Una parte del potere giudiziario ha nostalgia del ruolo di guardiano della rivoluzione etica che aveva ai tempi di Mani Pulite. Quello che sta accadendo in Liguria ce lo ricorda una volta di più.

art. pubblicato su – LINKIESTA

Il caso Toti è esploso all’alba di una delicata campagna elettorale, e per una singolare coincidenza, pochi giorni dopo l’annuncio in pompa magna del governo di un proprio disegno di legge per una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario. Chi scrive si limita a rilevare il punto, anche se condivide l’ottimo Francesco Cundari quanto alla stucchevolezza delle solite polemiche «a orologeria».

C’è molto di più nel provvedimento di ben settecento pagine con cui la magistratura genovese ha interrotto definitivamente il governo di una regione importante, liberamente scelto dall’elettorato.

Perché il punto forse più delicato è proprio questo: l’emissione di un provvedimento cautelare incide in modo anche irreparabile sul delicato processo con cui in una democrazia i cittadini scelgono i propri rappresentanti.

E, infatti, il primo interrogativo importante che da più parti è stato sollevato non riguarda soltanto la fondatezza e la natura delle accuse, quanto la scelta radicale di recidere il legame istituzionale tra Giovanni Toti, la sua pubblica funzione e i suoi elettori, procedendo al suo arresto.

Non esiste per le cariche regionali e locali il meccanismo di tutela previsto dall’articolo 68 della Costituzione, eppure è un tema particolarmente pressante nel momento in cui si tende ad accentuare l’autonomia degli enti locali, come le Regioni.

Non sono questi gli unici profili di particolare rilievo della vicenda. Innanzitutto va rilevato che forse, per la prima volta, l’ordinanza cautelare non sia reperibile agevolmente sul web come negli altri casi di arresti eccellenti. È questa la probabile conseguenza del famoso “bavaglio di Nordio”, il disegno di legge con cui si fa divieto di pubblicare le ordinanze cautelari. Non ci voleva un particolare acume per comprendere che, anche in questo caso, ci si trovasse di fronte all’ennesima idiozia da sprovveduti del diritto.

L’ordinanza della giudice delle indagini preliminari Paola Faggioni è stata puntualmente distribuita alla stampa. O, meglio, sono state distribuite le solite sapienti veline come d’uso da sempre con cui gli inquirenti, in particolar modo gli uffici di polizia giudiziaria, “spiegano” ai solerti giornalisti che cosa c’è scritto senza la fatica di sciropparsi settecento pagine, e soprattutto con la sapienza pubblicitaria di trovare la “parola magica” o l’oggetto simbolo dell’indagine.

Nel caso di Toti, il totem da spacciare negli articoli è la «patata al caviale» che Toti avrebbe invocato dall’imprenditore e suo cliente Aldo Spinelli come condimento di goduriose gite in barca. Il tedio già sorge inarrestabile: quante volte ne abbiamo viste di queste trovate? E quante volte le abbiamo viste naufragare miseramente dopo anni di processo? Qualcuno si ricorda ancora «il mondo di mezzo» e la «sguattera filippina»?

Il punto è che un solerte elettore che volesse farsi da sé un’idea (ci sono maniaci che compulsano, magari con mani rese esperte dal proprio lavoro, ordinanze e sentenze per cercare di capire senza sottostare agli strafalcioni giuridici di cronisti ignoranti) oggi non può più. E grazie alle trovate di qualche garantistoide della domenica l’elettore viene leso nel diritto di formarsi la propria opinione.

Ma da quel poco che circola, a partire dal noioso e burocratico comunicato della procura genovese (che sbadigli: in fin dei conti un po’ di brio anche nel diritto mica è peccato mortale, signori pm), si capisce che siamo nel già visto.

A Toti si addebita il reato di corruzione, ma se il nostro istinto ci assiste si tratta di una particolare e atipica forma di illecito che, proprio per la sua stranezza e contraddizione, gli studiosi e la giurisprudenza hanno battezzato come «corruzione impropria» per distinguerla da quella finalizzata a ottenere un favore in violazione di norme e regolamenti che lo vietano. Non si tratterebbe di soldi (settantaquattromila euro in più tranche) versati per ottenere non un atto contra legem, bensì per ottenerne uno legittimo e dovuto.

Ciò lo si deduce da una interessante intervista di Repubblica all’ex procuratore di Genova Francesco Cozzi, oggi nominato difensore civico di Genova (i magistrati hanno la stessa sindrome dei politici: in pensione soffrono a stare con le mani in mano e un qualche assessorato alla legalità, la direzione sempre “etica” di qualche ente pubblico, una giurisdizione particolare, cascano a fagiolo).

Cozzi è informato sui fatti perché le indagini iniziarono con lui in carica, così rivela con apprezzabile sincerità che alcuni degli elementi che sono emersi possono anche essere condivisibili nel merito. Cioè: se vengono fatte delle richieste che vanno incontro all’interesse pubblico, è anche giusto che vengano portate avanti. Sono le modalità il vero tema: le scorciatoie non vanno bene, è il come si ottengono le cose che fa la differenza. Questa è la famosa “corruzione della funzione” o, meglio, “la corruzione sistematica” evocata nel provvedimento cautelare a carico del goloso di patate Toti.

Non è finita: apprendiamo che lo strumento delle dazioni di denaro sia una serie di versamenti al comitato elettorale di Toti.

Questa roba qui l’abbiamo già assaporata con la vicenda della fondazione Open di Matteo Renzi. Allora a Renzi la procura di Firenze contestava alcuni finanziamenti alla fondazione, come nel caso Toti ai suoi comitati elettorali, considerandola come un’emanazione del Partito democratico di cui era segretario. Oggi la procura genovese parla di tangenti, ma poco cambia.

La Cassazione ha spazzato via le accuse nei confronti di Renzi ricordando sempre il famoso “principio di legalità”: ciò che la legge consente non è reato.

La realtà è che la legge permette i finanziamenti elettorali che ovviamente presuppongono la ricerca della benevolenza del politico da parte del donatore. E, come dice Cozzi, nessuno può contestare che talvolta gli scopi siano leciti, solo che “il metodo” non va bene e si scomoderà un giudice cercando patate sotto la lanterna di Genova.

Io non credo che la magistratura agisca «a orologeria», ne sono convinto. Penso semplicemente che alcuni suoi settori abbiano nostalgia del ruolo di guardiani della rivoluzione etica dei bei tempi di Francesco Saverio Borrelli e di Mani Pulite. Questi settori ci vogliano magari inconsciamente ricordare che loro sono sempre lì e che, semmai si procedesse a cambiare le cose, noi cittadini ci perderemmo quel sapiente mix tra moralità, diritto e galera che è un marchio di fabbrica del Paese e della sua magistratura.

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Cataldo Intrieri, Penalista del Foro di Roma.

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