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“In tema di misure cautelari personali, la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze di cautela sancita dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. può essere superata, con riguardo ai delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1, cod. pen., a condizione che si dia conto dell’avvenuto apprezzamento di elementi, evidenziati dalla parte o direttamente enucleati dagli atti, significativi in tal senso, afferenti, in specie, alla tipologia del delitto in contestazione, alle concrete modalità del fatto e alla sua risalenza, non essendo sufficiente, a tal fine, il mero decorso del cd. “tempo silente”, posto che è escluso, in materia, qualsiasi automatismo valutativo.”

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A cura di Marco Latella (Avvocato del foro di Locri e componente del comitato di redazione della Camera Penale di Locri)

La Suprema Corte, con la pronuncia in esame, è tornata a occuparsi di due fondamentali questiones iuris riguardanti:

  • la ricorrenza o meno dell’aggravante a effetto speciale prevista dalla norma contenuta nell’art. 416 1 c.p. con specifico riferimento alla sussistenza tanto del profilo soggettivo quanto di quello oggettivo della predetta aggravante;
  • la rilevanza del c.d. “tempo silente” al fine di superare la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari ex art. 275, comma III, c.p.p..

Nel caso di specie, il Tribunale del riesame di Reggio Calabria aveva confermato l’ordinanza emessa dal G.I.P. di Reggio Calabria nei confronti di un soggetto gravemente indiziato del delitto previsto dagli artt. 99, 110, 56, 629 co. II, in relazione all’articolo 628, co. II, n. 3, 416 bis. 1 c.p. e 71 D. Lgs. n.159/2011.

L’indagato, sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, per il tramite del difensore aveva proposto ricorso per Cassazione avverso l’impugnata ordinanza lamentando, tra i vari motivi, la violazione dell’art. 606 comma I lett. B) ed E) c.p.p. con riferimento alla norma contenuta nell’art. 416 bis.1 c.p..

La doglianza si fondava:

  • sulla carenza motivazionale dell’impugnata ordinanza – stante il contenuto dell’assunto giudiziale caratterizzato dall’uso di espressioni “tipiche dell’argomentazione congetturale e apodittica” – rispetto alla asserita consapevolezza del ricorrente di aver posto in essere una condotta criminosa volta ad agevolare un’intera cosca;
  • sulla natura congetturale e apodittica dell’ordinanza nella parte in cui il giudice ha reputato sussistente quei gravi indizi che, da soli, hanno permesso di ritenere configurata “la rappresentazione della “efficienza causale nell’incutere un timore aggiuntivo nella vittima” al fine di raggiungere lo scopo prestabilito (trattasi di “elemento necessario per riscontrare la sussistenza della contestata aggravante dell’utilizzo del cosiddetto metodo mafioso”).

La Seconda sezione, investita del ricorso, non ha condiviso le argomentazioni difensive ribadendo l’orientamento di legittimità secondo cui “Ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in I. 12 luglio 1991, n. 203), è sufficiente – in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica – che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività” (così, Sez.2, n.19245 del 30/03/2017, Paiano, Rv.269938-01; conf. Sez.2, n.34786 del 31/05/2023, Gabriele, Rv.284950-01).

Difatti, secondo la Suprema Corte, dalla disamina contenutistica degli atti di indagine è stato possibile rilevare come la contestata condotta estorsiva era stata posta in essere facendo leva sui “tradizionali metodi intimidatori mafiosi, in un contesto territoriale in cui la presenza della ‘ndrangheta per il controllo delle attività economiche è noto alla collettività”.

Ciò posto, la Seconda sezione ha ritenuto corretto il ragionamento giuridico del Tribunale del riesame nella parte in cui ha reputato sussistente la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 416 bis. 1 c.p. (ossia la c.d. finalità agevolatrice dell’associazione mafiosa) rilevando quanto già statuito dalle Sezioni unite le quali hanno enucleato il principio di diritto secondo cui “La circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe”  (cfr. sent., n.8545 del 19.12.2019, dep. 2020, Chioccini, Rv. 278734-01).

Nel caso di specie – secondo la Suprema Corte – il Tribunale della libertà ha fornito una motivazione corretta e priva di illogicità avendo quest’ultimo adeguatamente replicato alle censure difensive sottolineando come dal contenuto delle dichiarazioni rese dall’indagato nel corso dell’interrogatorio fosse emersa la consapevolezza del medesimo in ordine alla “caratura criminale” dei co-indagati e l’intuizione della finalità criminosa dei predetti.

Secondo la Seconda sezione – nonostante la avvenuta esclusione della qualifica di partecipe alla associazione di stampo mafioso dell’indagato – devesi, comunque, evidenziare come l’interesse perseguito da quest’ultimo (ossia dall’indagato) non era qualificabile come squisitamente personale, ma idoneo a “soddisfare un interesse riconducibile alla cosca” anche alla luce degli stretti rapporti di parentela intercorrenti l’indagato e gli altri ricorrenti.

Ciò posto, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 606 lett. B) ed E) c.p.p. in relazione alle norme contenute negli artt. 274 e 275, comma 4, c.p.p. avendo sia il G.I.P. sia il Tribunale del Riesame ritenuto sussistente il pericolo di reiterazione del reato alla luce delle risultanze investigative e avendo totalmente trascurato la rilevanza del c.d. “tempo silente” considerato il decorso di un ampio lasso temporale tra l’emissione della misura ed i fatti contestati, la totale estraneità del ricorrente in altre vicende criminose e l’assenza di qualsivoglia forma di frequentazione con soggetti pregiudicati.

La Seconda Sezione, non condividendo l’assunto difensivo, ha sottolineato come “In tema di applicazione di misure cautelari personali, la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia in carcere per determinate fattispecie incriminatrici, prevista dagli artt. 275, comma 3, e 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., deve intendersi riferita anche ai delitti tentati in caso di contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge 12 luglio 1991, n. 203 (ora art. 416-bis.1, primo comma, cod. pen.), atteso che il generico riferimento ai «delitti» in tal guisa aggravati, indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è comprensivo di ogni fattispecie delittuosa, sia consumata che tentata” (cfr. Sez.2, n.22096 del 3/07/2020, Chioccarelli, Rv.279771-01; conf. Sez. 2, n.23935 del 04/05/2021, Alcamo, Rv.283176-01).

Orbene, nel caso di specie, la c.d. doppia presunzione prevista dalla norma contenuta nell’art. 275, comma III, c.p.p. opera anche nei confronti della tentata estorsione aggravata dall’art. 416-bis.1 c.p..

E, ancora, con specifico riferimento al c.d. “tempo silente”, la Seconda sezione ha rilevato come tale elemento non possa da solo costituire la prova della recisione di ogni forma di legame con il sodalizio criminoso considerato che “In tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. può essere superata solo con il recesso dell’indagato dall’associazione o con l’esaurimento dell’attività associativa, mentre il cd. “tempo silente” (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati) non può, da solo, costituire prova dell’irreversibile allontanamento dell’indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi (tra cui, ad esempio, un’attività di collaborazione o il trasferimento in altra zona territoriale) volto a fornire la dimostrazione, in modo

obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell’assenza di esigenze cautelari” (cfr. Sez.2, n.7837 del 12/02/2021, Rv.280889-01; conf. Sez.V, n.16434 del 21/02/2024, Rv. 286267-01; Sez.2, n.6592 del 25/01/2022, Rv.282766-02; Sez.2, n.38848 del 14/07/2021, Rv. 282131-01; Sez.5, n.35848 del 11/06/2018, Rv. 273631-01).

Ciò posto, la Suprema Corte ha rilevato come sussista un opposto orientamento di legittimità secondo cui incombe sul giudice uno specifico onere motivazione in caso di sussistenza di un rilevante “tempo silente” posto che “In tema di misure cautelari, ai fini del superamento della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., anche in relazione al reato di partecipazione ad associazioni mafiose “storiche” deve essere espressamente considerato dal giudice, alla luce di una esegesi costituzionalmente orientata della citata presunzione, il tempo trascorso dai fatti contestati, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra “gli elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze caute/ari”, cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen.” (cfr. Sez.6, n.2112 del 22/12/2023, dep.2024, Rv.285895-01; conf. Sez.6, n.31587 del 30/05/2023, rv.285272-01).

Conclusivamente argomentando, nonostante la contrapposizione tra i due orientamenti, secondo la Seconda sezione, la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari ex art. 275, comma III, c.p.p. può essere superata nel momento in cui il giudice abbia fornito congrua motivazione alla luce degli elementi emersi dalla scrupolosa disamina della fattispecie di reato per il quale si procede, dalle concrete modalità del fatto e dalla risalenza dei fatti illeciti “non essendo consentito nel nostro ordinamento un qualsivoglia automatismo valutativo”.

Nel caso di specie, la correttezza dell’impianto motivazionale e l’assenza di vizi logico-giuridici dell’impugnata ordinanza hanno condotto la Suprema Corte al rigetto del ricorso.

 

Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 24553 del 22/03/2024 Cc. (dep. 20/06/2024)

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