Il principio di legalità[1] rappresenta il principale riferimento del sistema del diritto penale ed orienta l’ambito di intervento del legislatore nel procedimento di formazione della legge e del giudice nel campo della sua applicazione.
La certezza del diritto viene garantita dalla piena osservanza di tale principio e dei suoi corollari[2] che involgono direttamente la norma penale, le sue conseguenze in termini di trattamento sanzionatorio e la funzione della pena.
La mancata attuazione del principio di legalità, di conseguenza, riverbera i suoi effetti nel modello di giustizia penale e nelle varie scelte di politica criminale in un particolare momento storico.
L’evoluzione degli interventi legislativi nell’ultimo trentennio, è pervenuta ad una forte crisi del principio di legalità[3] ed in particolare della riserva di legge.
Il presidio fondamentale del diritto positivo della norma penale viene sottoposto a forte revisione critica dagli esiti delle varie riforme che hanno interessato l’intero sistema.
I mutamenti legislativi hanno determinato un punto di arrivo decisivo per l’approccio di analisi del problema in quanto ne hanno fortemente condizionato gli sviluppi e le soluzioni.
La riserva di legge, infatti, costituisce ambito di osservazione scientifica sia per un suo immediato recupero, in relazione ai suoi ambiti di intervento; sia ad un suo progressivo allontanamento verso la ricerca di nuove dogmatiche in grado di potersi adattare ai nuovi connotati del sistema penale.
L’approccio nell’una o nell’altra direzione necessita di un’analisi che investa alcuni parametri essenziali legati alla dimensione del legislatore, al suo ruolo ed al suo meccanismo di formazione, ed infine ai suoi attuali riferimenti rappresentativi nella società.
La riserva di legge, infatti, da un lato costituisce la supremazia del Parlamento nei confronti degli altri poteri dello Stato e, dall’altro, rappresenta l’espressione della volontà popolare e quindi la più alta forma di legittimazione del suo potere[4].
Nel corso degli anni, entrambe le caratteristiche hanno perso la loro intrinseca natura finendo per corrompersi, e così corrodere i collegamenti con la norma penale e la sua concreta applicazione.
La crisi perenne della rappresentatività elettiva dovuta alla scarsa competenza nel settore di riferimento, ed al ricorso alla condotta illecita sulle dinamiche elettorali, hanno minato forse in modo irrecuperabile il ruolo essenziale del Parlamento nell’ambito del sistema di formazione della norma penale[5].
Il giudizio assiologico mirato all’individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma, ispirato ai parametri costituzionali, non viene più, come una volta, garantito dal rispetto dei valori condivisi, o condivisibili in un determinato momento storico, ma, a causa dell’intervento di logiche personalistiche, totalmente asservito all’esigenza del contingente.
A ciò si aggiunga l’evoluzione del concetto di minoranza rappresentativa nel procedimento di formazione della legge ed il ruolo supplente da parte della giurisdizione.
La crisi della riserva di legge, e quindi della struttura della norma penale, ha lentamente provocato la formazione di categorie sociali, rivendicanti autonomi spazi e propri diritti, in antitesi con la tutela dei valori costituzionali.
La giurisdizione ha immediatamente colto il fenomeno e si è resa interprete dei diritti di tali categorie, a volte espressione di minoranze rappresentative, allargando la crisi del principio di legalità anche ai rapporti tra legge e giudizio.
L’esigenza di tutelare le cd. fasce deboli, come sopra analizzato in un determinato momento storico, non è stato altro che il risultato anche di un’interpretazione adeguatrice della norma penale oltre il giudizio assiologico costituzionale.
L’assenza della corretta ermeneusi del caso concreto rappresenta l’approdo di una fattispecie che, nella sua specificità, si conforma all’interpretazione della giurisprudenza di legittimità senza alcuna necessaria originalità.
La giurisdizione si è trasformata da potere dello Stato di applicazione della norma penale a fonte autonoma mediante un atteggiamento degenerativo di vera e propria creazione della fattispecie al servizio degli scopi sopra menzionati.
A fronte di tale situazione, vengono avanzate due soluzioni: quella del recupero della funzione del principio di legalità; e quella del suo definitivo abbandono.
Il primo rimedio, il recupero del principio di legalità, nasce dalla consapevolezza che nell’attuale dissesto della legalità non c’è nulla di naturale ed inevitabile, essendo ben possibile una sua rifondazione.
Il percorso si dirigerebbe verso l’attuazione del paradigma costituzionale per restituire al legislatore la capacità di creare la norma penale ristabilendo la sua primigenia funzione di disciplina.
La questione, pertanto, sarebbe da affrontare sul versante squisitamente tecnico, e cioè del ripristino del giudizio assiologico associato all’applicazione della chiarezza e precisione del linguaggio.
Una legislazione più trasparente vincolerebbe il giudice al principio di legalità nella sua aderenza costituzionale evitando le interpretazioni creative che ne hanno caratterizzato la produzione negli ultimi anni.
La seconda prospettiva, quella dell’abbandono del principio di legalità, muove ovviamente da una presa di coscienza nettamente diversa dalla prima.
In essa, si starebbe consumando la fine di una crisi irreversibile che affonderebbe le sue radici nel potere istituzionale legislativo ormai incapace di riportarsi alle sue origini.
Si dovrebbe prendere atto della necessità di aprire una nuova dimensione del principio di legalità, e così di un diverso contenuto alla riserva di legge in grado di poter adeguarsi alla realtà ed alle sue derivazioni patologiche.
Un sistema del diritto penale basato su una norma che ha perso definitivamente la ragione del suo dover-essere per finire ad integrare i caratteri dell’essere, unicamente proiettata nell’ottica della sua ermeneusi di legittimità.
L’alternativa, quindi, sarebbe quella di consegnare le prerogative formali della legalità a chi realmente la detiene, non più il legislatore, ma il giudice, che in tale direzione si farebbe promotore delle valutazioni assiologiche e delle istanze dei singoli consociati in quel particolare momento storico.
In questi termini, la soluzione ripristinerebbe il richiamo alla Costituzione lasciando da parte le tendenze contingenti al soddisfacimento delle emergenze sociali, ma eliderebbe completamente il ruolo (già delegittimato) del legislatore.
La riserva di legge scomparirebbe nell’accezione classica di limite alla potestà discrezionale del giudice per assumere contorni più marcatamente accentuati nell’esercizio della funzione giurisdizionale[6].
Tale indirizzo porterebbe all’ulteriore conseguenza di prevedere il meccanismo di elezione democratica degli stessi giudici.
Coerentemente con quanto propugnato, infatti, lo spossessamento della legalità dal legislatore al giudice dovrebbe correlarsi con il medesimo reclutamento dei vari membri componenti il consesso ordinamentale.
Dovrà essere sempre il corpo sociale, come lo era per il Parlamento, a dover eleggere i suoi rappresentanti anche per la giurisdizione[7].
Altri sistemi giudiziari, di antica democrazia, come quelli di common law, a cui il nostro ordinamento va sempre più assomigliando, hanno scelto il giudice elettivo quale fonte di garanzia per i consociati.
La scelta di delegare al concorso il sistema di reclutamento dei magistrati, nel contesto argomentativo di cui sopra, pone due quesiti di fondo: a) la metodologia di formazione nella interpretazione della norma penale; b) la costruzione della funzione di intervento del trattamento sanzionatorio.
In ordine al punto sub a), si osserva come alla tradizionale didattica progressiva di ermeneusi del significato della norma si è affiancata (quasi in maniera preponderante) una preconfezionata aderenza alle interpretazioni di legittimità nazionali e sovranazionali.
Lo studio del percorso di analisi esegetica non viene curato con la stessa importanza di prima poiché ormai superato dalla presenza di precostituite soluzioni interpretative.
Il giudice incontra sempre più obiettiva difficoltà a rinvenire il significato della norma per l’applicazione al concreto, e l’affidamento ai processi di adattamento, o sovrapposizione (es. tecnica del cd. copia-incolla), diventa l’unica facile e più economica soluzione.
Quanto al problema sub b), si evidenzia che, nella funzione creativa della norma da parte della giurisprudenza, la sanzione penale, rectius la pena, può assumere illimitati contenuti e svariate funzioni.
Infatti, come sopra si accennava, solo il contemperamento del principio di legalità in capo al giudice con quello del giudizio assiologico costituzionale (e della rappresentanza popolare) può soddisfare le reali garanzie collettive.
La pena diventa espressione della volontà del corpo sociale solo quando assolve la funzione di tutela dei beni giuridici tutelati nei parametri costituzionali.
La scelta di incriminazione per non scivolare in contributi di autoritarismo o, ancor di più, essere unicamente orientata a proteggere solo alcune autonome categorie (cd. deboli) e quindi attivarsi in caso di emergenza, non può prescindere dal giudizio di valore e dalla sua concreta applicazione.
I due modi antitetici (recupero vs. allontanamento) di concepire la crisi del principio di legalità può trovare una adeguata sintesi, infine, nella concezione intermedia che propone una mediazione tra il ripristino della riserva legislativa e la funzione creativa della giurisprudenza.
La delegittimazione del potere legislativo, espressione di un assolutismo giudiziario governato dal primato e dal sovranismo della legge quale fonte statuale che tutto regola e dispone con conseguente formalismo cui verrebbe condannata l’interpretazione di quelle regole; e la delegittimazione del potere giudiziario, quale organo creatore delle norme e disapplicatore delle garanzie di cui la legalità penale è sempre stata ritenuta custode insostituibile, necessitano di essere comprese nell’ambito di un percorso che miri a rafforzare il principio di legalità nell’ineludibile valenza interpretativa della norma penale.
L’importanza dell’ermeneusi della legge, specie in ambito penale, viene ribadita con forza dalle esperienze che la tradizione, nel corso degli anni, ha sempre di più perfezionato nell’ottica differenziale tra analogia consentita e quella vietata.
Le difficoltà di costruzione di una norma che possa essere espressione del giudizio assiologico ha consentito all’ermeneusi di potersi spingere verso ambiti sempre maggiori per colmare eventuali lacune e risolvere il problema dell’applicazione al caso concreto.
Se si pone mente, inoltre, all’ipotesi che la costruzione della fattispecie astratta, per le sue attuali infinite implicazioni assiologiche, sia quantomai difficile, se non impossibile, da realizzarsi con i pieni crismi della legalità, ecco che l’interpretazione diventa forse l’unica via per soddisfare la finalità di disciplina della legge.
Il cd. diritto senza legge costituisce una visione poi non tanto lontana dalle tendenze attuali in cui si cerca di riprendere il sistema di common law e la tradizione anglosassone di riferimento.
Anche le prospettive registrate nelle fonti europee tendono verso questa direzione: un diritto che recepisca in modo unitario l’interpretazione della norma penale ed i suoi modelli flessibili per adattarla all’esperienza giuridica del singolo Stato.
Senonché, tale tendenza sconta i rischi delle inevitabili diversificazioni ermeneutiche che, in mancanza di armonizzazione nel contesto di sistema, finiscono per generare un’applicazione spesso asimmetrica dello scopo della norma violata e, soprattutto, della sanzione irrogata.
L’effetto principale si avvertirebbe nel procedimento di accertamento della fattispecie che risentirebbe del ricorso troppo elastico ad elementi interpretativi di diversa provenienza in grado di allontanare il caso di specie dalla determinatezza del modello criminoso.
Tanto più la norma appare il risultato della piena attuazione dei principi di frammentarietà ed offensività, quanto più sarà determinata ed insuscettibile di applicazioni analogiche, e così idonea ad essere facilmente ricostruita mediante i canoni del processo penale senza ricorso ad interpretazioni ermeneutiche che ne sottraggano il contenuto principale.
Il recupero della legalità penale deve costituire comunque un obiettivo da perseguire anche nell’ambito della valorizzazione dell’ermeneusi della norma e nel contesto di sintesi delle diverse esigenze.
Ma l’esperienza maturata dalla giurisprudenza deve essere altrettanto valorizzata, al netto degli atteggiamenti di preconcetto basati sulla mancanza di fiducia del ruolo del giudicante, ed armonizzata nel sistema e nel modello di giustizia.
E’ necessario ripristinare uno stretto collegamento tra il giudice e la legge non in modo astratto, cioè sui principi ed il rispetto dei ruoli, ma sul caso concreto in modo da costruire un modulo operativo in cui la norma penale sia il riferimento assiologico di tutela del bene giuridico, e l’interpretazione del giudice lo strumento di concreta applicazione della stessa.
La pena irrogata, che determina poi i principali problemi in termini di funzione reale sul responsabile ed all’interno del corpo sociale, sarà adeguata al modello di giustizia risultante dalla armonizzazione del diritto con la legge.
Solo in questa visione diacronica la legge potrà trovare i giusti correttivi ad una sua possibile lacuna contenutistica, ed ai suoi ricorrenti elementi di ambiguità.
Il giudice, e la sua interpretazione, vengono considerati quale ineludibile controparte di verifica e, soprattutto, di controllo della piena attuazione del principio di legalità nelle sue diverse accezioni di riserva di legge, offensività e frammentarietà.
La sintesi delle due opposte soluzioni, infine, non può che riposare nell’alveo della fonte Costituzionale.
Il richiamo ai valori della Costituzione rappresenta la chiave di lettura per poter avvicinare i due poli contrapposti e rendere armonico il sistema di recupero della legalità penale nell’ambito della corretta interpretazione giurisprudenziale.
La legalità della norma penale può significare, come spesso si è affermato, unicamente il richiamo al giudizio assiologico sulla formazione del bene giuridico tutelato in quel particolare momento storico.
Senza tale valutazione, che tenga conto della gerarchia dei valori costituzionali, non si può parlare né di modello di giustizia, né tantomeno di adeguatezza personale e sociale della funzione della pena.
L’ermeneusi della fattispecie, altresì, non può prescindere dai parametri costituzionali nell’interpretazione convenzionale più aderente ai principi in essa contenuti (es. legittima difesa).
Il giudice deve potersi riprendere lo spazio che la norma gli attribuisce e, nel rispetto del suo ruolo, poter effettuare la dovuta interpretazione alla ricerca della migliore soluzione del caso concreto.
L’intero sistema penale, in tale dimensione, avrà un modello chiaro e trasparente di giustizia in cui la norma penale sarà il risultato della precisa scelta di incriminazione di quel bene giuridico (in quel particolare momento storico), e la sanzione soddisferà la funzione precipua per la quale è stata predisposta nell’ambito delle garanzie costituzionali.
La norma penale, inoltre, sarà considerata ragionevole in quanto garanzia di coerenza assiologica con i valori di riferimento costituzionali del sistema cui è chiamata ad operare.
Il principio di legalità ed i suoi sottoprincipi di riserva di legge, determinatezza ed offensività si originano dalla Costituzione e producono la loro efficacia anche nella concreta applicazione della sanzione.
L’inosservanza di uno di essi comporta inevitabili conseguenze anche sull’altro e così sul principio di uguaglianza, che regola il pari trattamento dei consociati, e disciplina il fondamento costituzionale della ragionevolezza della norma penale.
La legge tratta in modo eguale situazioni eguali ed in maniera diversa situazioni diverse sicché si può considerare ragionevole la norma che soddisfi tale principio, mentre sarà irragionevole quella che si porrà in contrasto con i valori sopra espressi.
Il sistema penale è integrato verso uno scopo quando la norma sarà in grado di essere ragionevole e tutelare i beni giuridici costituzionali, il modello di giustizia si attiva quando sarà in condizione di fornire regolamentazione ai conflitti sociali in osservanza del principio di uguaglianza, e cioè ristabilendo la posizione paritaria tra i singoli consociati precedentemente violata dalla condotta criminosa.
Il valore onnipresente sia nella gerarchia dell’interesse meritevole di tutela, sia nel contenuto del principio di uguaglianza, è sempre la persona umana intesa come centro assiologico principale di tutte le dinamiche del sistema penale.
Il modello di giustizia, quindi, potrà arricchirsi proprio di tale contenuto, cioè del principio di uguaglianza tra i singoli consociati in cui la norma penale recupera la sua legalità e svolge la sua funzione nella sua ermeneusi del caso concreto.
Il principio di ragionevolezza, in definitiva, sostiene la sintesi dialogica delle soluzioni prospettate in tema di crisi della legalità ed arricchisce la prospettiva di armonia mediante il ricorso al principio costituzionale di uguaglianza.
Non esente da tale inquadramento è la tematica della scelta di incriminazione che, come sopra analizzato, ha costituito un paradigma legislativo di assoluto interesse strategico nel corso degli anni.
Si pongono due problemi fondamentali riguardo al tempo ed al contenuto dell’incriminazione.
Il giudizio assiologico circa la selezione degli interessi giuridicamente rilevanti è il principale riferimento della costruzione di ogni singola fattispecie penale.
A tale obiettivo si perviene mediante l’applicazione del criterio storicistico e di ricerca dei valori condivisi, o condivisibili, all’interno del corpo sociale.
Lo strumento di indagine è costituito dall’espressione razionale della volontà legislativa e della sua legittimazione democratica.
Si è osservato in precedenza come la rappresentanza sociale sia profondamente in crisi nelle istituzioni e ciò riverberi i suoi effetti anche nei meccanismi di formazione delle leggi non più espressione della volontà popolare.
In questo contesto, la soluzione più efficace per superare le difficoltà legate ai procedimenti di formazione della legge è il ricorso al principio di ragionevolezza della norma, nella parte in cui pone la sovranità della Costituzione come limite all’arbitrarietà del potere politico.
Il sindacato delle leggi, pertanto, viene considerato non solo nella sua dimensione formale di compatibilità con i valori costituzionali (nel giudizio della Corte Costituzionale), ma anche momento di opportunità per il giudice di adattare la sua interpretazione del caso concreto ai i principi supremi della stessa Costituzione.
Il momento della incriminazione ha giocato un ruolo sempre crescente nelle scelte di politica criminale.
Il bisogno di sicurezza sociale ha pervaso da sempre gli ultimi decenni in cui, a causa anche dell’informazione mediatica, si è assistito ad un proliferarsi delle varie legislazioni emergenziali.
La norma penale viene concepita al servizio delle necessità, delle ansie, del corpo sociale, il più delle volte tradotta in inasprimenti della sanzione senza alcuna aderenza (rectius coerenza) con una visione sistematica.
La costruzione di quello che viene definito il cd. diritto penale della paura, nella ritenuta perenne situazione emergenziale, indifferente al giudizio assiologico ed alla funzione della pena, risulta privo dell’osservanza del principio di uguaglianza e della sua ragionevolezza.
Il giudice che applichi al caso concreto la norma penale emergenziale irragionevole dovrà essere mossa non solo la censura riguardante la sua precipua attività, in contrasto con i principi costituzionali, ma anche quella di non aver segnalato al legislatore la violazione del principio di legalità, nel suo corollario di offensività, in maniera da poter rimuovere gli ostacoli alla sua piena attuazione senza alcuna disparità di trattamento.
La ragionevolezza della norma intesa quale momento ineludibile fin dal momento di formazione della stessa e parametro di garanzia del principio di legalità nell’osservanza dei valori costituzionali.
In conclusione, si evidenzia un modello di giustizia che appare orientato a risolvere i conflitti sociali ristabilendo l’uguaglianza e facendo progredire la società verso forme di solidarietà, accoglienza ed integrazione, in cui la sanzione penale deve svolgere la sua funzione di ri-socializzare il singolo responsabile, sia come persona, sia come appartenente ad un contesto di pari in cui esplica la sua interazione.
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di Paolo Carnuccio (Avv. Prof. del Foro di Catanzaro)
NOTE:
[1] La materia delle fonti del diritto penale è regolata da un principio fondamentale, il principio di legalità. Tale principio, in base al quale nessuno può essere punito se un fatto non è considerato reato da un’apposita legge, è sancito dalla Costituzione all’articolo 25 e dal codice penale agli articoli 1 e 199. Il principio di legalità è un principio cardine di tutti gli ordinamenti democratici e degli stati di diritto in genere. Esso implica una concezione formale del reato, secondo cui è reato solo il fatto previsto come tale dalla legge. E’ un principio di garanzia per i cittadini, perché in tal modo tutti sono in grado di sapere quali fatti sono vietati e quali sono permessi Cfr. MARINUCCI-DOLCINI, Diritto Penale, 2020.
[2] Quali il principio della riserva di legge in materia penale; il principio della tassatività o determinatezza della fattispecie penale; il principio di irretroattività delle norme incriminatrici (ma questa affermazione è assai discussa); il divieto dell’analogia in malam partem.
[3] Il diritto penale moderno nasce e si sviluppa all’insegna del principio di legalità, cui è strettamente vincolato; talché la crisi della legalità è questione fondamentale ed egemone. Il principio di legalità manifesta l’esigenza che l’esercizio di ogni potere pubblico sia contemplato e disciplinato dalla legge, la quale negli ordinamenti di civil law collima con l’atto normativo di fonte parlamentare mentre in quelli di common law coincide con il diritto obiettivo. Le trasformazioni avvenute nel contesto della democrazia reale hanno concorso ad indebolire la ratio democratica della riserva di legge. Il crepuscolo della centralità del Parlamento e la sua crescente difficoltà a costituire luogo istituzionale di esercizio di razionalità discorsiva; l’eccessivo ricorso a fonti normative di derivazione governativa; l’affievolirsi della capacità progettuale e dell’attitudine innovativa della politica, hanno avviato un processo di progressiva dissoluzione del principio di legalità. Di più, è in corso un processo di metamorfosi del diritto di produzione legislativa, che trova la sua più chiara espressione nell’impatto della normazione di fonte europea e nella conseguente limitazione della sfera di libertà della politica. La crisi del principio di legalità si disvela anche riguardo ai rapporti tra la legge e la giurisdizione, allorché si consideri l’esigenza di circoscrivere la sfera dell’attività ermeneutica nei confronti della dimensione normativa che la legge deve delineare. La giurisprudenza ha assunto un ruolo sempre più di primo piano, cui è derivato un rafforzamento della funzione creativa – in senso lato – dei giudici anche per quanto riguarda il diritto penale, nonché la corrispondente limitazione dell’impatto effettivo dei principi della riserva di legge e della tassatività. Cfr. Paola Scevi, La crisi della legalità nel diritto penale. Progressiva dissoluzione o transizione verso una prospettiva di crescita?, in Archivio Penale, Fascicolo n.3 – Settembre -Dicembre 2017.
[4] La riserva di legge e, con questa, la certezza del diritto sono garanzie in profonda crisi. Se la crisi è provvisoria, e dovuta a cause contingenti, ben individuate, si deve intervenire su queste cause. Al contrario, se il principio di legalità è tramontato, senza possibilità di recupero, per i mutamenti degli assetti istituzionali, perché la crisi è strutturale, si debbono trovare soluzioni che garantiscono la rappresentanza democratica anche e soprattutto a tutela della libertà personale. La riserva di legge ha infatti le sue fondamenta in un preciso contesto storico che è caratterizzato dai pilastri dello Stato ottocentesco: A) la supremazia del Parlamento rispetto ad ogni altro potere; b) la sostanziale omogeneità culturale tra politici e funzionari dello Stato, compresi i magistrati; c) la sovranità degli Stati nazionali, ed in particolare dell’Italia nata dal Risorgimento. Tutte queste situazioni, oggi, sono venute meno. Con l’avvento della borghesia al potere, la nuova classe dirigente ha tenuto per sé il monopolio nel dettare le regole che governano la vita dei cittadini, ed in particolare quelle che toccano la libertà e la proprietà. Gli strumenti sono stati il Parlamento e la legge. È attraverso il Parlamento che la nuova classe emergente, alla fine del’700, è arrivata al potere, ed è in quella sede che lo ha esercitato. Cesare Beccaria – al riguardo – scriveva nel “Dei delitti e delle pene”: “Le sole leggi possono decretare le pene sui delitti, e quest’autorità non può risiedere che presso il legislatore che rappresenta tutta la società unita”. La legge, infatti, è rappresentata, ed è vista come la più alta forma di legittimazione del potere. Molte sono state però le cause che, negli anni, hanno messo in crisi la rappresentatività del Parlamento. Tra queste vi sono stati: gli scandali giudiziari, già a partire dai primi del’ 900, ma aggravatisi negli anni ’90; la incapacità di garantire il benessere e la sicurezza dei cittadini dei cittadini; i sistemi elettorali che hanno trasformato le camere “elettive” in camere “nominative”; la decadenza della classe politica, soprattutto a partire dagli anni più recenti. La crisi di rappresentatività ha portato con sé lo sfaldamento del principio di legalità. Altra causa di sfaldamento della riserva di legge è stata la nascita dei poteri sovranazionali. Alle sue origini, infatti, la legalità si saldava intimamente con il principio di sovranità degli Stati nazionali. L’inserimento del nostro ordinamento nelle istituzioni europee, le cessioni di sovranità che ciò ha comportato, i vincoli che ne sono derivati, hanno intaccato il nesso della legalità con la sovranità statuale. Sul legislatore gravano, attraverso le direttive e le decisioni quadro dell’UE e i regolamenti comunitari, vincoli di tale portata e intensità da elidere la legge penale nazionale nelle materie di volta in volta investite dalle fonti comunitarie, o da ridurla ad una fonte sostanzialmente derivata. Per di più, l’interpretazione della legge nazionale non è solo tenuta a uniformarsi alle fonti europee, ma anche alla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo intesa come vera e propria fonte del diritto. Cfr. Gaetano Pecorella, La crisi della legalità come crisi della democrazia rappresentativa, in Diritto penale e Processo n. 7/ 2018 pp. 945-947.
[5] Il degrado subito dalla fonte parlamentare appare infatti vistoso e inarrestabile. Non siamo in presenza di un problema tecnico, di un legislatore che è venuto meno all’obbligo della chiarezza e precisione del linguaggio, difetti che potrebbero essere ragionevolmente sanati. Il problema è politico e istituzionale, e nulla sembra poterci riportare alle origini, con una magistratura che rinunci al suo ruolo di potere al di sopra di ogni altro potere, o con il ritorno alla piena sovranità degli Stati nazionale. Una legislazione più chiara, meno ondivaga, sicuramente vincolerebbe di più i giudici, ma lo spazio di potere che hanno conquistato con la interpretazione creativa, soprattutto da parte della Corte costituzionale, è un territorio a cui difficilmente la magistratura potrebbe rinunciare. Essendo questa la realtà, l’unica cosa che può farsi è semplicemente prendere atto che la natura della crisi è tale che essa appare irreversibile, che si è aperta una nuova era per il diritto penale, e che le regole dell’ottocento sono oggi definitivamente tramontate. Cfr. Gaetano Pecorella, La crisi della legalità come crisi della democrazia rappresentativa, in Diritto penale e Processo n. 7/ 2018 pp. 947-948.
[6] L’idea stessa di riserva di legge nasce in funzione della tutela della libertà dei consociati che attraverso il controllo politico scelgono coloro che potranno limitare il loro diritto in funzione del bene comune. Ciò non vale, per i giudici, che sono reclutati per concorso, e sono politicamente irresponsabili. È necessario, allora, ristabilire un rapporto tra esercizio del potere dei magistrati e rappresentanza democratica. La nostra Costituzione non rifugge dall’idea che il giudice possa provenire anche per elezione dal corpo sociale, benché ne limita l’ammissibilità ai soli magistrati onorari per le funzioni attribuite ai giudici singoli (art. 106, comma 2). Altri sistemi giudiziari, di antica democrazia, come quelli di common law, a cui il nostro ordinamento va sempre più assomigliando, hanno scelto il giudice elettivo come fonte di garanzia per i consociati. Così l’ordinamento statunitense o affida alle assemblee legislative, diretta emanazione della volontà dei consociati, il potere di nomina dei giudici, ovvero devolve direttamente alla collettività l’autorità decisionale in materia mediante procedure elettive altamente differenziate da Stato a Stato.
[7] La futuristica ipotesi non sembra essere completamente inconferente da ogni riferimento sistemico giacché la Costituzione attualmente ne consente la previsione limitata solo ai giudici onorari (art. 106 comma 2 Cost).
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