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La Sezione Terza, con la pronuncia n. 48820, stabilisce che “il diritto alla salute, specie a fronte di patologie gravi ed invalidanti, trova attuazione in primo luogo ponendo il malato in un ambiente – non necessariamente ospedaliero – del tutto salubre, edificato ed attrezzato nel pieno rispetto della disciplina di legge, proprio perché questa è volta a garantire anche il benessere di chi abita in quei luoghi, specie se malato. In altri termini, il rispetto della normativa in materia edilizia risponde non solo all’ovvia esigenza di tutelare un bene collettivo, come tale sottratto alla libera ed indiscriminata disponibilità dei singoli, ma anche alla necessità che questi stessi possano usufruire del bene in sicurezza, proprio perché regolarmente edificato, tutelando la propria salute e la propria incolumità (…) o, per l’appunto, le malattie o situazioni invalidanti che costringano un soggetto a vivere, magari costantemente, all’interno di uno spazio chiuso”.

La Corte di appello di Napoli, con apposita ordinanza, rigettava un incidente di esecuzione volto a ottenere la revoca o la sospensione dell’ordine di demolizione emesso contestualmente a una sentenza di condanna, nel frattempo divenuta irrevocabile, stante l’accertata responsabilità dell’imputato in relazione al reato previsto dalla norma contenuta nell’art. 20 della L. 47/1985.

L’ordinanza veniva impugnata tramite ricorso per Cassazione e veniva dedotta la inosservanza o erronea applicazione delle norme contenute negli artt. 2,3 e 32 Cost., 3, 6 e 8 CEDU atteso che la Corte di appello non avrebbe operato un corretto bilanciamento dei diritti costituzionali in gioco.

In tal senso, secondo il ricorrente, la Corte partenopea non avrebbe considerato preminente il diritto alla salute del figlio minore, gravemente malato, del medesimo (il quale abitava all’interno dell’immobile oggetto del ridetto ordine di demolizione) rispetto alla necessità di garantire il ripristino dei luoghi in favore della collettività.

Difatti, la applicazione dell’ordine di demolizione avrebbe determinato un gravissimo pericolo di vita o, comunque, un grave e insostenibile turbamento in capo al minore a seguito del mutamento dell’ambiente di vita quotidiana.

E, ancora, la demolizione dell’immobile, secondo il ricorrente, non avrebbe determinato alcun giovamento per la collettività stante l’elevato tasso di urbanizzazione del luogo – ove trovavasi ubicato il ridetto immobile – e i disagi derivanti dalla distruzione del medesimo in una zona caratterizzata dalla presenza di altre costruzioni.

Il ricorrente lamentava mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione posto che l’organo giudicante avrebbe soffermato la propria attenzione sul diritto all’abitazione omettendo, pertanto, di valutare il contenuto della documentazione prodotta della difesa avente a oggetto i rischi di aggravamento delle condizioni di salute del minore in caso radicale mutamento del proprio ambiente di vita.

Di tal che, “non sospendere l’ordine di demolizione, dunque, sarebbe (stato)“irragionevole, illogico ed inumano””.

La Suprema Corte reputava il ricorso inammissibile sulla base delle argomentazioni, di seguito, indicate.

Primariamente, il Supremo Collegio reputava la prima censura – afferente la mancanza di un “reale e concreto beneficio al territorio del Comune” – squisitamente di fatto e, pertanto, non valutabile nel giudizio di legittimità.

Ciò posto, con riferimento alla avvenuta violazione di legge e al vizio di motivazione connotante l’impugnata ordinanza, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte di appello di Napoli non ha commesso alcun errore valutativo avendo applicato i “numerosi indici di proporzionalità dell’ordine di demolizione – tra quelli costantemente richiamati dalla giurisprudenza nazionale e convenzionale”.

In particolare, il Supremo Collegio rilevava:

  • che l’istante (condannato per la violazione della norma contenuta nell’art. 20 della L. 47/1985), nella qualità di “proprietario e committente delle opere abusive”, “aveva edificato un intero edificio, con plurime violazioni di sigilli, modifiche ed integrazioni, oltre a cambi di destinazione d’uso, anche successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna”;
  • che, nonostante l’avvenuto decorso di 17 anni dal passaggio in giudicato della sentenza e di altri 7 per la conclusione del procedimento di esecuzione, l’istante non aveva “mai adottato una qualunque iniziativa per trovare una differente soluzione abitativa per sé o per la propria famiglia”.

Ciò posto, la Suprema Corte si soffermava sulla censura afferente l’errata operazione di bilanciamento dei diritti costituzionalmente garantiti effettuata dalla corte territoriale.

Orbene, secondo il Supremo Collegio, anche in tal caso trattavasi di una censura di fatto e, di conseguenza, non analizzabile nel giudizio di legittimità.

La Terza Sezione precisava, comunque, che “la patologia del minore – indubbiamente di notevole gravità – non appare di per sé incompatibile con il possibile spostamento del nucleo familiare in un’altra abitazione idonea ad accoglierlo” e che l’ordinanza impugnata si era soffermata sul fatto che “(erano) ormai trascorsi molti anni (oltre dieci) da quando la malattia del minore si è manifestata in tutta la sua gravità, e che durante un così lungo periodo il ricorrente – come già riportato – non ha mai intrapreso alcuna iniziativa per trovare una differente soluzione abitativa”.

E, ancora, il ricorrente non avrebbe speso “alcuna valutazione circa l’effettiva compatibilità, con la grave patologia, di un ambiente di vita sorto in totale violazione di ogni previsione edilizia e sanitaria, comprese le norme a presidio proprio della salubrità degli ambienti”.

In tal senso, la Suprema Corte ha rilevato che il diritto alla salute può dirsi effettivamente tutelato solo nel caso in cui il soggetto, affetto da gravi e invalidanti patologie, si trovi in un ambiente edificato secondo le previsioni di legge e sia, pertanto, “del tutto salubre (…) ed attrezzato nel pieno rispetto della disciplina (legislativa) proprio perché questa è volta a garantire anche il benessere di chi abita in quei luoghi, specie se malato”.

Di conseguenza, il concreto rispetto delle norme in tema di edilizia costituisce il fondamento essenziale per tutelare un bene collettivo il quale, nel caso di specie, è stato illecitamente sottratto alla collettività.

Pertanto, solo l’edificazione di un immobile secundum legem permette di tutelare il diritto alla salute e all’incolumità del costruttore e dei soggetti, che ivi vi abiteranno, nonché di tutelare l’altrui incolumità “(…)  (in caso) di eventi superiori come le calamità naturali (si pensi alla normativa antisismica o a tutela dal rischio idrogeologico)”.

La corretta applicazione della disciplina normativa si riflette, inevitabilmente, sulla concreta tutela del diritto alla abitazione di un soggetto gravemente ammalato o che trovasi in situazioni invalidanti.

Tali situazioni (ossia quelle invalidanti) richiedono (a maggior ragione) una particolare forma di rispetto della legislazione in materia di edilizia soprattutto nel caso in cui il “soggetto (si ritrovi), magari costantemente, (a dover vivere) all’interno di uno spazio chiuso”.

Cass. Pen. Sez. III – 02/11/2023, n. 48820

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