La Seconda sezione, con la pronuncia allegata, si è nuovamente occupata della annosa controversia normativa e giurisprudenziale afferente le c.d. “contestazioni a catena” e i casi di rilevabilità della intervenuta inefficacia della misura cautelare in corso di esecuzione. Di tal che, come stabilito dalle Sezioni Unite (cfr. sent. n. 45246 del 19/7/2012), è ammessa “la rilevabilità della retrodatazione con l’istanza di riesame, a condizione che all’atto della emissione del secondo titolo i termini della custodia cautelare relativi al primo titolo siano già interamente decorsi (…) e la desumibilità delle altre condizioni di apprezzamento dal testo della seconda ordinanza impugnata nella sede di riesame”.
Il Tribunale del riesame di Catanzaro – quale giudice del rinvio – annullava, con provvedimento del 20 febbraio 2024, l’ordinanza emessa in data 10 gennaio 2023 ed eseguita il 26 gennaio 2023 limitatamente a due dei tre capi di imputazione (capi G e M) in relazione ai quali era stata applicata una misura coercitiva nei confronti di un imputato confermando (per la terza volta alla luce di due precedenti annullamenti disposti dalla Suprema Corte) il titolo cautelare unicamente con riferimento al delitto previsto dalla norma contenuta nell’art. 416 bis c.p. (capo A della imputazione provvisoria).
L’imputato, per il tramite dei difensori, aveva invocato “la declaratoria di inefficacia della misura in corso di esecuzione per intervenuto decorso dei termini massimi di fase (quelli relativi alle indagini preliminari) della custodia cautelare (artt. 297, comma 3 e 303, comma 1, cod. proc. pen.)” con riferimento all’unico capo in relazione al quale la misura era, ancora, correlata (capo A: associazione di stampo mafioso).
In tal senso, per un’agevole comprensione della questio iuris che, di seguito, verrà affrontata devesi rilevare:
- che l’odierno ricorrente era stato destinatario di una prima ordinanza applicativa della misura cautelare eseguita in data 19.12.2019 per il solo delitto associativo e annullata “in sede di riesame, per inconsistenza del quadro gravemente indiziario, in data 24 gennaio 2020” (la misura durò solamente 36 giorni);
- che tale titolo cautelare (afferente il ridetto delitto associativo) veniva “duplicato” con una seconda ordinanza coercitiva eseguita il 26 gennaio 2023 (in relazione alla quale veniva disposta l’applicazione della misura cautelare per altri due capi (capo G e M) nonché per il suindicato reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 416 bisp.);
- che la seconda ordinanza veniva annullata dal Tribunale del riesame di Catanzaro unicamente in relazione a due capi (ossia il capo G e M) e veniva confermata nel resto.
Ciò posto, il giudicante non ha condiviso l’assunto difensivo secondo il quale sarebbero stati ravvisabili i presupposti per l’applicazione della retrodatazione dei termini di fase con specifico riferimento al ridetto capo A.
L’argomentazione giudiziale si fondava sulla ritenuta sussistenza di un quadro gravemente indiziario, il quale poteva essere correttamente valutato solo analizzando i fatti analiticamente descritti nella informativa della P.G. del 2 dicembre 2021 e nel contenuto dei verbali di un collaboratore di giustizia del 26 ottobre 2021.
L’imputato, per il tramite dei difensori, proponeva ricorso per Cassazione lamentando la inosservanza della legge processuale prevista a pena di inefficacia della misura e la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per avere il Tribunale proceduto alla conferma (nonostante due annullamenti con rinvio disposti dal Supremo Collegio) del titolo cautelare (unicamente in relazione al delitto associativo) nonostante ricorressero tutti i presupposti previsti dalla norma contenuta nell’art. 297, comma 3, c.p.p. (in caso contestazione c.d. a catena) ai fini della retrodazione del dies a quo della seconda misura cautelare.
La Seconda sezione, investita del ricorso, lo reputava inammissibile sulla base delle seguenti argomentazioni.
La Suprema Corte ha, preliminarmente, rilevato come la questione della retrodatazione della data di decorrenza della ordinanza coercitiva di natura detentiva non poteva essere accolta non essendo, allo stato, decorsi i termini di fase della custodia cautelare “relativi al primo titolo custodiale, alla data di adozione della seconda ordinanza cautelare” (stabilito, ex lege, in un anno – durante la fase delle indagini preliminari – con specifico riferimento al delitto associativo) (cfr. Sez. u, n. 45246, del 19/7/2012, secondo cui: “In tema di contestazione a catena, la questione relativa alla retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche nel procedimento di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) termine interamente scaduto, per effetto della retrodatazione, al momento del secondo provvedimento cautelare; b) omissis …, Corte cost., sent. n. 293/2013”).
La questione fondamentale attiene la corretta applicazione delle regole processuali con specifico riferimento alla retrodatazione dei termini in caso di applicazione di più ordinanze coercitive così come previsto dalla norma contenuta nell’art. 297, comma 3, c.p.p..
La Seconda sezione ha proceduto, attraverso un excursus giurisprudenziale e normativo, a definire quelli che sono i parametri che, ad oggi, permettono una più agevole risoluzione della ridetta quaestio iuris.
Pertanto, quello che il Supremo Collegio definisce come “attuale quadro di riferimento” è il frutto della sovrapposizione della “filosofia” oggettivistica correlata al legame qualificato tra i fatti (art. 297 comma 3 c.p.p. nel testo della legge n. 332 del ’95) e quella “soggettivistica” fondata sulla “colpevole inerzia”.
Alla luce di tali due filosofie, è possibile considerare la presenza di due differenti regimi giuridici di rilevabilità (partendo sempre dal presupposto fondamentale secondo cui i fatti tra loro diversi devono essere commessi prima della emissione del primo titolo).
Di tal che, in caso di “stesso fatto e (di) fatti avvinti da connessione qualificata i procedimenti possono essere diversi, possono pendere in sedi diverse e la regola della desumibilità dagli atti di indagine opera in modo oggettivo con il limite del rinvio a giudizio per il ‘primo fatto’ ”. Invece, in caso di “fatti diversi non connessi, la desumibilità deve essere evidente e contestuale alla emissione del primo titolo e il procedimento deve essere lo stesso o, al più, pendente presso la medesima sede giudiziaria”.
In tal senso, giova evidenziare quanto stabilito dalle Sezioni Unite (cfr. sent. n. 45246 del 19/7/2012) che hanno enucleato il principio di diritto secondo cui è ammessa “la rilevabilità della retrodatazione con l’istanza di riesame, a condizione che all’atto della emissione del secondo titolo i termini della custodia cautelare relativi al primo titolo siano già interamente decorsi (presupposto della domanda non realizzatosi nella fattispecie) e la desumibilità delle altre condizioni di apprezzamento dal testo della seconda ordinanza impugnata nella sede di riesame”.
Ciò posto, nonostante l’intervento caducatorio della Corte Costituzionale, con sentenza n. 23 del 2013, devesi rilevare che “resta però ancor oggi valido ed efficace il primo principio condizionante la possibilità di dedurre il vizio di inefficacia già in sede di riesame: la totale perenzione dei termini di fase già prima della emissione del secondo titolo cautelare, giacché solo in questo caso è evidente e non necessita di particolari accertamenti istruttori che il secondo titolo era geneticamente destinato all’aborto”.
Il nuovo intervento delle Sezioni Unite (cfr. sentenza n. 23166 del 28/05/2020) ha avuto a oggetto il computo dei termini di fase con specifico riferimento alle fasi intermedie “in caso di regresso e della particolare connessione qualificata richiesta dal testo della disposizione normativa”.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, la Seconda sezione ha rilevato:
- che, nel caso di specie “la misura posta in esecuzione in data 19/12/2019 (o.c.c. del 12/12/2019) per il capo associativo “duplicato” con la seconda ordinanza (10/01/2023, eseguita il successivo 26 gennaio) fu annullata in sede di riesame, per inconsistenza del quadro gravemente indiziario, in data 24 gennaio 2020”;
- che, conseguentemente, “non ricorreva (…) il presupposto che, solo, consente di prospettare in sede di riesame la perenzione del titolo per il compiuto esaurimento del termine di fase (un anno, in ragione del titolo detentivo) relativo alle indagini preliminari”
- che il Tribunale di Catanzaro, in sede di rinvio, annullato il titolo cautelare con riferimento ai reati descritti ai capi G ed M dell’imputazione, “ha esplicitamente argomentato (…) in ordine al profilo rilevante della desumibilità dagli atti in possesso del primo giudice circa la gravità indiziaria per l’ipotesi associativa contestata con la seconda ordinanza”;
- che, alla luce dell’annullamento della primigenia ordinanza “per difetto dei gravi indizi di colpevolezza dell’ipotesi associativa contestata”, solo le successive indagini (compendiate nella informativa del 2 dicembre 2021 all’interno delle quali era presente il propalato accusatorio del collaboratore di giustizia) hanno condotto a una integrazione ex novo del “quadro indiziario grave in relazione alla ipotesi associativa contesta a al capo A”;
- che, infine, non è affetta da illogicità la motivazione del Tribunale del riesame nella parte in cui ha valorizzato “la completezza del grave quadro indiziario raggiunto solo a seguito delle “nuove” dichiarazioni rese in tema di partecipazione associativa del ricorrente dal collaboratore di giustizia interrogato nell’ottobre 2021, in tempi, dunque, di molto successivi alla emissione della prima ordinanza avente ad oggetto la partecipazione associativa del ricorrente (in tema si veda Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, Rv. 276976 secondo cui “In tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento del tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza consente al giudice di legittimità, in relazione alla peculiare natura del giudizio ed ai limiti che ad esso ineriscono, la sola verifica delle censure inerenti la adeguatezza delle ragioni addotte dal giudice di merito ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie e non il controllo di quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito”).
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