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La sesta sezione, con la pronuncia in esame, ribadisce che “il tema della inutilizzabilità delle intercettazioni riguardanti un esercente la professione forense non può essere risolto in linea generale, sulla base dell’esistenza o meno di un rapporto professionale, essendo richiesta una verifica in concreto del contenuto dell’interlocuzione che, per potersi ritenere pertinente all’attività difensiva, deve risultare funzionalmente connessa a quest’ultima e non già diretta ad acquisire informazioni per altri fini, potenzialmente concernenti attività illecite”.

Il Tribunale del riesame di Catanzaro, in parziale riforma dell’impugnata ordinanza, disponeva l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari in luogo della misura della custodia in carcere nei confronti di un avvocato accusato del reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso.

Ciò posto, l’indagato proponeva ricorso per Cassazione avverso il provvedimento emesso dal Tribunale della libertà catanzarese.

La sesta sezione, investita del ricorso, lo accoglieva sulla base delle argomentazioni, di seguito, indicate.

La fondamentale quaestio iuris, sottoposta all’attenzione della Suprema Corte, riguarda la utilizzabilità o meno delle conversazioni intercettate nel presente procedimento che, secondo l’impostazione seguita e recepita dal Tribunale del riesame, non potrebbero rientrare nel novero delle comunicazioni facenti parte dello svolgimento dell’attività professionale.

Preliminarmente, giova evidenziare che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo precisato che “il divieto di utilizzazione, stabilito dall’art. 271, comma 2, cod. proc. pen., sussiste ed è operativo quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate, anche se indirette, siano pertinenti all’attività professionale svolta dai soggetti indicati nell’art. 200, comma 1, cod. proc. pen., ancorché non formalizzata in un mandato, e riguardino fatti conosciuti in ragione della professione da questi esercitata, (da ultimo, Sez. 5, n. 31548 del 24/6/2021, Bisantis, Rv. 281685; si veda anche Sez.6, n. 18638 del 17/3/2015, Bellocco, Rv. 263548)”.

Sulla scorta del dictum dianzi indicato, il Tribunale della libertà di Catanzaro reputava le varie conversazioni intercorse tra il difensore indagato e alcuni soggetti (rispetto ai quali non era stato formalizzato alcun mandato difensivo) non rientranti nell’esercizio dell’attività difensiva.

La sesta sezione non ha condiviso il ragionamento seguito dal T.d.L. rappresentando come “il divieto di utilizzazione deve essere riconosciuto anche in relazione alle ipotesi in cui un mandato difensivo non è stato formalizzato, posto che l’attività professionale ricomprende necessariamente anche quella fase di consultazione, eventualmente preliminare all’emersione stessa del coinvolgimento dell’interessato in attività di indagine”.

Pertanto, in caso di adozione di misure cautelari o in caso di emersione di risultanze derivanti da un’attività di indagine, l’avvocato – che viene interpellato da soggetti estranei, fino a quel momento, alla vicenda processuale e che fornisce una semplice attività di consultazione preliminare – non pone in essere una condotta “astrattamente incompatibile con lo svolgimento dell’attività professionale”.

Allo stesso modo, non può considerarsi condotta incompatibile con lo svolgimento dell’attività professionale quella svolta dall’avvocato che riveli il contenuto di procedimenti, dei quali è legittimamente a conoscenza, a soggetti formalmente estranei sempreché “tale condotta non sia strumentale rispetto al compimento di ulteriori e diverse attività delittuose”.

Di tal che, devesi rilevare che il discrimen intercorrente tra il lecito svolgimento dell’attività difensiva (pur in assenza di mandato) e il suo esatto opposto è da rinvenirsi “nel contenuto dei colloqui, dovendosi stabilire se questi vertono su aspetti, sia pur potenzialmente, aventi rilevanza per il coinvolgimento dell’interlocutore in un procedimento penale”.

Pertanto, l’interessamento al contenuto di indagini penali, da parte di soggetti estranei alle medesime, che sia funzionale al buon esito di attività criminali non può, ovviamente, rientrare nell’esercizio di un lecito rapporto professionale.

In casi consimili viene meno la necessità di tutelare il segreto della conversazione e il relativo divieto di utilizzabilità del contenuto delle medesime.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte ha precisato che “il tema della inutilizzabilità delle intercettazioni riguardanti un esercente la professione forense non può essere risolto in linea generale, sulla base dell’esistenza o meno di un rapporto professionale, essendo richiesta una verifica in concreto del contenuto dell’interlocuzione che, per potersi ritenere pertinente all’attività difensiva, deve risultare funzionalmente connessa a quest’ultima e non già diretta ad acquisire informazioni per altri fini, potenzialmente concernenti attività illecite”.

La mancata applicazione dei suindicati principi da parte del Tribunale del riesame di Catanzaro hanno indotto la Suprema Corte ad annullare con rinvio l’impugnata ordinanza al fine di:

  • valutare quali intercettazioni possano reputarsi “rilevanti ai fini della gravità indiziaria”;
  • stabilire la “pertinenzialità rispetto all’espletamento dell’attività difensiva”, la quale non deve essere intesa nella ristretta visione dell’esercizio del mandato difensivo, tenendo, invece, conto anche della semplice attività consulenziale (che, seppur svolta in assenza di mandato, rientra nell’esercizio della professione forense);
  • vagliare se – una volta rivalutata l’utilizzabilità delle intercettazioni sulla base dei parametri indicati ai punti precedenti – possa ritenersi sussistente la gravità indiziaria, in relazione al reato di concorso esterno nel reato associativo, alla luce del concreto apporto causale fornito dal professionista all’organizzazione criminosa.

 

 

Cass. pen., sez. VI., ud. 4 aprile 2024 (dep. 8 maggio 2024), n. 18177

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