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[…Le buone modifiche non hanno colore politico ma solo giustezza di intenti, il loro unico scopo deve essere quello di garantire che il processo sia equo e che l’indagato/imputato, chiunque esso sia senza distinzione alcuna, sia garantito da norme che regolino un processo equo e giusto nella parità di condizione con colui che, legittimamente e nell’esercizio della sua funzione, lo fa processare.]

Il tema della separazione delle carriere dei magistrati, funzionale, tra le altre cose, a garantire maggiore terzietà del Giudice ed a livellare le posizioni delle parti processuali nell’ottica del bilanciamento dei pesi processuali, rappresenta un’innovazione legislativa invocata da più parti (anche da una parte della magistratura).

La spinta innovativa del Legislatore ha trovato il sostegno, oltre che dell’avvocatura, di gran parte della società civile che ha sempre pensato che fosse corretto garantire al cittadino che il Giudice incarnasse la figura del terzo super partes, intonso da pregiudizi di categoria, da posizioni preconcette figlie, tra gli altri, di rapporti privilegiati, autonomo nel giudizio e nella funzione; inutile esprimere le proprie riflessioni a metà, affidarsi alla usuale pratica del political correct per esprimere il proprio pensiero.

Chi scrive lo ha sempre sostenuto, privatamente ed in pubblici incontri davanti a magistrati che, come oggi, sostenevano l’importanza della crescita professionale che solo il cambio di funzioni gli aveva garantito nel corso delle proprie carriere. Io ho sempre pensato che la scelta dovesse essere definitiva, che la commistione di funzioni avrebbe determinato, prima ancora che storture funzionali (un giudice che è stato P.M. è portato per natura ad applicare criteri di valutazione della prova in alcuni casi esasperati al limite della probatio diabolica, altro che ragionevole dubbio), condizionamento nell’esercizio della funzione.

Il Giudice che in precedenza ha svolto funzioni requirenti è portato a richiedere e cercare un percorso logico di giudizio più rigido, a volte sproporzionato, alternativo rispetto a quello prospettatogli dalle parti perché la sua forma mentis è, giocoforza, impostata con i canoni requirenti. Credo che affermare queste cose non sia popolare ma intendo esprimere il mio pensiero nudo e puro, senza alchimie lessicali o usuali espressioni di circostanza.

Con la medesima schiettezza credo che alcuni Magistrati pensino veramente che dal cambio di funzione abbiano tratto benefici, e magari è stato così; tuttavia credo che si tratti di mosche bianche, perché la verità è che nella stragrande maggioranza dei casi il cambio di funzione è legato a percorsi di progressione professionale, a necessità di ottenere una certa sede di lavoro, a scelte di “politica” giudiziaria (è noto che la designazione per lo svolgimento di funzioni direttive sia molto spesso legato all’appartenenza ad una compagine associativa di categoria, piuttosto che ad un’altra). Il giudice vero, quello che svolge la funzione con pienezza di convinzione ed autonomia di giudizio, sceglie di essere giudice, così come il P.M. sceglie di essere requirente perché è nella propria natura, perché vuole essere “parte processuale”.

Ed allora cosa c’è di così sbagliato a pretendere che funzioni tanto delicate vengano esercitate da soggetti che avvertono nel proprio animo la necessità di svolgere un certo ruolo con convinzione ed indipendenza (che vale per l’una come per l’altra).

Il cambio di funzioni continuo fa sì che il Giudice, che nel precedente incarico ha svolto funzioni requirenti, si trovi al proprio cospetto il collega (quale parte) con il quale ha condiviso (di certo in passato) esperienze lavorative, momenti di intima riflessione, con il quale ha costruito un rapporto personale di fiducia e di stima, magari anche di amicizia; ed in questo “simposio” ci sarà l’avvocato che, a differenza del collega, è estraneo a quel percorso di crescita comune e dovrà, di certo, faticare non poco per convincere il Giudice che la propria tesi è più corretta, ragionevole, attagliata alla realtà processuale riscostruita nel giudizio, rispetto a quella del collega (magari amico).

E si badi bene, non è una critica di categoria, la riflessione è figlia della “normale” condizione umana; non c’è una volontà preconcetta di voler puntare l’indice ma solo una riflessione sulla normale evoluzione e gestione dei rapporti umani; differentemente si dovrebbe pensare che il Giudice non è “umano”, ma così non è!

All’avvocato questa facoltà non è concessa! All’avvocato è consentito di cambiare la propria area di specializzazione ma resterà sempre un avvocato.

Ed in tale fisiologico sbilanciamento dei pesi processuali il legislatore inserì le norme sulle investigazioni difensive nel lontano 2000. Ricordo ancora la modifica legislativa e l’entusiasmo con il quale l’abbiamo accolta.

Come tutte le modifiche, che avrebbero dovuto prevedere una rivoluzione giuridico/culturale ed una spinta propulsiva per l’allineamento ed il bilanciamento delle parti, l’insidia era contenuta nelle norme ed il mezzo processuale riconosciuto all’avvocato si è presto rilevato sterile e, per certi versi, inutile.

Già la prima lettura delle norme, artt. 391 bis e ss c.p.p., affidava all’avvocato il potere di svolgere investigazioni difensive fino all’angolo, perché per imboccare la strada maestra e per garantire segretezza ed efficacia delle medesime sarebbe stato necessario ricorrere all’ausilio del sig. P.M.-

Proprio così, l’impianto codicistico era pensato per far credere che l’avvocato, come nelle pellicole americane, avrebbe potuto investigare, anche avvalendosi di collaboratori, trovare prove nuove, esplorare sentieri non percorsi dalla p.g., individuare prove che dimostrassero che i fatti erano differenti da come ricostruiti dall’attività di indagine del sig. P.M.; tuttavia questo è vero fino ad un certo punto, perché al primo intoppo nel sentiero accidentato si prospettavano due possibili soluzioni: abbandonare il percorso o rivolgersi all’altra parte processuale.

In maniera incredibile il legislatore ha pensato che qualora l’avvocato non riesca ad escutere un testimone, ad esempio, debba rivolgersi al sig. P.M. che lo convocherà al suo cospetto, ed alla sua presenza il difensore lo interrogherà.

In sostanza la norma è concepita così male che l’altra (forte) parte processuale conoscerà il contenuto delle investigazioni difensive, e magari potrà in essere le contromisure investigative in maniera tempestiva.

Mi domando se in uno Stato di diritto che si ammanta di principi di uguaglianza e di indipendenza, che fa del “giusto processo” un cavallo di battaglia della propria civiltà giuridica sia ammissibile pensare che un difensore, davanti al rifiuto di un testimone ad essere escusso, debba rivolgersi all’altra parte processuale per ottenere la testimonianza.

E qui la riflessione va oltre: ipotizziamo che il difensore convochi un testimone per escuterlo su temi di prova indicati dall’assistito, che dovrebbero avere il pregio di confutare l’ipotesi accusatoria; il testimone in parola non si presenta ed il difensore è costretto a citarlo per il tramite del sig. P.M. che quel testimone non lo aveva individuato, o che magari non ne conosceva l’identità. In occasione dell’escussione il teste fornisce delle dichiarazioni che sono contrarie all’assistito e le medesime, giocoforza, confluiscono nel fascicolo di indagine con nocumento della posizione dell’assistito.

La domanda è: il difensore che ha attivato l’iniziativa in parola ha certamente arrecato nocumento alla difesa del proprio assistito, del che è evidente che ha svolto un’attività contraria agli interessi del patrocinato.

Una condizione normale dovrebbe garantire al difensore di scegliere se utilizzare o meno le risultanze di quell’attività, perché non c’è alcuna norma che obbliga un difensore a utilizzare prove contrarie agli interessi dell’assistito (art. 391 decies comma 1 c.p.p.); viceversa nel caso di specie la norma, così come strutturata, fa si che le risultanze di quell’attività confluiscano automaticamente nel fascicolo del sig. P.M.-

L’assurdità di tale previsione normativa è di tutta evidenza! Così come immaginiamo che il testimone fornisca dei dati che sovvertono la ricostruzione operata dal sig. P.M. fino a quel momento; tale risultanza si presterebbe anche alla possibilità di avvantaggiare la p.g. nel tentativo di trovare elementi nuovi per confutare quella tesi, o molto più verosimilmente per trovare prove nuove e diverse che superino quelle risultanze (e sappiamo che questo accade sovente e che solo i dibattimenti lunghi e logoranti fanno emergere la verità).

La scelta del difensore potrebbe essere quella di custodire gelosamente la prova nuova e decisiva e portarla all’attenzione del giudice nel corso del giudizio, sì da non dare vantaggi alla p.g., e del resto la norma sembrerebbe essere strutturata proprio in questa direzione (391 octies c.p.p.)!

O ancora si pensi all’evenienza della ordinaria assunzione del testimone in sede di investigazioni difensive: la norma prevede che sia dato avviso al teste del divieto di rivelare le domande poste dal sig. P.M. o dalla p.g. e delle risposte date, pena l’inutilizzabilità della testimonianza.

Orbene, nel caso in cui il difensore sia obbligato ad escutere il teste alla presenza del sig. P.M. (perché non si è presentato ed è stato citato dall’altra e forte parte processuale) tale divieto viene neutralizzato dalla procedura stessa; il sig. P.M. conoscerà in presa diretta le domande fatte dal difensore e le risposte che il testimone ha fornito.

Tali storture normative sono la manifestazione evidente della disparità delle parti processuali ed il legislatore non si è posto il problema di risolverle nel tempo, eppure la normativa in parola è stata introdotta nel 2000.

La verità è che le investigazioni difensive sono state colte con sospetto sin dalla loro prima applicazione; si è affermato che l’istituzione del titolo VI bis (investigazioni difensive) al codice di rito avrebbe rappresentato l’innovazione normativa che avrebbe dovuto garantire maggiore parità tra le parti processuali, eppure le norme stesse contenevano in grembo il seme dell’inutilità.

Come molti difensori ho svolto, in passato, parecchie investigazioni difensive; ho video ed audio registrato testimonianze al fine di garantire (e garantirmi) la genuinità della prova e delle modalità di assunzione delle stesse ma ho compreso, molto presto, che le stesse non solo non erano viste di buon occhio dai Giudici ma erano perfettamente inutili.

Gli esempi di inutilità delle investigazioni difensive, così come concepite, potrebbero essere molteplici e varie ma la riflessione che voglio porre all’attenzione del lettore è un’altra: per quale ordine di ragioni un avvocato dotato di poteri di investigazione deve rivolgersi all’altra parte processuale per ottenere la “possibilità” di acquisire una certa prova?

Se davvero vi fosse una parità di diritti e di peso processuale il difensore dovrebbe potersi avvalere, al pari del sig. P.M., della p.g. per ottenere che un testimone si presenti al suo cospetto per rendere testimonianza; perché è previsto un reato, art. 650 c.p., in ipotesi in cui un testimone non ottemperi ad un invito della p.g. ed una previsione normativa analoga non è stata codificata anche nell’ipotesi di mancata presentazione del testimone davanti al difensore (nelle ipotesi di cui all’art. 391 bis e ter c.p.p.)?

Ed allora la riflessione e la conclusione che raggiungo è che lo sbilanciamento delle parti processuali è sempre stato malcelato dal tentativo, soltanto apparente, di affermare che il sig. P.M. è terzo al pari del difensore (che rappresenta l’imputato) al cospetto del Giudice e che le norme del nostro codice, solo a parole dichiaratamente garantista, sono altrettanto sbilanciate e ipocrite. La verità è che il timido tentativo di riconoscere un potenziamento delle funzioni difensive è stato vanificato sul nascere da norme a “metà”.

In conclusione ben venga la separazione delle carriere, che ponga il P.M. nella condizione di essere veramente ed effettivamente una parte del processo al pari del difensore, in combinato disposto con la modifica delle norme del codice di rito, anche e soprattutto in materia di investigazione difensive, che garantiscano al difensore di svolgere il proprio incarico e la propria funzione senza essere obbligato a ricorrere all’altra parte processuale per ottenere che un testimone deponga e senza essere obbligato, contro l’interesse dell’assistito, a fornire dati ed informazioni processuali (a prescindere se a favore o contro) all’altra parte nella fase delicata delle indagini.

Non è più il momento delle mezze misure, ora che il coraggio normativo ha preso piede nel panorama normativo è ora che il codice di rito, troppo spesso oggetto di interventi di modifica parziali e sterili, figli di mediazioni politiche, venga ristrutturato e bilanciato.

Le buone modifiche non hanno colore politico ma solo giustezza di intenti, il loro unico scopo deve essere quello di garantire che il processo sia equo e che l’indagato/imputato, chiunque esso sia senza distinzione alcuna, sia garantito da norme che regolino un processo equo e giusto nella parità di condizione con colui che, legittimamente e nell’esercizio della sua funzione, lo fa processare.

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Michele Novella, Penalista del Foro di Palmi.

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