La nozione di “atto sessuale” rilevante ai fini del delitto di cui all’art. 609-bis c.p. può essere definita attraverso il ricorso al duplice criterio oggettivistico-anatomico (parti del corpo attinte) e oggettivistico-contestuale (contesto socio-culturale e relazionale dell’azione). Tale da comprendervi anche quelli insidiosi e rapidi, ferma la necessità di un rigoroso accertamento che tenga conto dell’incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa e del contesto relazionale intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante.
La pronuncia in commento torna sulla nozione di “atto sessuale” rilevante ai fini del delitto di cui all’art. 609 c.p. avendo riguardo per la sua definizione sia alle parti del corpo attinte e sia al contesto socio-culturale e relazionale dell’azione, ferma la necessità di un rigoroso accertamento che tenga conto dell’incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa e del contesto relazionale intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante.
La vicenda coinvolge un docente universitario che veniva attinto dalla misura cautelare degli arresti domiciliari in quanto gravemente indiziato -tra l’altro- di violenza sessuale nei confronti di alcune specializzande, vittime di toccamenti corporei “non casuali”, taluni insidiosi e rapidi, con l’aggravante della posizione gerarchica rivestita.
Il tribunale della libertà, accogliendo il proposto riesame annullava la misura cautelare e in riferimento alle contestazioni di violenza sessuale aggravata e di atti persecutori, riqualificava le condotte nel perimetro della contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.
Proponeva ricorso per cassazione il locale procuratore della Repubblica per violazione di legge e assenza di motivazione dolendosi, tra l’altro, della mancata considerazione del “distretto corporeo” attinto dalla condotta del prevenuto, come pure della mancata “analisi di contesto” rispetto alle condotte aventi ad oggetto zone “non erogene” comunque realizzate in ambito accademico da parte di soggetto che si trovava in posizione di superiorità gerarchica in grado di influenzare la vita lavorativa delle specializzande.
La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso del P.M. ha, in primis, ribadito che rientra nell’accezione di “atto sessuale”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 609 bis c.p., non soltanto ogni forma di “congiunzione carnale”, ma altresì qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgente la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale, non avendo rilievo determinante, ai fini del perfezionamento del reato, la finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale. Secondo la Corte è pertanto dalla stessa natura del bene giuridico protetto che deve ricavarsi la natura sessuale del gesto tutte le volte in cui lo stesso, pur concretizzandosi in un contatto corporeo, attinge parti che non necessariamente rientrano in quelle tradizionalmente definite come “erogene” (ove la natura sessuale dell’atto è indiscussa), essendo la sfera della sessualità, che non resta confinata sul piano strettamente fisico ma involge anche la sfera psichica e quella emotiva, suscettibile di modularsi diversamente in relazione ai valori del comune sentire che si consolidano nello specifico contesto storico, culturale e sociale di riferimento.
Evidenzia, ancora la Corte, che, oltre agli atti di inequivoca valenza sessuale in ragione delle parti corporee coinvolte (zone genitali o comunque erogene) esiste, nella realtà fenomenica, una “zona grigia” comprensiva di quegli atti che, per il loro carattere ambivalente, ne impone una necessaria opera di decodificazione.
In tali casi, la riconducibilità alla dimensione sessuale degli atti rivolti al soggetto passivo, deve costituire oggetto di accertamento da parte del giudice del merito, secondo una valutazione che tenga conto della condotta nel suo complesso, del “contesto sociale e culturale” in cui l’azione è stata realizzata, della sua “incidenza sulla libertà sessuale” della persona offesa, del “contesto relazionale” intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante.
Precisa ancora, che per decifrare il significato di “atto sessuale” è necessario fare riferimento sia ad un criterio oggettivistico-anatomico (parti del corpo attinte) e sia ad un criterio oggettivistico-contestuale, che tenga conto cioè del “contesto di azione”, in maniera che dalle modalità della condotta nel suo complesso e da altri elementi significativi si accerti se vi sia stata o meno una indebita compromissione della libera determinazione della sfera sessuale altrui.
Quanto poi alle modalità di estrinsecazione della condotta, si riporta all’orientamento oramai unanime della giurisprudenza laddove si ritiene che l’espressione “atti sessuali” comprenda tutti quegli atti che, tramite violenza, minaccia, induzione o abuso di autorità “siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale” conseguendone che, in tema di violenza sessuale, vanno considerati atti sessuali anche quelli insidiosi e rapidi, che riguardino zone erogene su persona non consenziente come palpamenti, sfregamenti, baci e non si richiede pertanto che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma è sufficiente che la volontà risulti coartata e che, di conseguenza, l’invasione della sera sessuale non sia voluta dalla vittima.
In accoglimento dei motivi di ricorso del P.M. la Corte afferma un’importante principio in relazione distinzione tra concreta intrusione o meno nella sfera sessuale della vittima, affermando che in tali casi non insiste la possibilità di ri-qualificazione del fatto ai sensi dell’articolo 660 cod. pen., bensì la distinzione tra forma tentata e forma consumata del delitto di cui all’articolo 609-bis cod. pen.
Per conseguenza, il Collegio ribadisce i seguenti principi:
– la condotta sanzionata dall’articolo 609-bis cod. pen. comprende qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, pur se “fugace” ed “estemporaneo” (i.e. “repentino”), tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, ovvero in un coinvolgimento della sfera fisica di quest’ultimo, ponga in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale. La valenza sessuale del contatto è indiscussa e indiscutibile ove si tratti di organi genitali o zone erogene (ivi comprese le labbra, sia della vittima che dell’agente di reato), mentre, negli altri casi, sarà frutto di un accertamento di fatto che tenga conto del contesto sociale e culturale in cui l’azione è stata realizzata, della sua incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante;
– l’atto deve essere definito come “sessuale” sul piano obiettivo, non su quello soggettivo delle intenzioni dell’agente. Se, perciò, il fine di concupiscenza non concorre a qualificare l’atto come sessuale, il fine ludico o di umiliazione della vittima non lo esclude;
– il delitto di violenza sessuale si esprime in forma tentata quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo si estrinseca nel compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere, con violenza o minaccia, il soggetto passivo a subire atti di valenza sessuale, accompagnato dal requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale e non la mera “tranquillità” della stessa;
– il reato di molestia sessuale (art. 660 c.p.), è invece integrato solo in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale ovvero di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall’abuso sessuale ove lo “sfondo sessuale” costituisce soltanto un motivo e non un elemento della condotta.
Cass. pen., sez. III, ud. 11 luglio 2024 (dep. 21 agosto 2024), n. 32770
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