“La Prima Sezione penale ha affermato che, anche a seguito dell’intervenuta abrogazione del terzo e quarto periodo del comma 1.1 dell’art. 19 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, l’espulsione dello straniero a titolo di sanzione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, d.lgs. citato, non può essere disposta quando la misura si risolva in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla Corte EDU.”
A cura di Marco Latella (Avvocato del foro di Locri e componente del comitato di redazione della Camera Penale di Locri)
Il Tribunale di sorveglianza di Catania – in sede di opposizione – confermava il decreto emesso dal Magistrato di sorveglianza di Siracusa che aveva disposto l’espulsione, quale misura alternativa alla detenzione, di un condannato e il suo rimpatrio in Tunisia.
Ciò posto, il condannato presentava, per il tramite del difensore, ricorso per Cassazione avverso il provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza catanese lamentando, tra i vari motivi, vizio di motivazione e violazione di legge in relazione al contenuto dell’impugnata ordinanza. Difatti, il Tribunale non avrebbe adeguatamente vagliato le circostanze ostative all’espulsione del condannato alla luce dell’elevato rischio, in caso di rimpatrio, di sottoposizione del condannato a forme di persecuzione in territorio tunisino (Paese di origine del ricorrente) e senza considerare la comprovata integrazione del ricorrente nel tessuto sociale ed economico italiano.
La Prima sezione, investita del gravame, lo reputava fondato sulla base delle argomentazioni logico-giuridiche di seguito indicate.
Preliminarmente, la Suprema Corte ha sottolineato come l’espulsione dello straniero extracomunitario irregolare che si ritrovi in stato di detenzione in esecuzione di pena, anche residua,
non superiore ad anni due per reati c.d. non ostativi “ha natura sostanzialmente amministrativa e costituisce una misura alternativa alla detenzione atipica, della quale è obbligatoria l’adozione in presenza delle condizioni fissate dalla legge” (cfr. Sez. 1, n. 50871 del 25/05/2018, Tello; Sez. 1, n. 6814 del 09/07/2015, dep. 2016, Nakai; Sez. 1, n. 45601 del 14/12/2010, dep. 29/12/2010, Turtulli, Rv. 249175-01).
La ratio è quella di disporre la fuoriuscita dal circuito penitenziario e il conseguente allontanamento dell’Italia di tutti quei soggetti che – in assenza di prevalenti esigenze di asilo o di ragioni umanitarie che siano in grado di mettere in discussione la tutela del singolo e/o delle proprie relazioni familiari – siano stati condannati e abbiano dimostrato incapacità di integrazione con la comunità italiana sia perché sprovvisti di regolare titolo per soggiornarvi sia per la mancata partecipazione a “percorsi proficui di risocializzazione” (Sez. 1, n. 9425 del 18/02/2019, G., Rv. 274885-01; Sez. 1, n. 915 del 17/10/2019, dep. 2020, Kouadio, Rv. 278065-01).
Pertanto, la valutazione giudiziale, ai fini della adozione di un provvedimento di espulsione, deve fondarsi su una concreta analisi volta ad accertare l’effettiva integrazione nel tessuto sociale del condannato. Tale misura non sarà però eseguibile se “da ciò [ossia dalla sua esecuzione] derivasse un irreparabile pregiudizio per la salute dell’individuo, e fosse dunque messo a rischio il diritto garantito dall’art. 32 della Carta” (cfr. Sez. 1, n. 38041 del 26/05/2017, Makaadi, Rv. 270975-01; in termini, Sez. 1, n. 16383 del 15/03/2019, Mlouki Hamed, Rv. 275245-01) o nei casi in cui sussista “serio pericolo che il destinatario [possa essere] sottoposto nel Paese d’origine alla pena di morte, ovvero a tortura o ad altro trattamento inumano o degradante” (cfr. Sez. 1, n. 49242 del 18/05/2017, Lucky, Rv. 271450-01).
Il predetto pericolo dovrà essere oggetto di attenzione anche nei confronti dei soggetti condannati che
non possono “godere” del diritto allo status di rifugiato, ma che possono, comunque, usufruire della c.d. protezione sussidiaria ossia di quella protezione che lo Stato italiano garantisce nei confronti di chi possa essere sottoposto, nel proprio paese d’origine, a grave minaccia a causa di forme di violenza inaudita in caso di sussistenza di conflitto armato interno o internazionale.
In tale contesto assume fondamentale rilievo il concreto ed effettivo rispetto della norma contenuta nell’art. 8 della Convenzione EDU.
La Corte di Strasburgo, difatti, nella subiecta materia (tutela della vita privata e familiare) ha sancito che “la totalità dei legami sociali tra gli immigrati radicati e la comunità in cui essi vivono costituisc[e] parte del concetto di vita privata in questione, e che pertanto l’espulsione di un immigrato radicato costituisc[e] un’ingerenza nell’esercizio di tale diritto (Maslov e altri c. Austria [GC], n. 1638/03, CEDU 2008, 8 63), giustificata solo se proporzionata all’esito del bilanciamento tra il coefficiente di pericolosità del soggetto e il suo livello di integrazione nel consorzio sociale del Paese di accoglienza (Uner c. Paesi Bassi [GC], n. 46410/99, CEDU 2006-XII; Zakharchuk c. Russia, n. 2967/12, 17 dicembre 2019, 88 46-49; Levakovic c. Danimarca, n. 7841/14, 23 ottobre 2018, §§ 42-45)”.
Ciò posto, a livello interno, il giudice italiano può disporre l’espulsione dello straniero solo nel caso in cui il provvedimento di rimpatrio non metta in discussione la salvaguardia delle relazioni private e familiari dell’interessato.
In tal senso, la norma contenuta nell’art. 19, comma 1.1., d.lgs. n. 286 del 1998, impone di non disporre il respingimento, l’espulsione o l’estradizione di una persona verso altro Stato nel caso in cui da ciò derivi il rischio per il destinatario del provvedimento di essere sottoposto a tortura, a trattamenti inumani o degradanti o di essere rimpatriato in uno Stato che si sia reso responsabile di “violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”.
Le più recenti modifiche alla predetta norma (alla luce degli interventi abrogativi avvenuti nell’ultimo periodo) hanno necessariamente indotto l’operatore del diritto a fare largo uso dei criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria.
La Corte di Strasburgo ha, pertanto, ribadito che seppure la norma contenuta nell’art. 8 della Convenzione non prevede “un diritto assoluto di non espulsione per nessuna categoria di stranieri, esistono circostanze in cui l’espulsione medesima si dimostra non necessaria in una società democratica e non proporzionata al legittimo obiettivo perseguito, comportando cosi la violazione di tale disposizione” (cfr. Beldjoudi c. Francia, n. 12083/86, 26 marzo 1992; Amrollahi c. Danimarca, n. 56811/00, 11 luglio 2002; Yilmaz c. Germania, n. 52853/99, 17 aprile 2003; Keles c. Germania, n. 32231/02, 27 ottobre 2005).
Risulta, di conseguenza, essenziale comprendere se la misura dell’espulsione sia conforme o meno al parametro convenzionale considerando i seguenti parametri:
- la natura e la gravita del fatto criminoso commesso dallo straniero;
- la durata del soggiorno del richiedente nel Paese dal quale dovrà essere coattivamente allontanato;
- la situazione familiare del richiedente;
- la gravità dei rischi e dei pericoli che l’extracomunitario irregolare potrebbe incorrere in caso di espulsione.
Sulla scorta delle superiori considerazioni, la Suprema Corte ha enucleato il principio di diritto secondo cui “pur dopo l’approvazione del d.l. 10 marzo 2023, n. 20, conv. dalla legge 5 maggio 2023, n. 50, al cui art. 7 si deve, tra l’altro, la riscrittura dell’art. 19, comma 1.1, d. lgs. n. 286 del 1998 e l’abrogazione del suo terzo e quarto periodo – l’espulsione dello straniero a titolo di sanzione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, stesso d.lgs., non può essere disposta, al pari di ogni altra forma di espulsione di natura penale, quando tale misura si risolva in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo alla luce dei criteri sopra richiamati”.
Nel caso di specie, l’omesso approfondimento da parte del Tribunale di sorveglianza della documentazione prodotta dall’opponente – avente a oggetto l’avvenuta integrazione sociale, familiare e lavorativa del medesimo nella realtà nazionale italiana – ha indotto la Suprema Corte a disporre l’annullamento con rinvio dell’impugnata ordinanza al fine di scongiurare il rischio per il ricorrente, una volta rimpatriato in Tunisia, di veder leso il proprio diritto alla vita privata e familiare.
Cass. Pen., Sez. I, Sentenza n. 43082 del 07 novembre 2024 Ud. (dep. 26 novembre 2024)
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