Nella sua formulazione originaria l’art. 425 c.p.p. subordinava la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere all’evidenza della prova idonea a giustificare il proscioglimento. La giurisprudenza nella prassi applicativa prevedeva quindi che in caso di dubbio sulla colpevolezza dell’indagato il G.U.P. dovesse emettere il decreto che dispone il giudizio. In questo modo l’udienza preliminare costitutiva un filtro poco incisivo e per questo motivo il legislatore nel 1993 ha soppresso la parola “evidente” dal dettato normativo dell’art. 425 c.p.p. Nonostante ciò, sono sorti diversi dubbi sull’interpretazione della norma che hanno portato all’intervento della Corte Costituzionale.
I giudici delle leggi hanno affermato il principio di diritto secondo il quale il legislatore ha nettamente distinto la sentenza di assoluzione, prevista dall’art. 530 c.p.p., da quella di proscioglimento pronunciata all’udienza preliminare “sotto il profilo dei differenti elementi strutturali che caratterizzano i corrispondenti giudizi”. Mentre infatti le decisioni risulterebbero “di sostanziale simmetria” nel caso di prova dell’innocenza, nel caso di prova insufficiente o contraddittoria esse divergerebbero sul piano funzionale. Secondo la Corte Costituzionale la sentenza di non luogo a procedere, infatti, anche dopo le modifiche dell’art. 425 c.p.p., è una sentenza di tipo processuale, destinata a paralizzare la richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero solo nel caso in cui il giudizio non potrebbe apportare elementi utili per superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà della prova. L’intervento della Corte Costituzionale ha reso necessario un ulteriore intervento legislativo e, difatti, con la legge 479/1999 è stato modificato l’art. 425 c.p.p. stabilendo che il giudice dell’udienza preliminare deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti sono insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Anche dopo la novella del 1999, tuttavia, la giurisprudenza ha continuato a sostenere che il sindacato del giudice dell’udienza preliminare deve fondarsi sulla valutazione della possibile inutilità del dibattimento. In questo modo è stato vanificato l’intento del legislatore di dare all’udienza preliminare un ruolo di filtro efficace. Proprio per questo motivo il legislatore è nuovamente intervenuto, con la recente riforma del codice di procedura penale, modificando la regola di giudizio dell’udienza preliminare. La novella legislativa prevede che il giudice dell’udienza preliminare deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna. Tale valutazione dovrebbe portare il giudice dell’udienza preliminare ad esaminare nel merito gli elementi contenuti nel fascicolo del pubblico ministero disponendo il rinvio a giudizio solo nel caso in cui gli elementi di prova a carico dell’imputato hanno una valenza tale da lasciare prevedere come “ragionevole” la sua condanna. Tale valutazione, a giudizio di chi scrive, dovrebbe essere effettuata hic et nunc, senza che il giudice possa fare affidamento su possibili ed eventuali sviluppi dibattimentali favorevoli all’ipotesi accusatoria. La modifica della regola di giudizio dell’udienza preliminare, qualora fosse correttamente applicata, potrebbe avere un efficace effetto deflattivo evitando la celebrazione di processi basati sulla suggestiva ipotesi che gli sviluppi dibattimentali potrebbero portare alla pronuncia di una sentenza di condanna. La ratio della novella è quella di conferire all’udienza preliminare un’effettiva funzione di filtro e di valutazione della fondatezza dell’ipotesi di accusa. Per questo motivo il criterio della ragionevole previsione di condanna dovrebbe essere assimilato a quello cui si deve attenere il giudice di merito che può pronunciare sentenza di condanna solo se l’imputato risulti colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”. Del resto, la scelta di utilizzare il medesimo aggettivo (ragionevole) nel testo dell’art. 425 comma 3 c.p.p., associandolo alla previsione di condanna, dovrebbe essere letta come indice della volontà del legislatore di imporre la formulazione di una prognosi «plausibile» e «concreta» sulla futura affermazione di responsabilità dell’imputato. Quindi, il giudice dell’udienza preliminare, di fronte ad un quadro probatorio insufficiente o contraddittorio, dovrebbe «ragionevolmente» prevedere uno sviluppo dibattimentale favorevole all’accusa solo quando è in grado di elaborare un concreto programma istruttorio capace di condurre all’integrazione della prova necessaria per la condanna dell’imputato. Dunque, il presupposto per la celebrazione del dibattimento non dovrebbe essere rinvenuto nella sua astratta utilità, cioè nell’ipotetica sopravvenienza di non chiare risultanze istruttorie, ma il giudice dovrebbe avere a sua disposizione dati conoscitivi che consentano di delineare concretamente il percorso probatorio attraverso il quale si potrebbe arrivare ad una sentenza di condanna. Si pensi, ad esempio, alla chiamata in reità o in correità, i cui riscontri, sebbene non ancora acquisiti, siano già individuabili al momento della pronuncia sulla richiesta di rinvio a giudizio. In tale prospettiva, potrebbe essere utile il preventivo ricorso agli strumenti integrativi di cui agli artt. 421-bis e 422 comma 1 c.p.p. Il giudice, prima di prosciogliere l’imputato per la carenza o la discordanza degli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini preliminari, potrebbe valutare l’opportunità di completare il compendio investigativo ed all’esito dell’eventuale attività integrativa, potrebbe dare atto, con la sentenza ex art. 425 comma 3 c.p.p., della non emendabilità del deficit probatorio. In sostanza, la nuova regola di giudizio dovrebbe imporre al giudice di basarsi su dati probatori concreti, costituiti da elementi già presenti nel fascicolo delle indagini preliminari o che potrebbero essere acquisiti in dibattimento, ma pur sempre sulla scorta dei dati conoscitivi ricavabili dalle indagini espletate. Al giudice dell’udienza predibattimentale, invece, non sono stati attribuiti i poteri di integrazione probatoria di cui agli artt. 421-bis e 422 comma 1 c.p.p.. Tale vuoto normativo dovrebbe essere colmato consentendo anche al giudice dell’udienza predibattimentale di disporre un’attività integrativa di indagine quando non ritenga completi gli atti di indagine. Secondo l’attuale formulazione della norma, difatti, il giudice dell’udienza predibattimentale non potrebbe attivare i poteri istruttori officiosi e dovrebbe seguire la vecchia regola prognostica dell’utilità del dibattimento. Ciò finirebbe per frustrare la ratio della riforma poiché il vaglio preliminare sull’esercizio dell’azione penale, almeno nei casi di citazione diretta a giudizio, ritornerebbe ad essere basato su sterili prognosi astratte, con la conseguenza di avere un filtro predibattimentale meramente dilatorio. È innegabile, tuttavia, che la portata innovativa della nuova regola di giudizio resta affidata alla sensibilità del singolo giudicante, a cui si chiede innanzitutto di resistere alla tentazione di scaricare sul dibattimento la definizione della vicenda processuale poiché il provvedimento di rinvio a giudizio costituisce l’opzione più comoda. Lo spirito della riforma non sembra ancora essere entrato nelle aule di giustizia perché la giurisprudenza di merito continua ad essere ancorata al criterio dell’astratta utilità dell’accertamento dibattimentale. In questo modo è stata ancora una volta vanificata la novella dell’art. 425 c.p.p. tanto da potersi affermare che la riforma Cartabia rappresenta l’ennesima occasione perduta per conferire dignità all’udienza preliminare. La vera riforma, forse, sarebbe stata quella di imporre la motivazione, seppure succintamente, del decreto che dispone il giudizio.
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Avv. Alfredo Arcorace
Avvocato penalista del Distretto di Locri
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