruzione in atti giudiziari, ha errato nella configurazione giuridica, perché Berlusconi avrebbe dovuto corrompere persone che rivestivano la qualità di testimoni, quindi di pubblici ufficiali”.

Il Tribunale di Milano recependo la costruzione difensiva ha statuito: “Poiché le persone chiamate a rendere dichiarazioni nei processi Ruby 1 e Ruby 2 andavano correttamente qualificate come indagate di reato connesso e non testimoni, non solo non è configurabile il delitto di falsa testimonianza ma neppure il reato di corruzione in atti giudiziari”.

Lo stile, l’intuito giuridico, l’efficacia oratoria conferiscono all’avvocato Coppi, Autorevolezza, requisito indefettibile per poter affermare con pacatezza, “la Procura ha sbagliato nella contestazione del reato di corruzione”, e proporsi come interlocutore, ascoltato e seguito, dai Giudici.

Il ricorso in Cassazione: Franco Coppi

La terza lectio magistralis pronunciata al convegno organizzato, il 3.6.2019, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, su: “IL RICORSO IN CASSAZIONE”  – Intervengono i Maestri – è stata di Franco Coppi.

___________________________

Nella Relazione tenuta sul ricorso per Cassazione, Coppi ha esordito con l’ amarezza del difensore che constata, sulla propria pelle, e condivide con l’uditorio, un’esperienza che lascia il segno: davanti alla Corte di Cassazione, massima espressione di autorevolezza,  dalla stessa sezione, nella stessa giornata, con lo stesso collegio, sono state pronunciate due sentenze di segno opposto su medesime questioni giuridiche.

La lectio magistralis, tenuta nella Casa degli Avvocati,  costituisce una guida illuminata per ogni penalista, con la quale rapportarsi, perché si può apprezzare come l’avvocato Coppi considera centrale  e prioritario nella redazione del ricorso, non tanto l’art. 606 che elenca i vizi suscettibili di essere impugnati, ma l’art. 192 che svolge una duplice funzione: indica al giudice quello che deve fare e offre al difensore le indicazioni sulle linee da percorrere per proporre una attività di controllo, sulla correttezza della motivazione.

Correttezza della motivazione sul fatto, che non deve mettere in discussione il fatto,  ma deve essere una attività di

  1. controllo delle massime di esperienza che il giudice di merito ha utilizzato
  2. analisi dei criteri in base ai quali il fatto è stato valutato

al fine di ravvisare i vizi di contraddittorietà  o illogicità della motivazione, che costituiscono i motivi più frequenti, ai quali il difensore ricorre nella redazione di un atto fra i più difficili nell’attività dell’ avvocato. Una lezione illuminante che deve far parte della formazione del penalista.

(leggi l’intero approfondimento)

Avv Giulio Paoli

giulio paoli

E’ trascorso un secolo circa da quando Giulio Paoli, avvocato e giurista, ha pubblicato presso la casa editrice “ Le Monnier “ il volume dal titolo “ Io l’avvocato l’ho fatto così “.

L’Università di Firenze, nel 1924,  ha inaugurato l’ insegnamento di diritto penale e lo ha chiamato a presiedere la cattedra.

Autore di “Dommatica e clinica penale”, prolusione al corso di diritto e procedura penale, “programmava vere e proprie sedute cliniche per far vivere allo studente il caso giudiziario “ .

Pietro Nuvolone ha dedicato, a Lui e a Giacomo Delitala, suoi Maestri, il frontespizio della prima edizione de “ Il sistema del Diritto Penale “.

“ Io l’avvocato l’ho fatto così”

Viene pubblicata, in questa sede, la lettera al figlio, che non ha mai avuto, dove elenca le peculiarità che hanno caratterizzato il suo modo di vivere la professione:

  1. ha studiato accuratamente tutte le cause, sia nelle questioni di fatto sia nelle questioni di diritto;
  2. ha sempre preparato l’arringa da avvocato vero, autentico, che soffre, che vibra, non da avvocato paludato;
  3. ha ammesso, dal suo punto di vista, un limite, aver amato troppo le sue cause;
  4. ha riconosciuto un pregio, da avvocato di stile, essere sempre stato leale.

Dopo aver esposto le caratteristiche dell’avvocato  ha esplorato il ruolo del magistrato: scrivere il destino di una persona, indagare sul suo passato, penetrare i suoi segreti, trasformare la sua vita.

Il terribile potere, insito in un provvedimento restrittivo, dalle imprevedibili conseguenze, se chi lo adotta non sia di perfetto equilibrio, di saldo carattere, di mente eletta, ma soprattutto di assoluta serenità.

La direzione del provvedimento che si rivolge al colpevole ma può attingere, anche, la vita dell’innocente.

L’amore per la toga e la distinzione tra difensore e avvocato.

Un ammonimento agli avvocati, anche per neutralizzare il narcisismo di chi, inconsapevolmente, non viene educato a saper indossare e a saper portare la toga: “ l’arringa non è fatta per giovare ai difensori, è fatta per giovare ai difesi, chi non capisce questo è un pover’uomo”.

L’essenza della professione che sintetizza in tre parole : “il difensore che vede profilarsi lo spettro dell’ingiustizia, deve porsi di traverso, deve gridare non si passa”.

Ma il punto più elevato della lettera lo raggiunge quando colloca sullo stesso piano le tre peculiari funzioni che caratterizzano la qualità della giurisdizione: Giudicare, Accusare, Difendere.

Funzioni diverse che interessano la sovranità dello Stato e che si rivelano premonitrici sulla riforma della separazione delle carriere.

(leggi l’intero approfondimento)

Genuzio Bentini

piero calamandrei

L’arringa pronunciata da Piero Calamandrei, avvocato civilista, il 30.3.1956, davanti al Tribunale Penale di Palermo, in difesa di Danilo Dolci, è stata definita dagli organi di stampa, nazionali e stranieri accorsi a Palermo, con un aggettivo, memorabile.

E rimarrà indimenticabile per molti aspetti: uno su tutti. A Danilo Dolci ed agli altri disoccupati veniva contestato di aver lavorato.

L’art. 4 della Costituzione considera il lavoro non solo un diritto, ma anche un dovere morale, quindi, anche l’art. 4 della Costituzione, nell’impostazione difensiva di Piero Calamandrei, uno dei padri costituenti, andava sottoposto a processo.

L’arringa di Calamandrei andrebbe ascoltata, più che letta, per apprezzare le pause dell’oratore nell’esposizione, che hanno creato un alto coinvolgimento emotivo per la forte carica di empatia ed il messaggio di speranza di un futuro, dove dovevano essere definitivamente eliminate le forti disparità sociali ed economiche.

“ L'arringa: in difesa di Danilo Dolci”

Danilo Dolci, intellettuale triestino, sociologo, poeta, attivista non violento; nella sua vita è stato sottoposto a ben ventisei processi. Esponente originale nel panorama politico e culturale del secolo scorso, definito da Aldo Capitini, il “Gandhi italiano”.

Nel 1952 si trasferì in Sicilia, a Partinico, in provincia di Palermo, dove attuò lotte non violente contro mafia e sottosviluppo, per il riconoscimento di diritti elementari della gente del posto  e per il lavoro ai disoccupati. I suoi interlocutori sono sempre stati gli ultimi, i derelitti, i disoccupati.

Nel 1955 inviò una lettera, sottoscritta da 1500 cittadini siciliani, al Presidente della Repubblica ed al Presidente del Consiglio: “ Desideriamo che tutti i bambini, i ragazzi, i giovani possano frequentare asili, scuole nuove nello spirito e nell’attività, possibilmente occupati in queste tutto il giorno “ ( cfr. Dolci: Banditi a Partinico, Sellerio, 2004).

Il 30 gennaio del 1956 organizzò uno sciopero della fame, sulla spiaggia di Trappeto, coinvolgendo 300 pescatori della zona, che venivano danneggiati dalla pesca illegale, da parte dei motopescherecci, che violavano la fascia di rispetto, affamando le persone del posto, che avevano nella pesca l’unica fonte di reddito.

Il 2 febbraio 1956 convocò alcuni braccianti, con i quali effettuò lavori di sterramento di una vecchia strada comunale, abbandonata dall’incuria dell’Amministrazione, detta “trazzera vecchia”, nei pressi di Trappeto (PA) per dimostrare che non mancava né la voglia di lavorare, né il desiderio di compiere lavori socialmente utili. Intervennero le forze dell’Ordine, perché l’attività non era autorizzata.

Danilo Dolci ed i lavoratori vennero arrestati per i reati di oltraggio a pubblico ufficiale, istigazione a disobbedire alle leggi e invasione di terreni.

I manifestanti avevano organizzato “uno sciopero alla rovescia”, non si trattava di astensione dal lavoro, come solitamente accade, ma di svolgimento di un’attività.

Il processo durò due mesi ed i sediziosi scontarono due mesi di detenzione.

Il fulcro del processo è consistito sui modi di intendere e concepire la legalità, da un lato la Costituzione, prima legge della Repubblica, dall’altro l’autoritarismo gerarchico del governo Tambroni.

L’opinione pubblica si mobilitò contro la polizia e le Autorità: numerose le interpellanze dei parlamentari (De Martino, La Malfa, Li Causi, Mancini, Pajetta) e le adesioni degli intellettuali più influenti (Moravia, Fromm, Galtung, Russell, Sartre).

La difesa citò quattro testimoni: Noberto Bobbio, docente di filosofia del diritto e del pensiero politico, Elio Vittorini, fondatore della rivista “Il Politecnico”, che ha esercitato un ruolo molto influente nel dibattito culturale e politico del dopoguerra, Lucio Lombardi Radice, pedagogista e politico, autore de “L’educazione della mente”, Maria Fermi, docente di lettere in un liceo della capitale, sorella del fisico.

Per illuminare il contesto in cui si viveva negli anni cinquanta in Italia, tre anni dopo, nel 1959, la professoressa Fermi si doveva recare a Chicago, per tenere un ciclo di conferenze sulla letteratura italiana, le autorità italiane non volevano rilasciarle il passaporto, perché ritenuta persona pericolosa, in quanto amica di Danilo Dolci; visto ottenuto solo per l’intervento di un influente politico americano.

In questo clima si è celebrato il processo. L’arringa pronunciata da Piero Calamandrei, avvocato civilista, il 30.3.1956, davanti al Tribunale Penale di Palermo, in difesa di Danilo Dolci, è stata definita dagli organi di stampa, nazionali e stranieri accorsi a Palermo, con un aggettivo, memorabile.

E rimarrà indimenticabile per molti aspetti: uno su tutti. A Danilo Dolci ed agli altri disoccupati veniva contestato di aver lavorato.

L’art. 4 della Costituzione considera il lavoro non solo un diritto, ma anche un dovere morale, quindi, anche l’art. 4 della Costituzione, nell’impostazione difensiva di Piero Calamandrei, uno dei padri costituenti, andava sottoposto a processo.

L’arringa di Calamandrei andrebbe ascoltata, più che letta, per apprezzare le pause dell’oratore nell’esposizione, che hanno creato un alto coinvolgimento emotivo per la forte carica di empatia ed il messaggio di speranza di un futuro, dove dovevano essere definitivamente eliminate le forti disparità sociali ed economiche.

“La nostra Costituzione è piena di grandi parole preannunciatrici del futuro:….pari dignità sociale…diritto al lavoro…condizioni che rendono effettivo questo diritto…assicurata ad ogni lavoratore un’esistenza libera e dignitosa…. Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano…come potete pensare che i derelitti che hanno udito queste premesse, e che vi hanno creduto e che ci si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possano ora essere condannati come delinquenti solo perché chiedono civilmente e senza far male a nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?”

Interrogativo che rimbomba come un macigno nell’aula del Tribunale di Palermo e che porta alla scarcerazione e all’assoluzione di Danilo Dolci e dei braccianti.

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