Violenza di genere
Maltrattamenti “assistiti”: ratio, natura e configurabilità dell’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 572 comma 2 c.p.
Per proseguire il percorso tracciato nel precedente numero di questa rubrica di approfondimento sulla violenza “di genere”, è opportuno proseguire nell’analisi della fattispecie di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p..
E questo in considerazione di plurime ragioni, sia di carattere tecnico che sociale.
E ciò in quanto si tratta di:
– uno dei reati più “presenti” nel diritto vivente e nelle aule di tribunale;
– una norma che ha subìto, nel corso degli anni, maggiori modificazioni volte a contrastare fenomeni di grande allarme sociale e a tentare di far emergere situazioni di violenza domestica rimaste “sommerse” per molti, troppi anni;
– una fattispecie che, se integrata in tutti i suoi elementi, può comportare anche gravi conseguenze in termini di esecuzione.
Come è noto, infatti:
– da un lato, ai sensi dell’art. 165 comma 5 c.p., la sospensione condizionale della pena, in caso di condanna per il delitto di maltrattamenti in famiglia, sarà sempre subordinata alla partecipazione, con cadenza almeno bisettimanale, e al superamento con esito favorevole, di specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati;
-dall’altro, il reato in parola, integrato nella sua forma aggravata di cui al comma 2 dell’art. 572 c.p.., rappresenta un reato ostativo ai sensi dell’art. 656 comma 9, lett. a) c.p.p. e, di conseguenza, nel caso in cui non dovesse ritenersi concedibile la sospensione condizionale della pena, la stessa verrà immediatamente eseguita al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, senza la possibilità di richiedere una pena alternativa alla detenzione (mentre sarà possibile, all’esito del procedimento di primo grado, ove sia ritenuta concedibile nel caso concreto, richiedere l’applicazione di una pena sostitutiva).
Proprio per la rilevanza, anche “pratica”, di tale aggravante, ritengo centrale analizzare la natura e le modalità di integrazione della stessa alla luce delle coordinate ermeneutiche della più recente giurisprudenza di legittimità che ha fortemente mutato il su pregresso dictum.
Preliminarmente, al fine di meglio comprendere la ratio e la natura di questa circostanza aggravante ad effetto speciale, è opportuno analizzarla a partire dalla sua introduzione.
L’aggravante è stata introdotta con l’approvazione del c.d. “Codice Rosso” (Legge 19 luglio 2019, n. 69 recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”).
In particolare, l’approvazione del cd. “Codice Rosso”, infatti, oltre ad aver comportato un innalzamento della pena edittale prevista per il delitto di maltrattamenti in famiglia (la cui ipotesi base è punita oggi con la reclusione da tre a sette anni), ha previsto altresì, nuovamente, l’introduzione di un secondo comma che disciplina un’ulteriore aggravante specifica relativa al delitto di cui all’art. 572 c.p..
Come è noto, infatti, fino al 2013, l’art. 572 c.p. prevedeva già un’aggravante al comma 2 nel caso in cui la condotta fosse posta in essere in danno di persona minore di anni quattordici. Con il D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119, tale disposizione è stata abrogata introducendo, contestualmente, una circostanza aggravante comune all’art. 61 n. 11-quinquies c.p., riguardante i casi di delitti non colposi contro la vita, l’incolumità individuale, la libertà personale e di maltrattamenti in famiglia commessi in presenza, o in danno di un minore.
Con l’approvazione del cd. “codice rosso”, il legislatore ha invece inteso prevedere un’aggravante specifica e ad effetto speciale nei confronti delle vittime “assistite” del delitto previsto dall’art. 572 c.p., provvedendo, contestualmente, ad espungere il riferimento al delitto di maltrattamenti in famiglia dall’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 11-quinquies c.p..
Tanto premesso, la nuova formulazione del secondo comma dell’art. 572 c.p. prevede che “la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi” specificando, poi, al sesto comma (sempre introdotto dalla riforma del 2019) che “il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
Tale ultima precisazione è di straordinaria importanza, sia per comprenderne la sua oggettiva portata, sia per l’interpretazione giurisprudenziale fornita per la sua integrazione, in quanto il legislatore, aderendo agli orientamenti di legittimità ampiamente maggioritari, ha finito per riconoscere autonoma valenza alla lesione subìta dalla vittima secondaria della violenza, riconoscendogli lo status di persona offesa. Si evidenzia, infatti, che in assenza di
una specifica previsione legislativa, la giurisprudenza di legittimità si era già più volte pronunciata sul punto, riconoscendo, nel contesto della circostanza generica dell’art. 61 n.11-quinquies c.p., tale stato alla vittima secondaria della violenza.
Si tratta, ovviamente, di una rilevante determinazione in quanto da tale presupposto deriva il riconoscimento della piena legittimazione del minore a
costituirsi parte civile nel procedimento penale, qualora sia vittima di violenza assistita.
Una volta compresa la natura e la rilevanza di tale aggravante speciale, è dirimente comprendere quali siano i presupposti per la sua integrazione alla luce dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità e della sua evoluzione.
Come è noto, infatti, il delitto di cui all’art. 572 c.p. presuppone, per la sua configurabilità sotto il profilo oggettivo, la “reiterazione” delle condotte maltrattanti, le quali non devono necessariamente integrare gli estremi di un reato, se singolarmente considerate, ma che, in virtù del loro collegamento e della loro sistematicità, che si inserisce in un clima di abitualità, diventano penalmente rilevanti.
Tanto evidenziato – e come approfondito nel primo numero di questa rubrica – la giurisprudenza ha dovuto affrontare la questione della configurabilità dell’aggravante in parola e, specificamente, della necessità che il minore debba assistere a plurime condotte maltrattanti.
Sul punto, subito dopo l’introduzione dell’aggravante specifica ad effetto speciale, si è fatto riferimento alla giurisprudenza in tema di aggravante comune ex art. 61 n. 11-quinquies c.p..
Secondo tale orientamento giurisprudenziale, (ex multis, Cass. Pen. Sez. VI, Sent. n 2003 del 25.10.2018), non sarebbe necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell’abitualità, in quanto “la presenza del minore, alla stregua del nuovo art. 61 c.p., comma 1, n. 11-quinquies, non riguarda la percezione di un comportamento abituale o reiterato, essendo sufficiente che lo stesso assista ad uno dei fatti di cui ai reati indicati”.
Secondo la Corte, in particolare, occorre “distinguere tra la struttura del reato e la struttura dell’aggravante che non fa in alcun modo riferimento al danno subito dal minore legato al fatto di violenza. L’ipotesi aggravata dall’art. 61 c.p., n. 11 quinquies coincide quindi con quella in cui l’autore dell’atto di violenza agisca in presenza di un minore; ciò rende di per sé più grave la fattispecie”.
Tale interpretazione – consolidatosi negli anni e divenuta maggioritaria– è stata quella seguita anche successivamente all’introduzione dell’aggravante ad effetto speciale prevista dall’art. 572 comma 2 c.p..
In particolare, anche in pronunce recenti, (ex multis Cass. Pen. Sez. VI, Sent. n. 19832 del 06.04.2022) è stato ribadito che sarebbe sufficiente che anche solo una delle condotte maltrattanti “sia stata posta in essere alla presenza di un minore dopo l’entrata in vigore della l. 19 luglio 2019, n. 69, perché trovi applicazione la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 572, comma 2, c.p.”.
A partire dal 2023, la giurisprudenza di legittimità ha, invece, iniziato a discostarsi da tali coordinate ermeneutiche, anche alla luce delle conseguenze “concrete” derivanti dall’integrazione dell’aggravante in parola e, soprattutto, in considerazione del fatto che non tutte le condotte maltrattanti, se prese singolarmente, devono necessariamente integrare un reato e quindi avere un impatto negativo sul minore.
La Cassazione (Cass. pen., Sez. VI, Sent. n. 47121 del 5 ottobre 2023) ha, infatti, messo in discussione l’orientamento predominante sul punto, ritenendo, al contrario, che sia necessario che il minore assista ad un numero significativo di condotte maltrattanti (non necessariamente violente), tali da poter ledere il bene giuridico protetto dalla norma, ossia l’integrità e il corretto sviluppo psicofisico del minore.
In tal senso, richiamando un orientamento fino ad oggi minoritario (“che è poi la questione trattata, come detto, da Sez. 6, n. 18833 del 23/02/2018, B. cit., e, attraverso il richiamo a quest’ultima, da Sez. 6, n. 27901 del 22/09/2020, S. cit.”), la Corte di Cassazione nella summenzionata pronuncia ha sancito che in tema di “quali siano i contenuti minimi, sul piano dell’offensività e quindi della tipicità, dei “maltrattamenti assistiti” (…) tali pronunce, mediante il riferimento all’idoneità della condotta – “far assistere” il minorenne alle condotte realizzate nei confronti di altre persone -, hanno inteso sollecitare il suddetto riscontro sulla “offensività, in concreto”, da parte dei giudici di merito, sotto questo specifico profilo. Hanno, cioè, dato conto della necessità, prima di tutto logica e poi anche giuridica, che il minorenne, quale ne sia l’età, abbia presenziato ad un numero di episodi che, per la loro gravità (non dovendo, peraltro, necessariamente consistere nell’uso di violenza fisica) e per la loro ricorrenza nel tempo (abitualità), possano comprometterne il sano sviluppo psico-fisico, locuzione a proposito della quale è appena il caso di precisare che la distinzione tradizionale tra “corpo” e “mente” risulta superata dalle acquisizioni scientifiche. E hanno, per contro, escluso che il delitto sia configurabile quando, ad esempio, il minore assista ad un solo atto di maltrattamento verso terzi” (Cass. pen., Sez. VI, Sent. n. 47121 del 5 ottobre 2023).
Tali coordinate ermeneutiche, che fanno riferimento al concetto di “concreta offensività” anche per un reato inequivocabilmente di “pericolo astratto”, sono state seguite dalla successiva giurisprudenza di legittimità e, in particolare, dalla recentissima sentenza della VI Sezione Penale n. 31929 del 25.06.2024 (depositata il 5.08.2024).
Nella predetta pronuncia, la Corte ha:
– ritenuto manifestamente infondata la dedotta questione di legittimità costituzionale relativa alla violazione, da parte dell’art. 572, comma 2, c.p., dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede il medesimo trattamento sanzionatorio per le condotte di maltrattamento tenute in presenza del minore e per quelle realizzate in suo danno, osservando come essa risponda ad una precisa scelta del legislatore;
– rafforzato e approfondito i principi già esposti nella summenzionata sentenza n. 47121/2023.
In particolare, secondo la Corte di legittimità, i “fatti” a cui deve assistere il minore vittima di violenza assistita, devono essere interpretati sia in relazione con quella che è l’aggravante in parola, sia con quella che è la natura abituale del reato di cui all’art. 572 c.p..
Come evidenziato, infatti, i maltrattamenti in famiglia si fondano sul presupposto della abitualità e della reiterazione delle condotte, che possono essere anche realizzate nella forma omissiva che, se considerate singolarmente, possono anche essere prive di rilevanza penale.
Di talché, secondo la Corte, aderendo agli ultimi arresti giurisprudenziali, deve ritenersi che il “fatto” cui assiste il minore debba essere costituito da un numero minimo di episodi idoneo a rivelare la maggiore pericolosità e offensività della condotta criminosa.
In forza di tale presupposto, la Corte ha ribadito la valutazione della concreta offensività delle condotte maltrattanti e – conseguentemente – la necessità di accertare la presenza del minore ad un numero di episodi – non necessariamente connotati da violenza – che, per la loro natura e/o gravità, abitualità e reiterazione, possano effettivamente ledere il bene giuridico tutelato dall’art. 572 comma 2 c.p..
Sulla scorta di tale iter logico-giuridico, la Suprema Corte ha quindi concluso statuendo il seguente principio di diritto “ai fini della configurabilità della fattispecie aggravata dei maltrattamenti commessi in presenza del minore, ai sensi dell’art. 572, comma 2, c.p., non è sufficiente che il minore assista ad un singolo episodio in cui si concretizza la condotta maltrattante, ma è necessario che il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico.”.
Si tratta di una sentenza di grande rilevanza, che rafforza il più recente orientamento giurisprudenziale sul tema, secondo un’interpretazione coerente con la Costituzione e con la natura del delitto di maltrattamenti in famiglia.
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