La Suprema Corte, con la pronuncia in esame, ritorna sul tema della legittimazione a chiedere la revoca del sequestro preventivo di beni aziendali – facenti parte del patrimonio di una s.n.c. – da parte del socio precisando che “l’autonomia patrimoniale delle società di persone esclude che il socio possa, in quanto tale, agire in giudizio per la restituzione dei beni che appartengono alla società della quale non abbia la legale rappresentanza”. Di tal che, in caso di esistenza di una società in nome collettivo, “la legale rappresentanza spetta a ciascun socio se non è diversamente pattuito (artt. 2257,2266,2293 cod. civ.) ma nel caso di specie è il ricorrente stesso ad escludere in modo espresso di essere il legale rappresentante della società”.
Il G.I.P. presso il tribunale di Palermo rigettava la richiesta di revoca di un decreto a mezzo del quale era stato disposto il sequestro preventivo dei beni aziendali di una società (trattavasi di una s.n.c.).
Ciò posto, il ridetto provvedimento veniva impugnato davanti al Tribunale di Palermo, il quale dichiarava l’inammissibilità dell’appello.
Il ricorrente, interposto ricorso per Cassazione, deduceva la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione dell’impugnata ordinanza avendo il Tribunale dichiarato l’inammissibilità dell’appello stante la mancata allegazione di una procura speciale (nel caso di specie, secondo il ricorrente, la sussistenza di una società in nome collettivo determinava la confusione tra il patrimonio del socio e quello della società legittimando, di conseguenza, il primo (ossia il socio) a invocare un personale interesse alla restituzione dei beni aziendali). In tal senso, si rileva che la richiesta di restituzione era stata formulata dal socio (ricorrente) in proprio e non in qualità di legale rappresentante della società.
Inoltre, con altro motivo di doglianza, si deduceva l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inammissibilità sulla base del fatto che la nomina fiduciaria, effettuata dall’indagato nei confronti del proprio difensore, determinava una tutela (in ambito penalistico) del medesimo in relazione a tutti gli interessi dell’assistito (tra i quali rientravano anche quelli afferenti i beni di una s.n.c. in relazione alla quale egli era socio).
La Suprema Corte, investita del ricorso, lo dichiarava inammissibile.
La terza sezione ha preliminarmente rilevato che il ricorrente – quale persona fisica – non può essere considerato titolare di alcuna situazione giuridica soggettiva da reputarsi lesa dal contenuto del provvedimento di sequestro.
Difatti, secondo il Supremo Collegio, nel caso di specie, non è possibile dare attuazione al principio secondo cui l’impugnazione può essere proposta unicamente dall’imputato o dalla persona sottoposta alle indagini che ne abbia interesse. Pertanto, in assenza di un interesse concreto e attuale all’impugnazione, il gravame non può costituire una valida soluzione per il ricorrente al fine di eliminare un provvedimento dal contenuto pregiudizievole. In tal senso devesi rilevare che “la legge processuale non ammette l’esercizio del diritto di impugnazione avente di mira la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole, nel senso che miri a soddisfare una posizione oggettiva giuridicamente rilevante e non un mero interesse di fatto” (cfr. Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino).
Ciò posto, secondo la terza sezione, devesi rilevare:
- che il ricorrente non può considerarsi proprietario dei beni sequestrati;
- che il medesimo, pur essendo persona sottoposta alle indagini, ha inteso perseguire un interesse di mero fatto del tutto privo dei requisiti della concretezza e dell’attualità a proporre il relativo atto di gravame;
- che – secondo il predominante orientamento della giurisprudenza di legittimità – “il singolo socio non è legittimato ad impugnare i provvedimenti in materia di sequestro preventivo di beni di proprietà di una società (…) attesa la carenza di un interesse concreto ed attuale, non vantando egli un diritto alla restituzione della cosa o di parte della somma equivalente al valore delle quote di sua proprietà, quale effetto immediato e diretto del dissequestro” (cfr. Sez. 2, n. 29663 del 04/04/2019, Tufo)
La Suprema Corte non ha condiviso l’assunto difensivo secondo cui i principi dianzi esposti non possono trovare applicazione in caso di società di persone prive di personalità giuridica sulla base del fatto che il socio ha diritto alla restituzione dei beni che costituiscono il patrimonio della società.
Difatti, seguendo quanto affermato dalle sezioni civili della Corte di cassazione, “le società di persone costituiscono, pur non avendo personalità giuridica ma soltanto autonomia patrimoniale, un autonomo soggetto di diritto, che può essere centro di interessi e d’imputazione di situazioni sostanziali e processuali distinte da quelle riferibili ai singoli soci che, pertanto, non sono legittimati ad agire in proprio per gli interessi della società stessa” (cfr. Cass. civ., Sez. 3, n. 10427 del 18/07/2022, Rv. 555893 – 01; Cass. civ., Sez. 5, n. 442 del 17/01/2002, Rv. 551592 – 01; Cass. civ., Sez. 2, n. 5233 del 29/05/1999, Rv. 526826 – 01).
In tal senso, i Giudici di legittimità hanno sottolineato che i concetti giuridici di capitale sociale e di patrimonio sociale – pur avendo qualche elemento di comunanza – sono diversi ed inconfondibili. Difatti, “il capitale sociale traduce in cifra precisa (suscettibile di norma di variazione nella sua entità giuridica e contabile solo a seguito di modifica nelle forme legali dell’atto che lo abbia determinato) l’ammontare complessivo degli apporti dei soci all’atto della costituzione. Il patrimonio sociale invece è formato dal complesso dei diritti ed obblighi, dai rapporti giuridici attivi e passivi che, nel corso della gestione, vengano man mano ad accentrarsi nella società ed è pertanto soggetto alle fluttuazioni e trasformazioni determinate dalle esigenze e dagli effetti della realtà economica, e – visto in un particolare momento – identifica il complesso dei beni dei quali, nel momento medesimo, la società è titolare” (Cass. civ., Sez. 1, n. 488 del 25/03/1965, Rv. 310872 – 01).
Ciò posto, devesi evidenziare che il socio non può “di norma chiedere la restituzione dei beni conferiti in godimento se non in caso di scioglimento della società o di recesso o in base al titolo con il quale è stato concesso il godimento del bene” atteso che i beni – oggetto del patrimonio sociale – appartengono alla società e non al socio. Di tal che, il socio non potrà chiedere la restituzione o la rivendicazione della proprietà sui ridetti beni.
Nel caso di specie, i beni aziendali sono stati oggetto di sequestro e, di conseguenza, il vincolo è stato apposto sul patrimonio della società. Una situazione siffatta non legittima il socio a chiedere la restituzione dei medesimi a meno che lo stesso non sia il legale rappresentante della società di persone. Egli, pertanto, non potrà far valere in giudizio situazioni soggettive che non gli appartengono.
L’unica possibilità, per il ricorrente, sarà unicamente quella di vantare diritti su beni propri che, alla luce del titolo attribuito dalla società a questi ultimi, potranno essere oggetto di restituzione in suo favore.
Sulla scorta di tali considerazioni la Suprema Corte ha stabilito che “l’autonomia patrimoniale delle società di persone esclude che il socio possa, in quanto tale, agire in giudizio per la restituzione dei beni che appartengono alla società della quale non abbia la legale rappresentanza”. Di tal che, in caso di esistenza di una società in nome collettivo, “la legale rappresentanza spetta a ciascun socio se non è diversamente pattuito (artt. 2257,2266,2293 cod. civ.) ma nel caso di specie è il ricorrente stesso ad escludere in modo espresso di essere il legale rappresentante della società”.
Cass. pen., sez. III, ud. 15 maggio 2024 (dep. 18 settembre 2024), n. 34996
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