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di Giuseppe Milicia

Mi interrogo sul fatto se, a distanza di quasi quarant’anni, il dibattito sull’argomento sia sorretto da analisi adeguatamente aggiornate.

L’avvocatura penalistica ha la primogenitura dell’idea ma la concreta azione politica che si intendeva suscitare è stata debole, non ha preso forma, è rimasta sorda, indifferente alla spinta esercitata dalle molte buone ragioni. Una lunga storia di occasioni mancate.

Le battaglie di bandiera non scadono. Ma la separazione delle carriere dei Giudici da quelle dei PM non vorrebbe essere solo un vessillo. Per cui, ragionare oggi sulla praticabilità politico-istituzionale di una riforma dell’assetto dell’ordinamento giudiziario nel senso auspicato da noi fautori della separazione, richiede per un verso misurare la rispondenza al principio di realtà degli argomenti con cui la si sostiene e la si avversa, dall’altro lato significa comprendere -sempre mai prescindendo dal principio di realtà- in che misura la riforma prefigurata potrà incidere,  ben tenendo presente che la palingenesi vagheggiata ha un suo obiettivo minimo essenziale: il recupero della terzietà del giudice.

Essenziale l’obiettivo perché la terzietà è condizione irrinunciabile del giusto processo; ma da realizzare attraversando un territorio ostile reso impervio dalle solidissime nervature di una struttura in cui si è concentrata così grande quantità di potere da modificare in profondità la posizione assegnata all’Ordine Giudiziario nell’assetto delineato dalla seconda parte della Carta Costituzionale.

La storia insegna a quante risorse possa attingere un potere capillare e ramificato che governa il senso di insicurezza della comunità e quanto resistente sia il reticolo di relazioni che si dipana intorno alla capacità aggregante dell’esercizio quotidiano e diffuso di poteri hors de loi.

Per qualsiasi azione riformatrice in tali casi è immanente il rischio della eterogenesi dei fini. E cioè cambiare perché nulla cambi.

Affrontare tale vasto campo di indagine ovviamente travalica i limiti di queste minime osservazioni.

Ma non si può fare a meno di ricordare che non serve un restyling conservativo, una scarpa su misura per il fenomeno da regolare, che calzi a pennello. Occorrerebbe piuttosto un correttore ortopedico per dare nuova forma alla realtà. Progettare un simile intervento richiede uno studio radiografico sulle deformità da correggere: per stabilire quanto solide siano e per comprendere se si siano trasformate, fuori dalla metafora, in strutture portanti di consolidati assetti di potere.

Quarant’anni sono trascorsi da quando si è delineato l’allora inedito ruolo dell’apparato burocratico della Magistratura che utilizza le sue guarentigie per una finalità ultronea a quella tracciata dalla Costituzione scritta. Le contingenze storico politiche che ne hanno determinato le condizioni sono note. Nello sfascio delle istituzioni rappresentative di fine secolo scorso è prevalsa la sua compattezza corporativa, la forza salvifica della apparente neutralità del suo potere. Che si espande incessantemente a misura della presa totalizzante del diritto penale, divenuto strumento risolutore di ogni conflitto, ben messa in evidenza dagli osservatori più consapevoli.

È l’azione penale (di lotta ai sistemi criminali, di promozione del rinnovamento etico-morale della società) sovraccarica di valore politico, che mina la cultura dei limiti. Che, si sa, riesce a sopravvivere solo in un processo in cui il giudice è chiamato a risolvere il conflitto tra pretesa punitiva ed i diritti della persona e non a perseguire priorità di politica criminale.

Se la giurisdizione partecipa alla attuazione della funzione politica palingenetica e moralizzatrice della società, perde il suo connotato distintivo. Perché il suo principale attore, trasformato in giudice di scopo, quando adotta decisioni sui casi specifici, è principalmente interessato alla valutazione di impatto sociale, e non può aspirare ad una posizione di effettiva terzietà. E quindi nemmeno il cittadino attraverso il suo difensore, può aspirare a misurarsi ad armi pari con l’accusa.

Il punto è dunque se il recupero di terzietà – o quanto meno una inversione della pluridecennale opposta tendenza – possa realizzarsi con una riforma- come quella della proposta di legge costituzionale iniziativa popolare – che preservi l’autonomia del pubblico ministero ma restituisca al giudice una condizione di indipendenza rispetto all’istanza punitiva che incanali lo ius dicere entro l’alveo naturale da cui è da tempo esondato.

La risposta non è semplice. E non è solo questione di calibrare interventi sul testo degli art. 104 e seguenti della Costituzione

Bisogna misurarsi con la modificata geografia della costituzione materiale e con una cultura egemonizzante con forte presa sulle subalterne istituzioni politiche tradizionali e sulla società incapace di esprimere pensiero critico. Bisogna misurarsi con la vasta attrezzatura tecnica ed ideologica messa a disposizione del giudice chiamato a “governare la complessità” più che ad applicare il diritto. Strumenti e metodi nuovi e di attraente duttilità, che svuotano di significato la tipicità penale e rimandano al momento applicativo la creazione della fattispecie più adatta alla soluzione del caso.  

E bisogna misurarsi con un garantismo penale di matrice liberale che non ha messo in campo risorse sufficienti ad arginare la deriva, e vivrà una crisi sempre profonda se non riuscirà a rappresentare efficacemente la separatezza tra gli attori della giustizia penale come condizione del giusto processo.   

Con sullo sfondo un potere formidabile, strutturato, resiliente e con legittimazione extracostituzionale, i nemici della riforma sono molti e molto motivati. Tra gli altri anche quelli che hanno sottoscritto per convenienza tattica un programma di governo che la prevede, pur essendo fautori della politica delle forche in piena consonanza con l’autoritarismo giustizialista di larga parte dello schieramento di opposizione.

Deve far riflettere che molti siano i giudici che – nonostante gli eccessi ed abusi che noi raccontiamo come conseguenza della loro marginalità nel processo governato dall’accusa – non si scompongono, anzi non gradiscono il soccorso non richiesto e preferiscono godere della posizione di privilegio inossidabile che deriva dalla centralità nel sistema del loro diffuso potere senza contrappesi e responsabilità. Al nostro racconto preferiscono la favola dei PM che smarriscono la cultura della giurisdizione se separati da chi quella cultura l’ha sostituita da tempo, con altra di stampo autoritario e poliziesco.

Nessuno può sottovalutare il singolare corso della storia del processo penale italiano che da un lato si dotava di un codice accusatorio dall’altro ne neutralizzava i suoi tratti identificativi riproducendo il peggio dell’inquisitorio con un protagonismo delle polizie ed una centralità dell’indagine preliminare mai prima sperimentati.

Ed allora, con lo sguardo rivolto alla storia recente evitiamo di essere troppo distratti dalla prospettiva dell’avvento della riforma. Continuiamo a lavorare per non perdere altro terreno, facciamo attenzione al piede con le sue escrescenze incancrenite e non trascuriamo il fascino perverso delle sue deformità.

Perché la colpa è del piede e non della scarpa che non calza.

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