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In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, a seguito della modifica dell’art. 314 cod. proc. pen. ad opera dell’art. 4, comma 1, lett. b), d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, l’esercizio della facoltà di cui all’art. 64, comma 3, lett. b) cod. proc. pen., oltre a non costituire causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, non può essere considerato ai fini della diminuzione del quantum dell’indennizzo, assumendo un valore neutro non suscettibile di integrare una ipotesi di colpa lieve”.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso proposto dalla difesa, annullava l’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Palermo che, in parziale accoglimento della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione subita dal richiedente, riconosceva al medesimo la somma di euro 210.000,00 a titolo di indennizzo.

Primariamente, devesi rilevare che il ricorrente era stato indagato poiché accusato dei reati di omicidio volontario e rapina in relazione ai quali era stato sottoposto alla misura della custodia in carcere per giorni 1.119.

Successivamente, il medesimo veniva rinviato a giudizio, processato e assolto dalle accuse mossegli con sentenza emessa dalla Corte di Assise di Palermo e divenuta irrevocabile in data 24.5.2022.

Ciò posto, la Corte di appello di Palermo, analizzando la domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione patita, rilevava che l’istante non aveva “dato causa all’adozione della misura restrittiva

a suo carico attraverso comportamenti gravemente colposi”, ma precisava che “ai fini della quantificazione dell’indennizzo, la circostanza che il richiedente si fosse avvalso della facoltà di non rispondere nel corso del procedimento, (era, comunque, da individuarsi in) (…) una colpa lieve”.

Sulla base di tale ultimo rilievo giudiziale, il ricorrente, a mezzo del gravame, lamentava:

  • l’omessa valutazione di tutti gli elementi, da parte del giudicante, al fine di fornire una adeguata motivazione sul punto;
  • l’omessa motivazione in merito alla decisività del comportamento silente, tenuto inizialmente dall’allora indagato, sull’originaria applicazione della misura carceraria.

Orbene, la Suprema Corte preliminarmente rilevava che “la liquidazione dell’indennizzo per la riparazione dell’ingiusta detenzione è svincolata da criteri rigidi, dovendo basarsi su una valutazione equitativa, che tenga globalmente conto di tutti gli elementi che abbiano influito sulla vicenda che ha determinato l’adozione del provvedimento restrittivo ingiusto”.

Ciò posto, il ragionamento logico-giuridico connotante la motivazione del pronunciamento emesso dalla Suprema Corte virava sulla rilevanza delle c.d. “condotte colpose concausali”.

Difatti, la gravità di tali condotte possono determinare una diminuzione nel calcolo dell’indennizzo da concedere fino alla sua totale esclusione.

Nel caso di specie, la Corte di appello di Palermo sarebbe incorsa in errore nel considerare elemento idoneo a diminuire il quantum di indennizo da irrogare il fatto che l’istante, nel momento in cui era stato sottoposto a procedimento penale, si fosse avvalso della facoltà di non rispondere.

In tal senso, il Supremo Collegio sottolinea la rilevanza della modifica apportata dall’art. 4, comma 1, lett. b) d.lgs. 8 novembre 2021 n. 188, alla norma contenuta nell’art. 314 c.p.p. “non potendo il comportamento silente adottato dal richiedente essere qualificato in termini di “colpa lieve” ”.

La modifica voluta dal legislatore nazionale ha quale precipuo scopo quello di uniformare la normativa interna alle disposizioni dettate dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la Direttiva (UE) 2016/343 in tema di rafforzamento del principio di presunzione di innocenza.

In tal senso assume decisivo rilievo quanto stabilito dal comma 1 della norma contenuta nell’art. 314 c.p.p. secondo la quale “L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo”.

La rilevanza del dettato normativo, come modificato dall’art. 4, comma 1, lett. b) d. lgs. 8 novembre 2021, n. 188, si fonda sul valore neutro che il giudice deve attribuire al fatto che l’indagato o l’imputato abbia esercitato il diritto “di non rispondere alle domande dell’Autorità in interrogatorio e, più in generale, di rimanere silent(e) nel corso del procedimento”.

Pertanto, una lettura convenzionalmente orientata della norma contenuta nell’art. 314 c.p.p. – dovendosi necessariamente porre in linea con quanto stabilito dalla norma contenuta nell’art. 7 della Direttiva (UE) 2016/343 la quale prevede che “Gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuto il diritto di restare in silenzio in merito al reato che viene loro contestato” e che L’esercizio da parte degli indagati e imputati del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi non può essere utilizzato contro di loro e non è considerato quale prova che essi abbiano commesso il reato ascritto loro” – induce ad affermare:

  • che “il silenzio serbato dall’indagato o imputato nel corso del procedimento o nel giudizio penale, non (può considerarsi) ostativo al riconoscimento dell’indennizzo per ingiusta detenzione”;
  • che il medesimo (ossia l’esercizio del diritto al silenzio) non può “essere validamente considerato ai fini della riduzione del quantum dell’indennizzo, trattandosi dì comportamento non qualificabile in termini di colpa lieve”.

Sulla scorta di tali considerazioni la Suprema Corte disponeva l’annullamento con rinvio dell’impugnata ordinanza per un nuovo giudizio davanti alla Corte di appello di Palermo.

 

Cass. Pen., Sez. IV, ud. 14 novembre 2023 (dep. 4 dicemebre 2023), n. 48080

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