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Un tempo sarebbe stata una fuga di notizia a far scatenare il caso politico giudiziario di un Presidente del Consiglio indagato. Oggi è lo stesso primo Ministro a comunicare sui social di essere indagato ma soprattutto ad anticipare una arringa difensiva in piena regola.

A cura di Michele Bontempi – penalista del Foro di Brescia.

Errore non consultarsi con un avvocato prima di affermare una circostanza smentita dalla sentenza della Corte di appello di Roma, da cui emerge che il Ministro della Giustizia era stato informato dalla Procura Generale del mandato di arresto internazionale e che in 2 giorni non ha avuto il tempo di chiedere l’emissione della misura cautelare. Un errore anche non consultarsi con un avvocato prima di chiamarlo avviso di garanzia come se fosse un primo atto di una indagine alla quale (errore anche qui non essersi consultata con uh avvocato) attribuire il significato di tentativo di intimidazione o peggio ancora di ricatto. Nessuna indagine potrà svolgere la Procura di Roma almeno fino a quando il tribunale dei ministri prima e il Parlamento poi non avranno dato la autorizzazione a procedere.

Certo, è indiscutibile la solerzia nella trasmissione dell’avviso (previsto da una legge costituzionale), senza nemmeno attendere che i diretti interessati riferissero in Parlamento della scelta politica di rimpatriare un sospettato di crimini contro l’umanità. Ma è un errore soprattutto l’epiteto dato all’avvocato che ha denunciato il caso, reo di avere difeso in passato dei mafiosi, equiparando ancora una volta la difesa di un diritto alla difesa del reato.

L’esternazione social del Presidente del consiglio è stata un concentrato e una istantanea perfetta dei tempi in cui viviamo a causa del clima da caccia alle streghe della giustizia di piazza: la presunzione di innocenza dovrebbe non far significare nulla il fatto di essere semplicemente indagati e invece accade esattamente il contrario: chi è indagato o peggio ancora rinviato a giudizio viene messo in croce come se avesse subito una condanna da un Tribunale (poco importa se poi verrà assolto, intanto è crocifisso); se è un povero quisque de populo subisce e basta (come i ladroni che facevano compagnia a Gesù sulla croce), se è un potente e ha la forza di reagire, commette anch’egli un errore di prospettiva: anziché difendersi nel processo attraverso un avvocato, accetta di trasferire la sede della discussione dal tribunale ai social, illudendosi di essere più forte della veemenza di una società che concepisce un unico epilogo all’esito del processo mediatico: la condanna.

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