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La Suprema Corte, con la pronuncia in esame, ha definito i margini interpretativi al fine di comprendere se la condotta criminosa dell’amministratore di sostegno (figlia) che si sia appropriato delle somme dell’amministrato (madre) – al momento della morte di quest’ultimo – possa integrare il delitto di peculato o quello di appropriazione indebita. In tal senso, i Giudici di legittimità hanno evidenziato come “la funzione dell’amministratore di sostegno (…) è strettamente funzionale a far fronte alle esigenze di un soggetto privo di adeguata autonomia, sicché, nel momento in cui viene meno l’amministrato, cessa anche l’ufficio dell’amministrazione di sostegno”. Di tal che, “cessata ex lege l’amministrazione di sostegno, all’amministratore non può neppure demandarsi un ulteriore compito di mera conservazione e gestione del patrimonio residuo, proprio perché la ratio dell’istituto non attiene alla tutela del patrimonio, bensì alla gestione delle esigenze di un soggetto non in grado di provvedervi autonomamente”.

La Corte di appello di Cagliari confermava la sentenza resa nei confronti di una donna accusata, in qualità di amministratore di sostegno della madre, del reato di peculato stante l’avvenuta appropriazione da parte della medesima (secondo la tesi accusatoria) di una somma di denaro depositata sul conto corrente cointestato con la genitrice.

La condotta criminosa, secondo i giudici di merito, sarebbe consistita nella appropriazione di una somma di denaro dal conto cointestato subito dopo la morte della madre e prima di rendere il conto della gestione. Pertanto, la somma in questione veniva distratta prima che si procedesse alla divisione ereditaria con i fratelli (due dei quali costituitisi parte civile nel presente procedimento penale).

La Corte territoriale, sulla base di tale ricostruzione fattuale, reputava integrato il reato di peculato poiché, con la morte della madre, la figlia non aveva cessato di espletare il pubblico ufficio di amministratore di sostegno dovendo quest’ultimo essere svolto fino al momento del rendiconto della gestione del patrimonio dell’anziana.

L’imputata per il tramite del proprio difensore interponeva ricorso per Cassazione deducendo:

  • la violazione della norma contenuta nell’art. 314 c.p. – in relazione agli artt. 411 e 385 c.c. – per avere i giudici di merito erroneamente sostenuto che la morte della persona amministrata non avesse determinato la perdita de plano della qualifica di amministratore di sostegno della figlia. Inoltre, il mancato rendimento del conto – pur previsto dalla procedura – non era da considerarsi esercizio di alcuna funzione di tipo pubblicistico (esercizio, comunque, successivo alla cessazione dell’incarico considerata la concomitante morte dell’amministrato);
  • il vizio di motivazione e la violazione di legge in relazione alla norma contenuta nell’art. 360 c.p. per avere i giudici di primo e secondo grado reputato il denaro – depositato sul conto cointestato – nel possesso della ricorrente alla luce della funzione svolta e non considerando, invece, il fatto che la medesima era cointestataria del conto già prima dell’assunzione della qualifica di amministratrice di sostegno per far fronte alle generali esigenze di vita e, ovviamente, alle necessità della madre. Pertanto, la asserita appropriazione sarebbe avvenuta senza abusare della qualifica di amministratrice di sostegno, bensì in virtù della formale cointestazione del conto corrente e della qualifica di erede assunta dalla ricorrente al momento della morte della madre;
  • il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato;
  • il vizio di motivazione relativamente al riconoscimento, in favore delle parti civili costituite, del danno morale non essendo stato possibile, secondo il giudice di primo e di secondo grado, quantificare il danno patrimoniale stante l’impossibilità per il decidente di individuare la quota di denaro spettante ad ogni erede.

La sesta sezione, investita del ricorso, lo accoglieva sulla base delle seguenti argomentazioni.

Primariamente, secondo il Supremo Collegio, devesi rilevare che l’obbligo di provvedere alla gestione del patrimonio del deceduto da parte dell’amministratore di sostegno non può essere individuato in un “generico obbligo di prosecuzione dell’attività di gestione del patrimonio, fino al momento del rendiconto”. Difatti, tale tesi non appare condivisibile dal momento che la funzione ricoperta dall’amministratore di sostegno è strettamente connessa alla tutela delle esigenze del soggetto amministrato. La morte di quest’ultimo, come sostenuto dalla dottrina, determinerà la cessazione dell’ufficio stante la finalità composita del medesimo. Di tal che, in caso di cessazione ex lege del ruolo di amministratore, quest’ultimo non dovrà sobbarcarsi di ulteriori compiti afferenti la conservazione e la gestione del patrimonio residuo. In tal senso, devesi evidenziare che la ratio dell’istituto è la tutela delle esigenze del singolo amministrato a provvedervi e, in caso di quest’ultimo, il suo patrimonio sarà “sottoposto all’ordinaria disciplina della successione ereditaria”.

La tesi dei Giudici di legittimità trova piena conferma nel dato normativo atteso che l’art. 385 c.c.

impone la riconsegna dei beni (al cessare delle funzioni) e la perdita di disporre dei medesimi. Pertanto, la cessazione dell’ufficio non corrisponde, a livello temporale, con il rendiconto della gestione “trattandosi (quest’ultima) di una mera attività riepilogativa (e differibile) di quanto svolto in pendenza dell’amministrazione”.

Tale ragionamento di natura squisitamente civilistica ha, inevitabilmente, le sue ripercussioni nell’ambito penalistico poiché la situazione dianzi esposta (cessazione della amministrazione di sostegno al momento della morte dell’amministrato) induce a ritenere che le “eventuali condotte appropriative commesse in epoca successiva non possono ricadere nell’alveo del delitto di peculato, ma solo nella corrispondente ipotesi dell’appropriazione indebita”.

Ciò posto, con riferimento alla quaestio iuris afferente l’ultrattività della qualifica ex art. 360 c.p. devesi evidenziare che secondo un consolidato orientamento (condiviso dalla sesta sezione) “ai fini della configurabilità del delitto di peculato, è sufficiente che il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile si siano verificati per ragioni di ufficio o di servizio, essendo irrilevante, a norma dell’art. 360 cod. pen., che l’appropriazione sia avvenuta in un momento in cui la qualità di pubblico agente sia cessata, laddove la condotta appropriativa sia funzionalmente connessa all’ufficio o al servizio precedentemente esercitati” (cfr. Sez.6, n. 2230 dell’11/12/2019, dep.2020, Renella, Rv. 278131).

Orbene, nel caso di specie, i giudici di merito non hanno correttamente valutato il fatto che la ricorrente fosse anch’ella cointestataria del conto corrente ancor prima di assumere la funzione di amministratore di sostegno. Secondo la Suprema Corte, l’imputata avrebbe prelevato l’intera somma depositata sul conto sfruttando il proprio ruolo di cointestataria (e non di amministratore).

In definitiva, la condotta criminosa ascrivibile alla ricorrente rientrerebbe all’interno della fattispecie prevista dalla norma contenuta nell’art. 646 c.p.. dal momento che “una quota, sia pur non compiutamente quantificata, era sicuramente appartenente alla de cuius e con riferimento a tale porzione si è consumato il reato di cui all’art. 646 cod. pen.”.

Pertanto, riqualificato il fatto nel delitto di appropriazione indebita, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio l’impugnata sentenza con specifico riferimento alla parte relativa la responsabilità penale della ricorrente stante l’avvenuto decorso del termine prescrizionale (il fatto risale all’anno 2015 e non sussistono cause che hanno impedito il decorso della prescrizione).

Infine, per mera completezza espositiva, devesi rilevare che la sesta sezione ha accolto il quinto motivo di doglianza (riconoscimento del danno in favore delle parti civili) stante la confusione argomentativa della Corte territoriale in ordine alla natura del danno patito dai fratelli della ricorrente.

Sulla scorta di tali considerazioni, “la fondatezza del motivo di ricorso avente ad oggetto le statuizioni civili” ha determinato l’annullamento con rinvio, solo su tale punto, dell’impugnata sentenza innanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello.

 

Cass. Pen., Sez. VI, sent. num. 33016, Anno 2024

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