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È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 34, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 150 del 2022, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 32, 97, 102, 106 e 111 Cost. e 6 CEDU, nella parte in cui prevede l’inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda o a quella del lavoro di pubblica utilità e delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con pena pecuniaria o con pena alternativa, non avendo il doppio grado di merito copertura costituzionale e corrispondendo l’inappellabilità delle sentenze concernenti fatti di modesta rilevanza a una scelta legislativa legittima, in quanto finalizzata a migliorare l’efficienza del sistema delle impugnazioni. (In motivazione, la Corte ha altresì evidenziato che le garanzie della giurisdizione risultano comunque assicurate nell’ambito del giudizio di primo grado e per effetto dello scrutinio di legittimità della sentenza, nonché, per la persona offesa, dalla facoltà di adire la giurisdizione civile a tutela dei propri diritti).

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A cura di Marco Latella (Avvocato del foro di Locri e componente del comitato di redazione della Camera Penale di Locri)

La Suprema Corte, con la sentenza in esame, è intervenuta dichiarando la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 593, comma 3, c.p.p. per violazione degli artt. 3, 25, 27, 32, 97, 102, 106 e 111 Cost. e 6 CEDU “nella parte in cui prevede l’inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda o a quella del lavoro di pubblica utilità e delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con pena pecuniaria o con pena alternativa”.

La ridetta questione è stata sollevata dopo la proposizione dell’atto di appello delle parti civili costituite avverso la sentenza assolutoria emessa dal Giudice di Pace di Rimini nei confronti di un soggetto accusato del reato previsto dall’art. 590, comma 2, c.p..

Nel caso di specie, secondo il capo di imputazione, l’imputato si sarebbe reso responsabile del predetto reato essendosi posto alla guida di un motociclo – durante le sessioni di qualifica di una gara presso l’autodromo di Misano Adriatico – cagionando per imprudenza, negligenza e imperizia lesioni personali in danno di un altro pilota a seguito del tamponamento del mezzo condotto dall’altro soggetto gareggiante alla competizione motociclistica.

Il Giudice di Pace di Rimini, dopo aver proceduto alla ricostruzione del fatto tramite l’analisi del video raffigurante le fasi dinamiche del sinistro e l’assunzione delle prove testimoniali nel corso del giudizio di primo grado, è pervenuto alla assoluzione dell’imputato richiamando i principi giurisprudenziali in tema di “rischio consentito” secondo cui, nel caso di specie, la condotta posta in essere dal pilota era da considerarsi lecita essendo stata (la condotta) rispettosa del regolamento “e non essendo ipotizzabili standard di cautela ulteriori”.

Ciò posto, come detto precedentemente, le parti civili costituite (la p.o. e il convivente) proponevano appello avverso la suindicata sentenza, lamentando “la erronea valutazione del fatto-reato in relazione agli ipotizzati profili di responsabilità colposa dell’imputato, la contraddittoria e illogica motivazione in ordine agli elementi emersi dall’istruzione dibattimentale e l’omessa considerazione della causalità della condotta rispetto all’evento lesivo”.

Il Tribunale di Rimini, quale giudice dell’appello, ha rilevato l’inammissibilità dell’appello proposto dalle parti civili stante il contenuto della norma contenuta nell’art. 593, comma 3, c.p.p. in relazione a quella contenuta nell’art 568, comma 5, c.p.p. disponendo la conversione in ricorso per Cassazione dell’atto di gravame e procedendo alla relativa trasmissione degli atti alla Suprema Corte.

Nel frattempo, la Procura della Repubblica preso il Tribunale di Rimini presentava direttamente ricorso per Cassazione deducendo l’avvenuto travisamento della prova e dolendosi del fatto che il Giudice di Pace di Rimini non si fosse confrontato con “il compendio testimoniale complessivamente analizzato (…) dal quale sarebbe emersa la colposa violazione regolamentare posta in essere da parte dell’imputato”.

Una volta trasmessi gli atti alla Corte di Cassazione, le parti civili costituite depositavano motivi aggiunti reiterando le censure formulate con l’atto di appello e sollevando, in via subordinata, la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. art.593, comma 3, c.p.p. “nella parte in cui aveva eliminato la possibilità di un secondo giudizio di merito per tutto il catalogo dei reati di competenza del Giudice di Pace”.

Ciò posto, la Quarta sezione, investita dei ricorsi, dichiarava l’inammissibilità di quello presentato dalle parti civili costituite e accoglieva quello proposto dall’Ufficio di Procura.

Orbene, la Suprema Corte ha reputato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale.

In tal senso, i Giudici hanno ribadito come, in numerose occasioni, la giurisprudenza di legittimità si sia occupata della ridetta quaestio iuris (cfr. Sez. 5, n. 4965 del 06/12/2006, dep. 2007, Triolo, Rv. 236310, Sez. 5, n. 7325 del 11/10/2007, dep. 2008, Di Sarro, Rv. 239106) ribadendo che – in caso di emissione di sentenza di condanna alla sola pena dell’ammenda o a quella del lavoro di pubblica utilità e di emissione di sentenze di proscioglimento in relazione ai reati puniti con pena pecuniaria o con pena alternativa e rientranti all’interno del “catalogo” di competenza del Giudice di Pace” – “l’ordinamento costituzionale garantisce solo un grado di merito ed uno di legittimità, di modo che un doppio grado di merito non ha copertura costituzionale” (cfr. conf. Sez. 5, n. 3235 del 22/11/2019, dep. 2020, Leardi, Rv. 278150).

La ratio di tale scelta interpretativa si fonda sulla chiara volontà del Legislatore di permettere il solo vaglio di legittimità delle “sentenze concernenti fatti di modesta rilevanza, per i quali sia stata irrogata la sola pena pecuniaria” non corrispondendo “ad esigenza logica di sorta l’appellabilità anche delle sentenze in questione”.

In tale contesto non è possibile, pertanto, scorgere un ipotetico contrasto con le norme contenute negli artt. 3, 24 e 111 Cost. (la proponibilità del solo ricorso per cassazione costituisce, secondo la Corte, un’adeguata quanto efficace forma di tutela del principio costituzionale del giusto processo).

In assenza di un vulnus dei principi costituzionali superiormente evocati dai ricorrenti, secondo la Quarta sezione, devesi rilevare che “la limitazione dell’appello – come sottolineato nella relazione illustrativa al d.lgs. n.150/2022 – persegue il fine, da considerare rientrante nell’esercizio della legittima discrezionalità legislativa, di implementare l’efficienza del sistema delle impugnazioni attraverso una riduzione dell’appellabilità oggettiva delle sentenze, con conseguente manifesta infondatezza della questione (per le ragioni suddette) in relazione agli artt. 3, 25, 27 e 111 Cost.; previsione peraltro riferita – con conseguente inconferenza dei richiami agli artt. 102 e 106 Cost. – a tutto il catalogo di reati prevedenti il suddetto sistema sanzionatorio e non a quelli di sola competenza del Giudice di Pace”.

Ciò posto, il ricorso delle parti civili costituite è stato dichiarato, comunque, inammissibile non essendo possibile rinvenire nel nostro ordinamento una norma di diritto processuale che possa consentire la conversione dell’appello di una sentenza inappellabile in ricorso per cassazione.

Inoltre, devesi rilevare che l’impugnazione è ammissibile solo in caso di erronea attribuzione del nomen juris poiché non è consentito al giudice (nel caso di specie al Tribunale di Rimini) procedere alla sostituzione del mezzo di impugnazione che la parte ha effettivamente inteso coltivare.

In tal caso, difatti, “non può parlarsi di inesatta qualificazione giuridica del gravame, come tale suscettibile di rettifica ope iudicis, ma di una infondata pretesa da sanzionare con l’inammissibilità; dovendosi quindi accertare che la parte abbia deliberatamente voluto impugnare il provvedimento con un mezzo o con motivi diversi rispetto a quelli consentiti con la consapevolezza sia dell’improponibilità del mezzo strumentalmente prescelto e dichiarato e sia dell’esistenza di un altro e unico rimedio processuale predisposto dall’ordinamento” (cfr. Sez. U, n. 16 del 26/11/1997, dep. 1998, Nexhi, Rv. 209336, Sez. 2, n. 41510 del 26/06/2018, Colorisi, Rv. 274246 Sez. 5, n. 55830 del 08/10/2018, Eliseo, Rv. 274624, Sez. 3, n. 1589 del 14/11/2019, dep. 2020, De Cicco, Rv. 277945; Sez. 4, n. 1441 del 21/11/2023, dep. 2024, Verrucci Rv. 285634; in senso conforme altresì Sez. 5, Sentenza n. 35442 del 03/07/2009. Mazzola, Rv. 245150).

Infine, l’avvenuto deposito da parte dei ricorrenti di una successiva memoria avente a oggetto “motivi aggiunti” non assume efficacia salvifica nei confronti di un atto ab origine viziato atteso che “l’inammissibilità dei motivi originari dell’impugnazione non può essere sanata dalla proposizione di motivi nuovi, in quanto si trasmette a questi ultimi il vizio radicale da cui sono inficiati i motivi originari per l’imprescindibile vincolo di connessione esistente tra gli stessi” (cfr. Sez. 6, n. 9837 del

21/11/2018, dep. 2019, Montante, Rv. 275158) “e, si aggiunga, anche al fine di evitare surrettizi spostamenti in avanti dei termini di impugnazione” (cfr. Sez. 5, n. 48044 del 02/07/2019, Di Giacinto, Rv. 277850).

Ciò posto, la Suprema Corte ha valutato in modo opposto il ricorso dell’Ufficio di Procura procedendo al relativo accoglimento del medesimo.

L’organo inquirente ha lamentato il travisamento delle risultanze probatorie e un errore in punto di diritto in ordine “alla configurazione dei presupposti della responsabilità colposa per fatti verificatisi durante lo svolgimento di eventi sportivi”.

Orbene, secondo la Quarta sezione, il ricorrente ha correttamente enucleato il vizio (travisamento della prova) avendo:

  • specificato correttamente “l’atto processuale cui fa riferimento”;
  • indicato “l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza”;
  • fornito “la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda”;
  • precisato “le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato”.

Il corretto adempimento dei relativi oneri da parte del ricorrente ha condotto la Suprema Corte ad accogliere il motivo di gravame rilevando la sussistenza del dedotto vizio motivazionale dell’impugnata sentenza.

In tal senso, la Quarta sezione non ha ritenuto condivisibile il ragionamento giuridico adottato dal Giudice di Pace nella parte in cui il giudicante “ha ritenuto di fare riferimento all’orientamento per il quale l’evento lesivo occorso durante la competizione sportiva può ritenersi non punibile – in relazione a una causa di giustificazione non codificata – sulla scorta del solo rispetto delle norme regolamentari e in riferimento al criterio del c.d. rischio consentito”.

Difatti, devesi rilevare la sussistenza di un predominante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’esercizio della forza fisica (anche solo eventuale), in discipline sportive, “costituisce un’attività rischiosa consentita dall’ordinamento, per plurime ragioni, a condizione che il rischio, appunto, venga controbilanciato sia da adeguate misure prevenzionali sotto forma di regole precauzionali, sia dall’imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti” (cfr. Sez. 4, n. 9559 del 26/11/2015 – dep. 2016, Rv. 266561; Sez. 4, n. 20595 del 28/4/2010, Rv. 247342, Sez. 5, n. 15170 del 15/02/2016, Ferretti, Rv. 266398).

D’altronde, la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire recentemente come il giudicante – nel valutare gli eventuali profili di penale responsabilità dell’atleta nell’esercizio di un’attività sportiva implica l’uso della forza fisica – debba abbandonare il c.d. “orizzonte” del rischio consentito e dell’agente modello ed approdare, invece, all’applicazione dei criteri utilizzati per accertare la responsabilità in caso di reato di evento.

Di conseguenza, spetterà al giudice procedere alla “verifica oggettiva del fatto dannoso (azione e nesso causale)” e alla “configurabilità della colpevolezza dell’agente, sotto il profilo della sussistenza del dolo o della colpa”.

Ciò vuol dire che la verifica della colpa sportiva non può avvenire senza un’attenta analisi dei criteri previsti dalla norma contenuta nell’art. 43 c.p..

Pertanto, nel caso di specie, l’assenza di una attenta valutazione in ordine alla sussistenza o meno della responsabilità colposa dell’imputato “con riferimento al criterio del mero rispetto della regola sportiva”, ha condotto il giudice a non attenersi ai parametri valutativi previsti dall’art. 43 c.p..

Conclusivamente argomentando, la Suprema Corte – alla luce delle superiori considerazioni – ha disposto l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza ad altro Giudice di Pace del medesimo ufficio – stante l’avvenuto accoglimento del ricorso dell’organo inquirente – e ha dichiarato inammissibili i ricorsi delle parti civili costituite sulla base delle argomentazioni giuridiche superiormente esposte.

 

Cass. Pen., Sez. 4, Sentenza n. 24097 del 16/04/2024 Ud. (dep. 18/06/2024)

 

 

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