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In tema di intercettazioni telefoniche, ha natura di norma interpretativa, come tale applicabile retroattivamente, la previsione dell’art. 1 d.l. 10 agosto 2023, n. 105, convertito dalla legge 9 ottobre 2023, n. 137, che ha definito l’ambito applicativo della disciplina “speciale” di cui all’art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, riguardante i presupposti e le modalità esecutive delle operazioni di captazione nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, tra i quali quelli, consumati o tentati, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso contemplate.Il Tribunale del riesame de L’Aquila, con l’impugnata ordinanza, rigettava la richiesta di riesame presentata nei confronti di un soggetto destinatario di una ordinanza applicativa della misura della custodia in carcere poiché accusato dei reati di intestazione fittizia aggravati ex art. 416 bis. l. c.p..  

Il G.I.P. presso il Tribunale de L’Aquila aveva disposto l’applicazione della misura della custodia in carcere nei confronti di un soggetto accusato di più violazioni del reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 512 bis c.p. aggravati ex art. 416 bis. l. c.p..

Il ricorrente, tramite istanza di riesame, contestava non solo la sussistenza della gravità indiziaria,  della contestata aggravante e delle esigenze di cautela, ma deduceva, anche, la inutilizzabilità delle intercettazioni disposte in quel procedimento poiché autorizzate facendo leva sulla disciplina derogatoria prevista dall’art. 13 L. 203/91, in assenza della avvenuta contestazione, nel medesimo procedimento, di reati di criminalità organizzata ma, unicamente, della circostanza aggravante ex art. 416 bis.1 c.p..

Tale modus operandi si sarebbe, pertanto, posto in contrasto con il più recente dictum della Suprema Corte in materia secondo la quale “nella nozione di delitti di criminalità organizzata non rientrano i reati aggravati ai sensi dell’art. 416 bis.1 cod. pen.”.

Il Tribunale del riesame rigettava la richiesta ex art. 309 c.p.p. e, pur evidenziando l’esistenza di un’incertezza giurisprudenziale su tale questione, dava applicazione al principio di diritto stabilito dalle SS UU “Scurato” secondo cui “la nozione di “reati di criminalità organizzata” deve essere identificata attraverso il richiamo operato dalle Sezioni unite all’elenco tassativizzante dei reati previsti dall’art. 51, comma 3 bis, cod. proc. pen., nonché a quelli riferibili a fenomeni associativi previsti dall’art. 416 cod. pen., con esclusione – da intendersi riferita a questa seconda categoria – delle ipotesi di mero concorso di persone nel reato”.

Avverso tale ordinanza veniva proposto ricorso per Cassazione a mezzo del quale la difesa dell’indagato lamentava, tra i vari motivi, la violazione di norme processuali previste a pena di inutilizzabilità in relazione agli artt. 13, 14 e 15 Cost., 191, 266, comma 1 e 2, 267 e 271 c.p.p. e art. 13 d.l. 152/1991.

La difesa rappresentava come nel procedimento in questione non fossero state contestate fattispecie di reato ricollegabili alla “nozione di criminalità organizzata”, ma solo delitti aggravati ex art. 416 bis.1 c.p..

Una situazione siffatta avrebbe, pertanto, determinato la disapplicazione della disciplina derogatoria in tema di intercettazioni – prevista dalla norma contenuta nell’art. 13 L. 203/91 – e l’illegittimità dei decreti autorizzativi emessi per dare applicazione alla procedura intercettiva.

Di tal che, l’interpretazione strettamente letterale seguita dal Tribunale del riesame avrebbe determinato una lettura distorta del pronunciamento delle SS UU “Scurato” che hanno perimetrato la categoria dei reati di criminalità organizzata e i delitti in relazione ai quali è possibile far uso del mezzo di ricerca della prova delle intercettazioni.

I Giudici di legittimità hanno disatteso la doglianza difensiva rappresentando come l’art. 1 del d.l. 10 agosto 2023, n. 105 ha espressamente previsto che «Le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, si applicano anche nei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies e 630 del codice penale, ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo».

Pertanto, la nuova disciplina, afferente i presupposti applicativi delle intercettazioni disposte nei procedimenti aventi a oggetto reati di criminalità, ha onerato l’interprete di valutare se tale ultimo intervento legislativo abbia carattere innovativo o carattere strettamente interpretativo.

La distinzione non è di poco conto atteso che nel primo caso (carattere innovativo) opererebbero “gli ordinari criteri di efficacia nel tempo della legge, e in particolare delle norme processuali, valendo esse solo per l’avvenire, con le criticità discendenti in tale ipotesi dall’inserimento di norme transitorie dirette ad estenderne l’applicazione anche per il passato (potendosi profilare dubbi di legittimità costituzionale, per contrasto con parametri nazionali – gli artt. 3 e 15 Cost. – ovvero sovranazionali – art. 8 CEDU -)”.

Invece, nel secondo caso, il “carattere interpretativo, saldandosi con quella interpretata (secondo l’immagine utilizzata dal Giudice delle leggi: Corte cost., n. 424 del 3/12/1993), delinea il contenuto che la norma aveva sin dall’origine e, per questa ragione, può dirsi retroattiva”.

La Suprema Corte ha attribuito carattere interpretativo all’ intervento normativo operato dal d.l. 105/2023.

La chiave di volta sarebbe da rinvenirsi nel contenuto della relazione illustrativa del disegno di legge relativo alla conversione del suindicato decreto legge secondo il quale è obiettivo del legislatore quello di «realizza[re] un allineamento di sistema, in quanto relativo ad istituti comuni alle e,_… investigazioni in materia di criminalità organizzata».

Pertanto, i reati da inserire nel “catalogo”, previsto dalla norma contenuta nell’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, c.p.p., non sono solo quelli di criminalità organizzata, ma anche quelli indicati attraverso la specificazione contenuta nell’art. 1 del decreto legge, il che «rende irragionevole il disallineamento della disciplina in materia di intercettazioni, determinando la necessità di introdurre senza ritardo la norma in commento, per garantire un’efficace azione di contrasto a gravi forme di criminalità e rendere più organico il sistema processuale, anche in ragione dei numerosi procedimenti in corso in cui si registrano indirizzi non univoci».

Inutile precisare che le decisioni della giurisprudenza di legittimità, nella subiecta materia, non sono univoche.

Difatti, da un lato vi sono alcune decisioni che hanno “individuato la cifra caratterizzante la nozione di “criminalità organizzata” nella costituzione di un apparato organizzativo finalizzato alla commissione di attività criminose, non tipizzate, purché realizzate da una pluralità di soggetti che, per la commissione di più reati, avessero fatto ricorso ad una struttura organizzata, che assumeva ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti (Sez. 6, n. 7 del 07/01/1997, Pacini Battaglia, Rv. 207363 – 01; Sez. 1, n. 3972 del 02/07/1998, Ingrosso, Rv. 211167 – 01; Sez. 5, n. 46221 del 20/10/2003, Altamura, Rv. 227481 – 01)”.

Dall’altro, vi sono altre decisioni secondo le quali “il principio di diritto espresso (“per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. nonché quelli comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”) si intende coniugato al «riferimento, contenuto nella parte enunciativa del principio di diritto, ai delitti “elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.», come «riferito ai delitti associativi annoverati in quell’elenco, e non, anche, ai delitti non associativi, per quanto commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod, pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal suddetto articolo» (Sez. 1, n. 34895 del 30/03/2022, Di Lorenzo, Rv. 283499 — 01)”.

E, ancora, sussistono pronunciamenti che “dopo aver inizialmente ricondotto l’espressione “delitti di criminalità organizzata” a categorie di reati definite «attraverso l’analitica individuazione delle fattispecie fatta dall’art. 407, comma secondo, lett. a) cod. proc. pen., dall’art. 372, comma 1-bis cod. proc. pen., dall’art. 51, comma 3-bis e 54 cod. proc. pen.» (Sez. 6, n. 6159 del 24/02/1995, Galvanin, Rv. 201695 — 01)” hanno sancito che “la contestazione dell’aggravante ex art. 7 I. 203/91, ipotesi ricompresa nel catalogo contenuto nell’art. 51, comma 3 bis, cod. proc. pen., qualifica il relativo reato come delitto di criminalità organizzata (Sez. 2, n. 25612 del 4/5/2022, Paradiso, n.m., in ipotesi di danneggiamento aggravato dal ricorso al metodo mafioso, peraltro con richiamo alla massima della pronuncia a Sezioni unite; Sez. 1 n. 17647 del 19/2/2020, Schirripa, n.m., riguardante il delitto di omicidio commesso con finalità di agevolazione di cosche `ndranghetiste; Sez. 1 n, 38038  del 22/3/2017, Schirripa, n.m., nel medesimo procedimento, in fase cautelare; Sez. 1, n. 50927 del 19/7/2018, Abbascià, n. m., relativa a intercettazioni disposte per il reato di violenza e minaccia a p.u, aggravato ex art. 7 I. 203/91, ancora con richiamo al principio di diritto enunciato dalla Sezioni unite; Sez. 1, n. 57542 del 14/9/2018, Vizzini, n.m., in relazione al reato di violenza e minaccia a p.u., aggravati dal ricorso al metodo mafioso; Sez. 1, n. 26666 del 13/2/2019, Milella, n.m., riguardante un omicidio aggravato per fini agevolativi di un clan mafioso; Sez. 6, n. 36874 del 13/6/2017, Romeo, n.m.)”.

Ciò posto, la Seconda Sezione ha rilevato come la norma contenuta nell’art. 1 del d.l. 105/2023, seguendo il solco tracciato dalla precedente disciplina che aveva quale precipuo scopo quello di “inglobare” all’interno della categoria dei delitti di criminalità organizzata anche quei reati in grado di alimentare e supportare lo sviluppo di organizzazioni delinquenziali, ha carattere interpretativo e, per tale ragione, presenta efficacia retroattiva dovendo applicarsi anche nella materia processuale la possibilità di specificare, ora per allora, l’ambito applicativo delle norme destinate a regolare i criteri legittimanti il ricorso a specifici mezzi di ricerca della prova.

In tal senso, devesi evidenziare che il tenore normativo dell’art. 1 del ridetto decreto ha avuto quale precipuo scopo quello di procedere all’emanazione di una norma “che fosse immediatamente applicabile ai procedimenti in corso, effetto naturale – come si è detto – già in conseguenza dell’accertata natura interpretativa della norma”.

Ciò posto, è la stessa Suprema Corte ha fugare qualsiasi dubbio in ordine alla legittimità costituzionale della disciplina normativa prevista dal d.l. 105/2023.

Difatti, la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha, in più occasioni, ribadito che “la portata retroattiva della legge, anche delle norme di interpretazione autentica, incontra — al di là dello specifico ambito della materia penale – limiti che attengono alla salvaguardia di norme costituzionali tra cui rilevano i principi generali di ragionevolezza e di uguaglianza, oltre che quello della tutela dell’affidamento legittimamente posto sulla certezza dell’ordinamento giuridico e quello del rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario”.

Ciò posto, altra questione altrettanto rilevante attiene la potenziale lesione di diritti costituzionalmente garantiti.

Anche in questo caso è la Corte Costituzionale a “intervenire in soccorso” atteso che il diritto all’inviolabilità delle comunicazioni è soggetto a limitazioni solo in presenza di un atto motivato dall’A.G. con le garanzie stabilite dalla legge.

Pertanto, seguendo la linea tracciata dal Giudice delle leggi devesi rilevare:

  • che la “Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi», nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza (sentenza n. 85 del 2013)”;
  • che “anche il diritto inviolabile protetto dall’art. 15 Cost. può subire limitazioni o restrizioni «in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia» della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione (sentenza n. 366 del 1991)» (Corte cost. n. 20 del 24/1/2017)”;
  • che, di conseguenza, “l’interesse pubblico a reprimere i reati e a perseguire in giudizio gli autori delle condotte criminose, specie in relazione ai reati di maggior allarme sociale e di maggiore complessità quanto al loro accertamento, quali quelli relativi ai procedimenti di criminalità organizzata, rappresenta «interesse pubblico primario, costituzionalmente rilevante, il cui soddisfacimento è assolutamente inderogabile» (Corte cost. n. 366 del 23/7/1991), sicché la norma interpretativa in esame, nella sua portata retroattiva, non può dirsi né irragionevole né lesiva di valori costituzionalmente protetti”.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte, rigettando il ricorso, ha escluso la inutilizzabilità – dedotta dalla difesa – delle intercettazioni disposte nel corso delle indagini e valutate a sostegno del quadro indiziario ai fini della applicazione della misura cautelare per effetto dell’emissione del primigenio provvedimento da parte del G.I.P. presso il Tribunale de L’Aquila.

 

Sez. 2, Sentenza n. 47643 del 28/09/2023 Cc. (dep. 28/11/2023) Rv. 285524-01

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