La Sesta Sezione penale, in tema di cause di giustificazione, ha affermato che, in conformità ad un’interpretazione dell’art. 54 cod. pen. che tenga conto delle disposizioni sovranazionali di cui all’art. 2.2 della Direttiva 2011/36/UE e del Considerando 11 della medesima, risulta configurabile la causa di giustificazione dello stato di necessità in favore di persona vulnerabile, in quanto “vittima di tratta” e in condizioni di asservimento nei confronti di organizzazioni criminali dedite al narcotraffico, costretta a compiere un trasporto di stupefacenti, senza possibilità di ricorrere alla protezione dell’Autorità.
La Corte di appello di Roma, confermando la sentenza emessa dal G.U.P. presso il tribunale capitolino, dichiarava la penale responsabilità di un imputato in relazione al reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 74 D.P.R. 309/90 e in relazione ai reati-fine in materia di sostanze stupefacenti.
Il secondo imputato (trattavasi di una donna) veniva condannato per il solo trasporto di 5 chili di marjuana.
La Suprema Corte, investita dei relativi ricorsi, dichiarava inammissibile l’atto di gravame presentato nell’interesse del primo imputato e accoglieva, invece, quello redatto nell’interesse del secondo.
Orbene, la difesa, nel corpo del ricorso oggetto di accoglimento, lamentava:
- violazione di legge in relazione agli artt. 117 Cost., 8 della Direttiva 2011/36/UE, 4 e 8 CEDU avendo la Corte di appello erroneamente dichiarato la penale responsabilità della ricorrente in relazione al delitto di trasporto illecito di stupefacenti omettendo di applicare la clausola di non punibilità prevista per le vittime di tratta di esseri umani;
- violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla norma contenuta nell’ art. 54 c.p. non avendo la corte territoriale considerato il fatto che la ricorrente fosse stata costretta a fuggire dal territorio natio (in epoca antecedente al momento di commissione del delitto), fosse stata sottoposta a violenze gravissime da parte dei trafficanti nel corso del viaggio – da questa intrapreso dalla Nigeria alla Libia – e fosse stata ripetutamente stuprata. Inoltre, il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che la medesima fosse stata in una continua situazione di pericolo stante l’avvenuto accumulo di un ingente debito sanato solamente attraverso l’effettuazione di attività di prostituzione in Italia (prima) e quella di corriere della droga (dopo);
- vizio di motivazione per illogicità, apparenza della motivazione e travisamento della prova in quanto la sentenza impugnata avrebbe totalmente ignorato le prove, acquisite nel corso del processo, dimostrative della di assoluta vulnerabilità in cui si trovava la ricorrente.
Ciò posto, come detto precedentemente, la Suprema Corte reputava il ricorso fondato.
Difatti, la corte territoriale non si sarebbe confrontata con l’ampio materiale probatorio fornito dalla difesa e, soprattutto, non si sarebbe confrontata con la complicata e delicata questione afferente l’interpretazione dell’art. 54 c.p., delle norme sovranazionali sulla tratta di esseri umani e sulla tutela delle vittime.
I Giudici di legittimità hanno, preliminarmente, sottolineato come la tratta di esseri umani, costituente grave violazione dei diritti umani, è stata, nel corso del tempo, delineata e disciplinata:
- dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale;
- dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e minori (recepito dall’Italia con la legge 11 agosto 2003, n. 228);
- dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani del 16 maggio 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia, ratificata dall’Italia con la legge del 2 luglio 2010, n. 108, la quale ha introdotto la definizione di vittime di tratta (art. 10) e ha inserito una causa di non punibilità per i reati commessi in condizione di costrizione (art. 26));
- dalla Corte EDU, la quale ha incluso la tratta di esseri umani nell’art. 4 della CEDU (proibizione della schiavitù) che vieta la schiavitù (Corte EDU Rantsev contro Cipro del 7 gennaio 2010) e ha riconosciuto il principio di non incriminazione delle vittime di tratta (v., infra, Corte EDU V.C.L. e A.N. contro Regno Unito del 16 febbraio 2021);
- dal Trattato di Lisbona (art. 79, par. 1, lett. d, TFUE);
- dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
E, ancora, a livello europeo, ha assunto decisivo rilievo, secondo la Suprema Corte, il contenuto della Direttiva 2011/36/UE, avente a oggetto la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delie vittime, la quale ha ampliato la definizione di tratta di esseri umani includendovi anche «lo sfruttamento di attività illecite» (art. 2), ha fornito la definizione di «posizione di vulnerabilità» “per tale intendendosi la condizione in cui può trovarsi la vittima e di cui l’autore del reato può approfittare per porre in essere la condotta (art. 2, comma 2)”, ha imposto obblighi in capo agli Stati al fine di fornire ogni forma di adeguata tutela nei confronti delle vittime di tratta e di applicare misure specifiche per le attività nei confronti delle medesime di identificazione, assistenza e sostegno (art. 11) “sin da quando le autorità abbiano un «ragionevole motivo» di ritenere che la persona sia vittima di tratta, per un lasso di tempo congruo”.
L’Italia, con il decreto legislativo 4 marzo, ha dato attuazione alla Direttiva 2011/36/UE introducendo norme penali e disposizioni volte a fornire adeguato sostegno alle vittime di tratta anche nel caso i cui queste ultime non possano o non vogliano rivolgersi all’Autorità giudiziaria.
La successiva Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, recepita in Italia con decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, ha collocato la tratta di esseri umani tra i delitti di violenza di genere e ha qualificato le vittime di tratta quali soggetti a particolare rischio.
Infine, la Direttiva 2011/95/UE, recepita dal decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 18, e la Direttiva 2013/33/UE, recepita dal decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, hanno riconosciuto lo stato di vulnerabilità alla vittime di tratta di esseri umani a tal punto da “imporre di accertare la loro condizione per predisporre tutela ed accoglienza, consentendo loro di beneficiare delle misure predisposte dal sistema anti-tratta a partire dal riconoscimento della protezione umanitaria e del permesso di soggiorno ex art. 18 d. Igs. n. 286 del 1998”.
In tal senso assume decisivo rilievo il principio di non incriminazione per i reati commessi in connessione o come conseguenza della situazione in cui le vittime sono costrette a commetterli (cfr. art. 26 della Convenzione di Varsavia e art. 8 della Direttiva 2011/36/UE).
Di tal che, se tale principio ha un senso (giuridicamente parlando) anche all’interno del nostro ordinamento, sul giudice incombe un delicatissimo obbligo di valutazione di ogni elemento a disposizione dal quale è possibile desumere se il soggetto, autore della condotta criminosa, sia in realtà vittima del reato di tratta di esseri umani.
Ciò posto, la Suprema Corte ha sottolineato come il giudice di secondo grado non abbia considerato se, nel caso di specie, il reato contestato rientrasse o meno tra “i delitti oggetto dell’eventuale valutazione di non incriminabilità”.
La questio iuris da analizzare è, pertanto, quella afferente “la presenza, nell’ ordinamento interno, di strumenti che prevedano la non punibilità delle vittime di tratta per il loro coinvolgimento in attività illecite cui siano state obbligate con abuso della loro posizione di vulnerabilità o di qualsiasi altra situazione rispetto alla quale la persona coinvolta non abbia alternative reali ed accattabili alla propria condizione di sottomissione”.
Orbene, seppure l’ordinamento giuridico italiano non prevede una specifica norma che sancisce il principio di non punibilità per le vittime di tratta, è comunque possibile pervenire a una soluzione attraverso una lettura convenzionalmente orientata della norma contenuta nell’art. 54 c.p..
Secondo la dottrina la ragione giustificante lo stato di necessità è da rinvenirsi nell’assenza di interesse dello Stato nel salvaguardare i beni in conflitto considerato che in casi consimili (tratta di essere umani e commissione di reati da parte delle vittime del reato de qua) uno dei due (o di più) beni giuridicamente protetti è destinato a soccombere “purché ne sia sacrificato uno di rango inferiore o equivalente o di poco superiore rispetto a quello salvato”.
Il giudice italiano, dovendo provvedere a una interpretazione filo-comunitaria del diritto interno, dovrà, pertanto, fornire al testo normativo una lettura che sia rispettosa delle prescrizioni imposte dall’Unione Europea con specifico riguardo alla disciplina della tratta di esseri umani e al principio di non incriminazione.
Se così è, il diritto penale interno e, ovviamente, l’interprete e/o operatore di diritto “non può sottrarsi al rispetto delle implicazioni sottese ad una corretta applicazione del principio di interpretazione conforme”.
Secondo la Sesta Sezione, quindi, il giudice, dovendo procedere al corretto bilanciamento degli interessi in gioco, “è tenuto ad interpretare l’art. 54 cod. pen. in maniera conforme alla lettera e alla ratio degli obblighi internazionali costituiti in particolare: a) dalla tutela dei diritti umani inalienabili delle vittime di tratta; b) dal divieto di vittimizzazione secondaria derivante dal sottoporle ad un processo penale non dovuto anche in una logica di non contraddizione dell’ordinamento; c) dall’interdizione ad esporre, con i propri atti giudiziari, lo Stato ad una possibile responsabilità a causa di interpretazioni che violano i doveri assunti attraverso gli artt. 10, 11 e 117 Cost. e il conseguente obbligo di interpretazione conforme”.
Nel caso di specie, la Corte di appello di Roma è caduta in una palese omissione argomentativa in ordine alla configurabilità dello “stato di necessità”.
Difatti, una affermazione generica e apodittica equivale a non motivare.
Il rischio di tale modus procedendi è quello di “determinare una violazione non soltanto del diritto di difesa, ma anche degli obblighi sovranazionali che impongono all’Autorità giudiziaria di operare l’identificazione della vittima di tratta quando vi siano elementi sintomatici della ricorrenza di tale situazione”.
Pertanto, la Suprema Corte, ammendando il giudie di secondo grado, ha ribadito come non si sia proceduto ad una attenta valutazione al fine di comprendere, effettivamente, se la ricorrente “a) fosse vittima di tratta (come già sostanzialmente ritenuto dalle sentenze di merito); b) se sussistessero, o meno, i presupposti costitutivi della scriminante di cui all’art. 54 cod. pen. con riferimento alla ricorrenza di uno stato di costrizione, al pericolo (attuale e non evitabile) di un danno grave alla persona, nonché al confronto tra beni in conflitto ai fini del giudizio di proporzione”.
Una volta accertato lo status di vittima di tratta, il giudice deve verificare se, nel caso sottoposto alla sua attenzione, ricorrano o meno i presupposti applicativi della norma contenuta nell’art. 54 c.p. dovendo attentamente rammentare che “lo stato di necessita sussiste anche quando il pericolo derivi dall’altrui minaccia e si sostanzi in una coazione relativa, tale da limitare la libertà di autodeterminazione del soggetto coartato senza produrre un totale annullamento della sua facoltà volitiva” (cfr. Sez. 3, n. 15654 del 2/02/2022) e che “la verifica dei presupposti della richiamata scriminante, allorché riguardino il comportamento complessivamente posto in essere da una vittima di tratta che abbia commesso un reato collegato alla propria situazione, deve necessariamente avvenire alla luce della sua posizione di «vulnerabilità»” (cfr. Sez. 3, n. 40270 del 16/07/2015).
In tal senso, devesi evidenziare che l’ordinamento processuale penale italiano, con la norma contenuta nell’art. 90 quater c.p.p. rubricata «Condizione di particolare vulnerabilità» impone allo Stato, una volta accertato lo status di vittima, “di attivare i presidi giuridici e gli strumenti capaci di garantire il rispetto dei suoi diritti umani fondamentali che, in quanto tali, dovrebbero prevalere su altri, di rango inferiore, che dovessero porvisi eventualmente in contrasto”.
I Giudici di legittimità hanno fornito pertanto le “linee guida” da seguire al fine di procedere a una corretta operazione ermeneutica per accertare la sussistenza dei presupposti costitutivi l’art. 54 c.p..
Di tal che, il giudice di merito, nel caso di vittima di tratta che sia stata reclutata proprio per la sua posizione da un’associazione dedita al narcotraffico affinché commetta reati-fine, deve fare particolare attenzione:
- alla “disposizione di cui all‘art. 2.2 della Direttiva 2011/36/UE, che definisce la «vulnerabilità» non come una condizione soggettiva, ma come «una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima», cosi spostando il baricentro interpretativo sulle caratteristiche strutturali del delitto e della relazione di dipendenza, perché è questa che rischia di porre in pericolo lo statuto della dignità umana sancito dall’art. 2 Cost. e dall’art. 8 CEDU”;
- al “Considerando 11 della Direttiva 2011/36/UE, che ha esteso la nozione di tratta includendovi proprio lo «sfruttamento di attività criminali», compreso «lo sfruttamento di una persona affinché commetta, tra l’altro, atti di borseggio, taccheggio, traffico di stupefacenti e altre attività analoghe che sono oggetto di sanzioni e implicano un profitto economico»”.
Sulla scorta delle superiori argomentazioni, la Suprema Corte ha statuito il principio di diritto secondo cui “la scriminante dello stato di necessità è invocabile da una persona vulnerabile che risulti essere vittima di tratta e in condizioni di asservimento nei confronti di soggetti a capo di organizzazioni criminali dedite al narcotraffico, nel cui ambito sia stata costretta a compiere operazioni di trasporto di sostanze stupefacenti, senza alcuna possibilità di sottrarsi concretamente alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione dell’Autorità”.
La apoditticità della impugnata sentenza su tali punti ha indotto la Corte di Cassazione a disporre l’annullamento con rinvio della ridetta sentenza per “accertare, in sede di rinvio, con una valutazione individualizzata, la specifica condizione in cui la ricorrente concretamente versava, tenendo conto del riconoscimento della protezione internazionale da parte della Commissione territoriale e valorizzando, eventualmente, anche il contenuto delle “Linee guida per la rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento” allegate al Piano nazionale di azione contro la tratta, sopra menzionate, che ne individuano la serie degli indicatori generali e specifici” e per stabilire se, nel caso di specie, ricorrano o meno i presupposti per l’applicazione della norma contenuta nell’art. 54 c.p..
Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 2319, deposito del 18 gennaio 2024
scarica la sentenza
Iscrivendoti alla nostra Newsletter acconsenti al trattamento dei dati personali ai sensi della legge n. 196/2003 e successive modifiche Regolamento UE 2016/679. Concessione del consenso per ricevere esclusivamente approfondimenti di interesse giuridico. Per ulteriori informazioni, clicca qui