1. Premessa. L’autonomia del processo di prevenzione. Prima di dire qualcosa sulla prova nel processo di prevenzione, è necessario fermare l’attenzione sulla autonomia di tale processo e sul sistema che esso propone. Si tratta di fermare concretamente l’attenzione sulla esistenza un marchingegno autonomo rispetto ad ogni altro processo per trarne, poi, tutte le conseguenze che ciò comporta.
L’attenzione al fenomeno processuale di prevenzione rimane spesso insoddisfatta e, nonostante si proclami ad ogni dove l’autonomia del processo di prevenzione, al processo penale, comunque, sempre si guarda e ad esso ci si riferisce, auspicando, sovente, una sorta di assimilazione delle forme che, forse proposta sulla falsariga dell’assimilabilità delle misure di prevenzione alle misure di sicurezza, dimentica quanto autonomo sia il processo di sicurezza rispetto al processo penale e, in ogni caso, come qualsiasi paragone o confronto debba tenere conto di quella che a buon conto può dirsi l’ontologia del fenomeno considerato.
Il processo di prevenzione è una branca del diritto processuale che ha raggiunto un tale stadio di esclusività da determinare che l’intrinseca autonomia e l’indipendenza di esso rispetto a qualsiasi altra forma di accertamento giurisdizionale imponga, prima ancora di alcun paragone o confronto, la considerazione in termini sistematici della materia che esso propone. Proprio tale considerazione, però, pare mancare compiutamente, finanche nella prospettazione di un metodo di studio e di ricerca che abbia come momento di attenzione la proclamata autonomia. Si registra, infatti, nell’atteggiamento, tanto della dottrina, quanto della prassi, un curioso esempio di evidente contraddizione laddove, pur riconoscendo ed affermando la autonomia (e l’esclusività) della giurisdizione di prevenzione rispetto al processo penale, da ciò sembra non si riescano a trarre le dovute conseguenze: prima tra tutte, che tutto ciò che è autonomo ed esclusivo è, appunto per ciò solo, meritevole di considerazione e di studio per ciò che è, a prescindere da qualsivoglia considerazione secondo criteri di assimilazione o di distinzione rispetto ad altro rispetto ai costituti fondamentali del diritto processuale.
È necessario prendere atto che la prevenzione – così come la repressione – riguarda tutto ciò che l’ordinamento predispone per evitare che un comportamento contrario alla legge si verifichi. Essa, quindi, come la repressione, riguarda qualsiasi branca dell’ordinamento, ma – e pare essere questo il punto meritevole di attenzione – esclusivamente in senso proprio è considerata dalla legge sulle misure di prevenzione che ha predisposto alla bisogna un meccanismo processuale ad hoc.
Per altro, l’autonomia del processo di prevenzione rispetto al processo penale è un dato positivamente acquisito, non soltanto perché ha un preciso referente normativo nell’art. 29 del d.lgs. n. 159 del 2011 (“L’azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente dall’esercizio dell’azione penale”), ma perché, da tale dato, anche se malamente collocato, si dipana un sistema di norme che, dalla facoltà (e non dall’obbligo) di azione, attraverso l’individuazione della particolare competenza territoriale, della specializzazione e dell’esclusività del giudice prevista dall’art. 7 bis, co. 2 sexies dell’Ordinamento giudiziario e delle pur grossolane (e, quindi, in tutti i sensi e modi duttili) forme del procedere, fino alle decisioni e alle diverse nature che le caratterizzano, costituisce una entità a sé stante, non solo rispetto al processo penale ma rispetto a qualsivoglia altro processo di accertamento previsto dall’ordinamento[1], paragonabile soltanto, sia pure in maniera molto approssimativa, a quella entità processuale a sé stante che, nell’ordinamento tedesco, è costituita dall’Ordnungswidrigkeiten, ovvero il Diritto Amministrativo Punitivo[2].
Il processo di prevenzione ha un oggetto ben definito, è affidato ad una giurisdizione esclusiva[3], ha forme proprie. È tempo, dunque, che si tralascino quelle facili equazioni con le forme del processo penale che rischiano di risultare fuorvianti rispetto al necessario confronto che ogni sistema processuale deve avere, non con questo o quest’altro sistema processuale al quale può attingere in caso di lacune secondo il criterio proprio dell’applicazione analogica, ma con i principi e le regole che costituiscono i fondamenti di ogni procedimento giurisdizionale: la terzietà del giudice, la parità delle parti, il contraddittorio, la decisione sottoposta al vaglio di correttezza formale e sostanziale.
Con tali regole e principi il sistema del processo di prevenzione si deve confrontare, al fine di individuare, non soltanto le non poche deficienze che lo connotano in proposito ma, per converso, tutte quelle possibilità che un tale processo grezzo offre rispetto ad un processo ingessato sullo strapotere del pubblico ministero qual è, ormai, il processo penale. In questa prospettiva, il riferimento – a volte pedante – al sistema processuale penale non considera quanto, esemplarmente in punto di parità effettiva delle parti e di definizione dei poteri soltanto a seguito dell’esercizio dell’azione, sia proprio il processo penale a risultare deficitario rispetto al processo di prevenzione, più prossimo, per certi versi, al più equo processo civile.
La considerazione della autonomia del sistema del processo di prevenzione comporta, inevitabilmente, conseguenze consone. E se il rispetto delle regole del processo ai costituti fondamentali individuati dalla Carta costituzionale e dalle fonti sovranazionali è fuori discussione, proprio di quelle altre regole dei sistemi processuali civile e penale che possono essere analogicamente applicate al processo di prevenzione bisogna tener conto, ma – si ripete – non già al fine di assimilazione o di mero confronto, bensì allo scopo di normalizzare il processo, armonizzandolo ai costituti fondamentali.
Lo strumento processuale di prevenzione, per la evidente grossolanità delle disposizioni – quasi un mero abbozzo più che un impianto definito – consente spazi di studio, di azione e di confronto pressoché infiniti. Su tale piano, l’attività della scienza e della prassi non può fermarsi a far leva su questa o quella similitudine di situazioni che, avendo sempre come modello di riferimento il processo penale, se per un verso impedisce di cogliere e sviluppare appieno le potenzialità offerte dal processo di prevenzione, per altro verso, rischia di recepire quei macigni enormi che, ogni giorno di più, impediscono di definire il processo penale come un effettivo processo di parti.
- La prova: approccio al tema e ambiti di indagine. Il terreno della prova, nella prospettiva delineata, consente ambiti di riflessione importanti, non soltanto perché l’assenza di una regolamentata attività di indagine preliminare alla proposta e la centralità del giudice paradossalmente impediscono quegli abusi consentiti alla parte pubblica nella gestione del materiale probatorio che connota il processo penale, ma perché le poche norme esistenti – l’art. 7, co. 4 bis e l’art. 10, co. 1 bis del d.lgs., n. 159 del 2011 – consentono di contenere il richiamo di cui all’art. 7, co. 9, d.lgs. cit., alle norme sul processo di sorveglianza, aprendo allo stesso tempo possibilità pressoché infinite in punto: a) di mezzi di prova rispetto all’oggetto dell’accertamento; b) di modalità di acquisizione della prova; c) di limiti alla utilizzazione della prova.
Il co. 4 bis dell’art. 7 prevede che il tribunale, concluso l’accertamento sulla regolare costituzione delle parti, ammetta le prove rilevanti, escludendo quelle vietate dalla legge o superflue. Altre disposizioni dell’art. 7, in punto di istruzione probatoria, riguardano la facoltà dell’interessato di non rispondere (co. 6) e la possibilità del tribunale di escutere testimoni in videoconferenza nei casi e nei modi previsti dall’art. 147 bis, disp. att. c.p.p. (co. 8).
Si colgono, nella norma segnali inequivoci a dir della prova nel processo di prevenzione così come si dice della prova negli altri processi giurisdizionali e, in particolare nel processo penale e in quello civile. E, nonostante le prove siano tipizzate appena e non sussista alcuna classificazione di esse, né alcuna specifica indicazione sulla disciplina di assunzione, i limiti di utilizzabilità e i criteri di valutazione, la conclusione cui pare inevitabilmente si perviene è che le disposizioni di cui ai co. 4-8 dell’art. 7, nonché quella di chiusura prevista del co. 9, in lettura congiunta tra esse e, soprattutto, con gli artt. 111, co.1 e 2, Cost. e 6, par. 1 e 2, Conv.EDU, costituiscono la base normativa di un sistema della prova nel processo di prevenzione che non si propone in maniera diversa da qualsivoglia altro sistema processuale nelle sue linee essenziali di compimento e sviluppo che, dalla definizione degli oneri probatori, alla individuazione e indicazione della prova volge verso la acquisizione di essa, una volta ritenutane, secondo i noti criteri, la ammissibilità e la rilevanza ai fini della decisione.
Se così è – e non pare che possa fondatamente dubitarsi – pare che gli ambiti che interessano la prova nel processo di prevenzione non siano più costituiti dalla solita considerazione delle limitazioni relative ai mezzi e alle attività ancora riscontrabili nel procedimento di esecuzione e nel processo di sicurezza (o di sorveglianza). E ciò, perché, se i co. 4-8 dell’art. 7 cit. costituiscono previsioni espresse di una disciplina, rispetto alla quale non è più possibile applicare le norme di cui all’art. 666, c.p.p. (applicabili, a mente del co. 9 dello stesso art. 7 soltanto “per quanto non espressamente previsto dal presente decreto”), le stesse disposizioni, alla luce di quelle costituzionali e sovranazionali, rendono non più compatibili le disposizioni del cit. art. 666 (applicabili, infatti, soltanto “in quanto compatibili”, a mente del detto co. 9), in quanto manifestamente contrarie al sistema della prova nel processo di prevenzione[4].
- Gli oneri e gli obblighi probatori. Il diritto alla prova. Quanto sinora detto sembrerebbe risolvere il problema – in verità annoso – relativo alla distribuzione degli oneri che incombono alle parti rispetto a ciò che le stesse intendono provare e, con esso, il dubbio sull’esistenza, nel processo di prevenzione, di un vero e proprio diritto alla prova.
La conclusione – esatta nella prospettiva dell’inquadramento normativo – deve comunque fare i conti con la stratificazione delle esperienze che difficilmente consente che il tutto possa davvero risolversi con un tratto di penna o con una disposizione, almeno fino a quando la prassi, cogliendone ogni conseguenza, non si adegui. Fino a quando, infatti, si continuerà a parlare del processo di prevenzione come procedimento a seguito di quello penale e, quindi, ridotto nel suo svolgimento all’essenziale – in quanto, come si afferma, le poste in gioco nei due processi sono diverse – non pare possano cogliersi appieno, col senso della disposizione di cui al cit. co. 4 bis dell’art. 7, tutte le implicazioni che tale disposizione comporta, tanto in ordine al corretto svolgersi degli oneri probatori tra le parti e gli obblighi che incombono al giudice, quanto in ordine alla natura della violazione – e, quindi, alla illegittimità che ne consegue – nel caso in cui lo svolgersi del dialogo tra oneri delle parti e obblighi del giudice non sia corretto.
I punti fermi dai quali prendere le mosse sono costituiti: a) dal fatto che è la parte pubblica a dovere provare la pretesa che avanza; b) dal fatto che, conseguentemente, la parte privata (proposto o terzo interessato che sia) ha indubbiamente un potere di resistere che, però, non si esprime nella iniqua pretesa di fornire la prova del contrario; c) dal fatto che, comunque, il giudice può sempre richiedere alle autorità competenti, anche d’ufficio, tutti gli atti, i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno, procedendo, viepiù, anche alla citazione e all’esame dei testimoni e all’espletamento di perizie che ritiene, con l’unico limite della assunzione della prova nel rispetto del contraddittorio.
Quest’ultimo punto fermo da fondo al primo problema, in quanto nel processo di prevenzione, nonostante l’individuazione di un momento processuale nel quale si discute di prove, sussiste, così come nel processo di sicurezza, una legittimazione concorrente tra giudice e parti in ordine alla prova che si manifesta, appunto, nel potere del giudice di assumere nell’intero corso del procedere tutto ciò che ritiene. Il ruolo centrale che, così, riveste il giudice in ordine alla prova è indiscutibile e, con esso, è indiscutibile che ritorni, perfettamente in chiaro, il problema del contraddittorio, non già – è ovvio – in punto di assunzione della prova, ma in punto di ammissione di essa e di sviluppo successivo all’ammissione ex officio.
Rispetto alle direttrici proposte dalle decisioni della Corte EDU in merito al contraddittorio[5], – ma, se si vuole, rispetto allo stesso buon senso – è difficile ritenere che il potere concesso alla parte, soprattutto laddove esso si esplichi nella opposizione alla acquisizione, sia compatibile con la possibilità che il giudice, non soltanto escuta chi intenda, ma richieda ed acquisisca informazioni e notizie dai vari organi competenti, secondo un agire che si risolve in una strana forma di trasposizione della prova, rispetto alla quale nessuna opposizione è concessa alla parte.
La situazione riproduce (e ripropone) in sede di prevenzione il problema, mai risolto in sede di sicurezza, concernente l’accertamento dei fatti secondo parametri compatibili col sistema costituzionalizzato della prova: le informazioni, le notizie, i dati possono costituire, in sostanza, la base del convincimento del giudice ancorché non siano acquisite le relative fonti di riferimento, risolvendosi l’accertamento stesso nella mera elencazione di elementi da considerare in sé, a prescindere, cioè, dalla verifica stessa della fondatezza di essi. Evidente, allora, che nonostante si affermi che ai fini del giudizio non possono costituire elementi utili le informazioni generiche, quelle meramente assertori[6] e quelle che si limitino ad esprimere mere convinzioni[7], il tutto si risolva comunque nella valutazione di note e informazioni senza possibilità di verifica e approfondimenti rispetto al contenuto di esse stante l’assenza di alcuna previsione normativa espressa che imponga (e non soltanto consenta: conclusione che si potrebbe trarre dalla ratio sottesa alla disposizione di cui al co. 4 bis, cit.) l’escussione dell’autore di quelle informazioni o delle fonti in esse richiamate.
Non è tutto, purtroppo. Le problematiche di un sistema abbozzato in punto di effettiva ripartizione dell’onere probatorio e, conseguentemente, dei poteri del giudice si manifesta, infatti, in tutta la sua portata nel giudizio di prevenzione patrimoniale. Qui, le vaghe formule normative sono foriere di prassi che faticosamente tentano di darvi un senso, ovviamente col limite, proprio di qualsiasi conclusione interpretativa, quello di essere condizionata dal diverso ordine di valori e comunque dalle diverse impostazioni di metodo cui, per necessità di cose, ogni interprete si affida.
È noto che, secondo l’opinione comune, il sistema della prevenzione, soprattutto patrimoniale, è improntato a criteri presuntivi. I presupposti normativi dell’ablazione, però, sono tutti contenuti nella previsione di cui all’art. 24 d.lgs. n. 159 del 2011[8] e non pare che tale disposizione integri o giustifichi alcun giudizio presuntivo, nonostante l’infelice formulazione dell’incipit – il tribunale “dispone la confisca dei beni di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non sia in grado di giustificare la legittima provenienza” – pare effettivamente consentire che la pesante misura ablativa sia disposta, non sulla base degli elementi d’accusa circa l’origine illecita dell’accumulo patrimoniale, bensì in seguito alla mancata prova positiva del suo contrario da parte del proposto o dell’interessato.
È vero che la prassi ha sempre respinto ogni sospetto di difformità rispetto al quadro costituzionale di riferimento e negato che, nel caso, debba parlarsi di una vera e propria inversione dell’onere della prova. È parimenti vero, però, che la stessa prassi, prevedendo in capo al proposto o del terzo interessato un meno gravoso onere di allegazione di fatti e circostanze in grado di elidere gli elementi addotti dall’accusa, non ha adeguatamente previsto che, in tal caso, sia obbligo del giudice di dar corso alla acquisizione di quanto allegato e, viepiù, di individuare gli elementi da cui risulti (così la norma) l’origine illecita dei beni, evitando, così, che, nel concreto, la sottile diversità che intercorre tra onere di allegazione e onere della prova non si risolva in altro che nel mascherare l’essenza del vero problema, costituito dal criterio di ripartizione dell’onere probatorio e dagli obblighi che incombono al giudice in ordine a ciò che si allega.
Se, infatti, l’onere di allegazione si sustanzia nell’onere a carico della parte di attivarsi per introdurre nel processo i mezzi di prova utili a dimostrare un determinato fatto a sé favorevole, esso null’altro è che un onere di indicazione, per cui, nonostante sul piano meramente concettuale esso si possa distinguere dall’onere della prova vero e proprio, di fatto, tale onere probatorio sostanzialmente presuppone, sicché, rispetto al criterio di ripartizione della prova, la parte sulla quale l’onere grava subisce comunque gli effetti pregiudizievoli della mancata dimostrazione del fatto che intende provare. All’onere di indicazione, quindi, deve, per necessità di cose, far da contraltare l’obbligo del giudice di acquisire la prova – salvi i consueti limiti di ammissibilità – in quanto proprio in ciò si estrinseca quel diritto alla prova (ovvero il diritto di difendersi provando) che si esprime, appunto, con il diritto di allegare quanto si intende provare e di cui è chiara espressione normativa l’art. 7, co. 4 bis abbondantemente citato.
Ma se così è; e, quindi, se il mancato o inadeguato assolvimento dell’onere ricade negativamente sul soggetto che vuole provare, il mancato adempimento da parte del giudice della acquisizione della prova o della verifica della esistenza di quella allegata, oppure della ritenuta necessità di completezza, comporta inevitabilmente – e non soltanto per ciò che riguarda la prevenzione patrimoniale della quale sinora si è detto – la violazione della disposizione sulla prova, con tutto ciò che consegue in punto di legittimità del provvedimento, a prescindere da quanto normalmente si afferma in ordine alla scorrettezza in tal caso della motivazione di esso.
Considerata, infatti, la disposizione di cui al co. 4 bis come la regola di introduzione delle acquisizioni probatorie (e, si dirà meglio, della istruzione probatoria), ogni decisione che in maniera giustificata escluda la prova richiesta dall’ambito di ciò che, nel dire e contraddire, deve essere oggetto di accertamento compiuto o di controllo si porrà come violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 10 (e 27), d.lgs. n. 169 del 2011, senza la necessità di inseguire – come spesso accade, sempre ponendosi dall’errata prospettiva del processo penale come riferimento – la apparenza di motivazione integratrice della violazione di legge.
- La fase di ammissione della prova e la fissazione delle prove utilizzabili. Le conseguenze di ciò sono molteplici. Innanzi tutto, sulla necessità di definizione del panorama probatorio al fine della fissazione di quelle prove che, acquisite, possono essere utilizzate ai fini della decisione. Avere stabilito che, dopo la verifica della corretta costituzione delle parti si discuta delle richieste di prova impone, infatti, che lungi dal potere ritenere che tutto quanto fino a quel momento esistente nel fascicolo processuale, magari allegato alla proposta, sia di per sé patrimonio probatorio acquisito e, quindi, utilizzabile ex se.
La rivoluzione portata dall’introduzione del co. 4 bis nell’ordito dell’art. 7 del d.lgs. n. 159 del 2011 sta a significare proprio questo: il venir meno delle preconfezioni della prova e della diretta – si direbbe, immediata – utilizzabilità di esse ai fini del giudizio. Così come avviene nel processo penale e, soprattutto, nel processo civile – il quale, all’art. 183, destina addirittura più di una udienza per la fissazione delle prove e, ovviamente, delle controprove che le parti intendono acquisire – la fase successiva alla verifica regolare costituzione del rapporto processuale è destinata proprio a tale fissazione della prova, impedendo che il materiale potenzialmente probatorio esistente agli atti possa ritenersi acquisito d’emblée e, quindi, essere utilizzato. Così come in ogni altro processo, insomma, se la decisione si forma iuxta alligata et probata, è escluso che quanto esistente agli atti possa essere automaticamente utilizzato, dovendo, invece, esso passare attraverso il contraddittorio delle parti che è l’unico strumento processualmente individuato al fine dell’acquisizione del materiale probatorio.
A tal punto, due sono i problemi particolari che si pongono e che, nonostante investano direttamente il tema del materiale probatori utilizzabile, hanno il loro ovvio presupposto nella individuazione dell’ambito entro il quale si muove la fase della ammissione della prova: a) il primo, concerne la considerazione della proposta come prova; b) il secondo, concernente la sorte di quella massa di notizie che sono contenute nella proposta o negli atti ad essa allegati.
Il primo problema sorge, evidentemente, dal fatto che la proposta, di norma, si assume già acquisita e utilizzabile in sé e non già – come dovrebbe essere – quale mezzo propulsivo del giudizio e di introduzione della prova.
La risoluzione del problema sembra imporre la preliminare individuazione (ma forse si tratta della mera comprensione) della natura e della funzione della proposta nella sua qualità di atto propulsivo del processo. Se, infatti, non si comprende pienamente cosa sia la proposta, pare non possa completamente apprendere come il contenuto di essa, in sé considerato e senza che sulle informazioni ivi contenute sia svolta attività di acquisizione probatoria, non possa mai costituire prova, costituendo invece, in perfetta sintonia con la funzione propulsiva svolta dalla proposta, l’indicazione (neppure riepilogativa) delle prove che si intendono introdurre nel giudizio a sostegno della domanda.
Secondo schemi classificatori, la proposta altro non è che quell’atto propulsivo del giudizio che, nel processo civile, si definisce ricorso. Essa costituisce, infatti, la forma di una domanda che la parte indirizza al giudice, ovviamente al di fuori dell’udienza, al fine di provocare il giudizio. Se, dunque, nel processo civile, il ricorso assume precisamente la funzione di atto introduttivo del giudizio anche laddove si discuta di merito (così, esemplarmente, l’art. 414, c.p.c.), parimenti accade con la proposta nel processo di prevenzione. Come per il ricorso in civile, infatti, la proposta risulta priva della vocatio in iudicium (in quanto essa va depositata in cancelleria e spetta successivamente al giudice emettere un decreto di fissazione dell’udienza che sarà notificata d’ufficio al proposto e agli interessati) e, ancora così come nel processo civile il contenuto del ricorso deve osservare le prescrizioni di forma richieste in generale dall’art. 125, c.p.c., nel processo di prevenzione, la proposta, oltre a dovere essere indirizzata al giudice competente e contenere l’indicazione delle parti e le conclusioni, deve essere motivata, con ciò intendendosi necessariamente l’indicazione dell’oggetto e, per ciò che qui interessa, le ragioni della domanda, e, cioè, l’indicazione dell’insieme di quei fatti posti a fondamento della domanda stessa e, quindi, di quella situazione da cui deriva la fondatezza della pretesa dell’attore.
Se ciò è vero – e non pare possano insorgere dubbi in proposito – la proposta, pur contenendo l’alligazione di fatti (e, sovente, di giudizi) non può mai costituire in sé una prova o uno dei mezzi di prova, con la conclusione che al contento di essa il giudice non potrà giammai attingere al fine di giustificare la decisione adottata. Come accade per il ricorso (ma pure per la citazione) in civile, il contenuto della proposta, necessario al fine della fissazione della richiesta e dell’indicazione delle prove che la sorreggono, non può costituire di per sé prova (o, se più piace, essere mezzo di prova) per la molto semplice ragione che, se sul piano formale non può confondersi l’atto propulsivo del giudizio con alcun atto a valenza probatoria, sul piano della sostanza il petitum e la causa petendi non possono confondersi con la prova.
La conferma di ciò è data proprio dal tenore dell’art. 7, co. 4 bis del d.lgs. n. 159 del 2011, laddove, come già si è visto, la fase processuale successiva alla verifica della regolare costituzione delle parti è destinata all’amissione delle prove, da individuare evidentemente nella affermazione, per l’attore e nella negazione, per il proposto di quei fatti indicati nella proposta a fondamento della richiesta.
La risoluzione del secondo problema – quello della sorte degli atti allegati alla proposta – a tal punto pare discendere per li rami. Fermo restando che l’acquisizione di tali atti debba seguire necessariamente il contraddittorio sulla ammissione di essi, non par dubbio che, in un sistema giurisdizionalizzato, non è concepibile che il contraddittorio si risolva esclusivamente sull’amissione o meno di uno o più atti o documenti allegati alla proposta (ma lo stesso vale, ovviamente, laddove essi siano prodotti dalle parti nel corso del giudizio), senza che, ovviamente richiesto, su di essi si sviluppi compiutamente l’esame della fonte diretta delle informazioni contenute in quegli atti e in quei documenti, a meno che essi non siano decisioni giudiziali irrevocabili.
L’esperienza giudiziaria pone in luce come il processo di prevenzione spesso nasca e si sviluppi in simmetria temporale rispetto ad un processo penale. Lo sdoppiamento nelle due procedure, anzi, vede spesso lo stesso soggetto nella distinta veste di proposto e di imputato, chiamato a rispondere dei medesimi addebiti nella duplice e distinta qualificazione giuridica di fatto sintomatico di pericolosità sociale da porre a base dell’applicazione di una misura di prevenzione, e di fatto di reato corrispondente ad una determinata fattispecie incriminatrice, dal cui accertamento consegue (o può conseguire) l’irrogazione di una pena.
A tale parallelismo dei processi si accompagna la previsione di quella “sorta di osmosi probatoria” di cui ha detto autorevole dottrina[9] che comporta il possibile travaso dal processo penale degli atti ritenuti rilevanti per la definizione del processo di prevenzione, con una conseguente circolazione di elementi di prova che attua una vera e propria trasmigrazione di atti dal processo penale in quello di prevenzione. Tale possibilità – che trae fondamento dalle disposizioni, mai abrogate, contenute nell’art. 23 bis della l. n. 646 del 1982[10] – pone la questione della acquisizione dei giudizi emessi nel corso del procedimento e del processo penale (le ordinanze cautelari e i provvedimenti conseguenti: l’ordinanza del tribunale del riesame e la decisione della Corte di cassazione; le sentenze non definitive) e dei verbali delle prove ivi assunte.
In relazione alle decisioni cautelari e alle sentenze non definitive emesse nel processo penale, se, in linea di massima e salvo il rispetto contraddittorio, può ritenersi indubbia l’ammissibilità per altri fini (la dimostrazione dello stato di detenzione o l’intervenuta decisione nel processo), da ciò non pare potersi trarre la conclusione che, a meno di acquiescenza sul punto da parte di chi pure potrebbe richiedere verifiche e controlli, l’ammissibilità autorizzi sic et simpliciter l’utilizzazione del contenuto di decisioni che, pur facendo riferimento ad elementi di prova, altro non è che un giudizio allo stato. Se la norma di cui al cit. art. 7, co. 4 bis fa riferimento alle prove, di prove – o di elementi di prova – si deve trattare, non già di decisioni (di giudizi, cioè) che, siccome allo stato, dal punto di vista del documento altro non sono che il mero riporto (una summa) di fatti dai quali è scaturita una decisione che non è utilizzabile in sé, appunto perché superabile nel prosieguo del processo nel quale è stata emessa.
In tal caso – a meno, come si è detto, dell’acquiescenza dell’interessato sull’uso del contenuto della decisione – non par dubbio che lo sviluppo ordinato della prova nel giudizio di prevenzione comporti necessariamente l’esame diretto di quelle fonti di prova evocate a sorreggere le decisioni (i giudizi) penali non definitivi. In tal caso, infatti, così come in qualsiasi altra occasione nella quale è introdotta nel corso del giudizio documentazione contenente valutazioni di altra autorità giudiziaria o burocratica, il senso della autonomia del giudizio non può che esprimersi attraverso la acquisizione nel contraddittorio di quelle fonti di prova che hanno determinato la decisione giudiziale (ordinanza cautelare o sentenza non definitiva che sia) richiamata nella proposta o allegata ad essa e di tutte quelle altre fonti – si pensi agli accertamenti patrimoniali – che sono riportati nella proposta o alla stessa allegati.
Una delle più salienti manifestazioni del fenomeno della trasmigrazione di atti di cui si sta dicendo è quella regolata dagli artt. 238 e 238 bis, c.p.p.: la prima disposizione ammette, come è noto, l’acquisizione di verbali di prova formati in un diverso procedimento penale, qualora si tratti di prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento; la seconda, l’acquisizione delle sentenze irrevocabili.
Nulla quaestio sulla acquisizione e diretta valutazione di queste ultime nel processo di prevenzione, sia che siano decisioni definitive penali, sia decisione definitive civili, amministrative o tributarie, non pare che lo stesso possa dirsi per l’acquisizione dei verbali di prova, in quanto – ferma restando sempre l’acquiescenza dell’interessato che rende ovviamente possibile l’utilizzazione – a seguito dell’entrata in vigore della normativa recante disposizioni in materia di valutazione e di formazione della prova in attuazione dell’art. 111 Cost., non pare possa essere eluso il quesito concernente la possibilità della trasmigrazione dei verbali di prova dal processo penale a quello di prevenzione indipendentemente dall’osservanza delle condizioni previste dal nuovo co. 2 bis dell’art. 238, le cui prescrizioni – soprattutto la partecipazione del difensore all’atto probatorio da acquisire – risultano condizionare l’acquisizione.
Alla medesima conclusione – salvo quanto si vedrà in tema di inutilizzabilità della prova già dichiarata nell’ambito del processo nel quale è stata disposta – pare doversi pervenire per l’utilizzazione di qualsivoglia prova disposta o acquisita altrove. La necessaria assunzione delle prove altrove acquisite e utilizzate, infatti, a meno che esse non abbiano determinato una decisione definitiva incidente sul giudizio oggetto dell’accertamento di prevenzione, pare non potersi revocare in dubbio se, come detto, la lettera e la ratio dell’art. 7, co. 4 bis del d.lgs. n. 159 hanno un senso.
- I mezzi di prova: la sostanziale atipicità e le possibilità conseguenti. Assumere testimonianze (ovviamente senza i limiti segnati dagli artt. 2721- 2726, c.c.), acquisire tutte le prove documentali (e le riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712, c.c.), esaminare l’interessato, disporre accertamenti peritali, con tutto ciò che consegue in punto di esplicazione del potere di dire e contraddire delle parti sono attività probatorie che possono dirsi congeniali all’esistenza stessa di una istruzione che abbia il compito di acquisire al processo tutte le informazioni necessarie per decidere.
Nonostante ciò, l’assenza di una compiuta effettiva tipizzazione dei mezzi di prova – e, quindi, dei mezzi introduttivi delle informazioni utili al giudizio – è un dato che evidentemente sussiste; così come altrettanto evidentemente sussiste l’assenza del quomodo di acquisizione della prova. In relazione ad entrambi gli aspetti, può dirsi che la situazione ricorda quella atipicità considerata dall’art. 189, c.p.p. che riguarda proprio le prove non disciplinate dalla legge (“Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova”). E può dirsi, altresì, che, nel giudizio di prevenzione, la essenza polivalente del termine atipico si esprima in tutta la sua dimensione: come individuazione del mezzo, prima, e come individuazione del modo di assunzione, poi.
Fermando l’attenzione sui mezzi di prova, è chiaro che il tema della sostanziale atipicità dei mezzi di prova riverbera i suoi effetti sull’oggetto della prova, nel senso che l’ampiezza dei messi di prova, non definiti in maniera tassativa, può costituire uno degli aspetti (quello latamente definibile formale) di un tema, rispetto al quale, l’altro aspetto (che, sempre latamente, può definirsi sostanziale) è costituito dai fatti che si intendono dimostrare in relazione all’oggetto dell’accertamento demandato al processo. Nonostante, infatti, sia indubbio che la prova in qualsiasi sistema processuale, non riguarda fatti ma asserti[11], al fondo di ogni asserzione c’è sempre qualcosa che si assume essere avvenuta e qualcuno che si vuole l’abbia commessa o causata[12]. Ma, tutto ciò vero, non può non convenirsi su un punto: quello, secondo cui, tutti i passaggi di qualsivoglia sistema delle prove vanno visti alla luce della constatazione che il presupposto di una decisione è sempre costituito, non dalla prova, ma dalla domanda.
L’oggetto della domanda nel giudizio di prevenzione si concretizza nella pericolosità sociale di taluno e in tutto ciò che ruota intorno ad essa, attuale o passata che sia, ovvero soltanto direttamente o indirettamente rilevante ai fini della situazione pregiudizievole considerata dalla legge (si pensi alle ipotesi ex artt. 34 e 34 bis del d.lgs. n. 159) e se, così come in qualsivoglia altro processo, anche in quello di prevenzione è in re che, una volta posta l’asserzione, il thema probandum quod in judicium deductum costituisce il presupposto di qualsivoglia attività probatoria, è il contesto della decisione quello in cui si definiscono i fatti ai quali fanno riferimento le prove.
Proprio in relazione all’oggetto della domanda, a prescindere da quanto si dirà – riprendendo, in sostanza, concetti e definizioni noti – in tema di ammissibilità della prova, vanno segnalate le importanti possibilità che un sistema di prova atipico offre laddove si voglia compiutamente verificare l’oggetto della decisione. Se, infatti, le indicazioni normative consentono di individuare alcuni soltanto dei mezzi di prova e se, quindi, non pare affatto errato dire di assenza di un definito catalogo legale delle prove, in relazione all’oggetto del decidere il problema del se la sostanziale insussistenza di un tale catalogo (o, per meglio dire, la sussistenza soltanto di un abbozzo di richiamo di prove altrove tipizzate) costituisca un bene o un male nella prospettiva dell’oggetto dell’accertamento di prevenzione.
La soluzione del problema dipende (è ovvio) dal punto di vista dal quale ci si pone. Se si insisterà – lo si ripete, violentando il senso stesso dell’autonomia – sull’assimilazione tra processo di prevenzione e processo penale, è evidente che l’assenza di tipicità sembrerà un male. Se, invece, fermandosi a considerare l’oggetto dell’accertamento di prevenzione, si abbandonerà la prospettiva processuale penale, considerandola soltanto dove occorra a fini di tutela e garanzia delle posizioni soggettive, tale assenza sembrerà un bene. Chiaro, infatti, che la atipicità si riferisca all’assenza di individuazione precisa di tutti i mezzi con i quali si intende provare qualcosa, può dirsi che tale è, appunto, l’individuazione di ciò che si intende provare che, in relazione all’oggetto del processo di prevenzione, trovi nell’assenza di una specifica individuazione delle fonti e dei mezzi di informazione una importante sponda laddove, ad esempio, si vogliano introdurre prove che, pur variamente inquadrabili in quelle tipiche previste nei processi civile o penale (si pensi alla perizia e all’oggetto di essa nel caso concreto), trovano in tali processi limiti di ammissibilità che, intrinseci a quei sistemi processuali, sono del tutto estranei, invece, rispetto agli ambiti di accertamento pertinenti e rilevanti rispetto alla decisione di prevenzione.
Gli accertamenti personologici e criminologici sul soggetto costituiscono, ad esempio, ambiti di prova di assoluta rilevanza ai fini del giudizio oggetto del procedimento di prevenzione. La pericolosità sociale del soggetto, infatti, implica, secondo la qualificazione della materia e l’oggetto del giudizio, la necessità di indagini particolari sulla personalità del soggetto medesimo e, laddove sia richiesto, anche dei fenomeni sociali e criminali considerati rilevanti dalle disposizioni sostanziali che considerano le modalità di espressione di quella personalità.
Va considerato, in proposito, che, in punto di categorie soggettive rilevanti ai fini del diritto di prevenzione, l’art. 4, d.lgs. n. 159 considera gli indiziati di determinati delitti, taluni dei quali costituiscono espressione di fenomeni sociali deviati, rispetto ai quali – soprattutto, ma non solo – il termine indiziato non può risultare meramente ripetitivo della posizione che taluno può assumere in un processo penale. Se la pericolosità deve essere qualificazione di una attitudine, l’indagine sul fenomeno deviante a monte in relazione alla personalità del soggetto pare essere essenziale a prescindere dall’esistenza di un’indagine penale nella quale il soggetto sia indagato di taluno dei reati considerati dalla norma suddetta.
Lo stesso è a dirsi per la fattispecie concernente la appartenenza (tanto come partecipazione, quanto come concorso) del soggetto ad associazioni di tipo mafioso. Nonostante sia vero, infatti, che le associazioni di tipo mafioso, dalla prospettiva criminologica costituiscano l’espressione più oggettivamente apprensibile di quelle associazioni differenziali che, secondo Sutherland sono riferibili a soggetti che pongono in essere un “comportamento criminale sistematico posto in essere da individui che seguono un comportamento culturalmente approvato che però il resto della società disapprova”[13],, va adeguatamente esplorata la personalità del soggetto e l’effettiva sua dimensione criminologicamente rilevante, in quanto – è sempre Sutherland che lo afferma – il comportamento criminale è appreso mediante l’associazione con persone con cui si intrattengono rapporti intimi (la c.d. comunicazione interattiva), attraverso la quale, pur venendo apprese le tecniche necessarie a quello specifico comportamento criminale, questo non sempre si realizza come costante nell’agire del soggetto.
Il giudizio di pericolosità del soggetto, dunque, non può che passare attraverso l’indagine specifica su di lui al fine di verificarne l’effettiva propensione verso quelle culture delinquenziali di cui hanno detto Cohen[14], Cloward e Ohlin[15], Cressey[16], Glaser[17], teorizzatori, soprattutto questi ultimi, dello interazionalismo simbolico. Ma, se ciò costituisce l’oggetto dell’accertamento di prevenzione, pare indubbio concludere nel senso che le possibilità che consente, sin dalla mancanza tipizzazione dei mezzi, la scarsa regolamentazione probatoria della materia sono notevoli, costituendo, tali possibilità, l’aspetto positivo di quelle carenze che connotano di atipicità la prova in relazione all’oggetto dell’accertamento.
- L’assunzione della prova. La prova dichiarativa, in particolare, e gli scritti provenienti dal proposto e ai terzi. Per ciò che riguarda il modo di procedere in relazione all’assunzione della prova, va ripreso quanto detto a proposito della essenza polivalente del termine atipico di cui all’art. 189, c.p.p., in relazione alla individuazione del modo di assunzione della prova. Ammesso che, come si è visto, nulla esclude – anzi il contrario – che i mezzi di prova di cui può valersi il giudice possono essere di qualsiasi tipo (oltre le testimonianze, i documenti e l’esame delle persone interessate e le dichiarazioni che voglia rendere il proposto, anche la perizia, l’ispezione, la ricognizione, il confronto, l’esperimento giudiziale e ogni altro accertamento ritenuto necessario), tale possibilità dischiude l’essenza del problema, costituito dal rinvio operato al co. 9 dell’art. 7 all’art. 666, c.p.p. e, quindi, per ciò che riguarda l’assunzione probatoria, all’art. 185, disp. att. c.p.p. (“il giudice, nell’assumere le prove a norma dell’articolo 666,comma 5 del codice, procede senza particolari formalità anche per quanto concerne la citazione e l’esame dei testimoni e l’espletamento della perizia”).
Cosa significhi procedere “senza particolari formalità” è ben comprensibile, allo stesso modo di come è comprensibile che siffatta de-formalizzazione non riguardi soltanto l’esame dei testimoni e l’espletamento di perizia (specificamente indicati nella disposizione or detta), dovendosi estendere, per evidenti ragioni, a tutto intero il quomodo dell’acquisizione probatoria. Nonostante ciò, pare logico ritenere che il riferimento alle particolarità riferite alle formalità escluda che la disposizione possa essere interpretata nel senso di consentire l’assunzione della prova senza il rispetto, tanto di quei minima che il contraddittorio impone, quanto di quelle regole particolari che subordinano l’atto probatorio da assumere al rispetto delle formalità che garantiscono la tutela della persona apprestata dall’ordinamento e la tutela della genuinità della prova (e, quindi, esemplarmente, oltre alla libertà morale di cui all’art. 188, c.p.p., e, nel caso della testimonianza, alla verifica della capacità a testimoniare, alla facoltà di astenersi dal deporre e ai divieti di cui agli artt. 200 e ss., c.p.p., alle formalità preliminari alla ricognizione e alle incompatibilità in caso di perizia).
La stratificazione dell’abitudine di considerare che naturalmente il giudizio di prevenzione sia strutturato sulla cartolarità della prova pare dovere essere davvero abbandonata. Intanto, alla luce di quanto finora s‘è detto; poi, per le conseguenze da trarre, tanto per ciò che riguarda la previsione di cui al co. 8 dell’art. 7, cit. – che prevede la possibilità che siano sentiti i “soggetti informati sui fatti rilevati” –, quanto della riconosciuta applicabilità nel processo di prevenzione dell’art. 327 bis, co. 2, c.p.p. che, come è noto, riconosce la praticabilità di indagini difensive “per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito” (co. 1), “in ogni stato e grado del procedimento …”.
Chiaro, dunque, che la prova testimoniale, non solo è ammessa per previsioni che si diranno generali, ma perché è proprio tale genere di prova che consente l’effettivo esplicarsi del contraddittorio su quelle alligazioni documentali delle parti che comporterebbero (come in effetti comportato, secondo la prassi invalsa di privilegiare il dire e contraddire cartolare) la dilatazione temporale del contraddittorio e la sostanziale inefficacia di esso laddove, per necessità di esso, il tempo del dire e del contraddire rispetto alle alligazioni deve essere comunque definito.
Per l’assunzione della testimonianza, trovano applicazione per evidenti analogie: a) i limiti previsti dall’art. 194, c.p.p.; b) le disposizioni concernenti la testimonianza indiretta di cui all’art. 195, c.p.p.; c) le incompatibilità a testimoniare di cui agli artt. 196.197 bis, c.p.p.; d) gli obblighi previsti dall’art. 198, c.p.p.; e) la facoltà prevista dall’art. 199, c.p.p.; f) i divieti stabiliti dagli artt. 200-203, c.p.p., con la conseguenza che ove non venissero rispettati i limiti, i divieti, gli avvertimenti di cui alle norme or dette, nel processo di prevenzione si produrrebbero i medesimi effetti concernenti le patologie e le sanzioni processuali considerate dal codice di procedura penale.
Diversamente, nel processo di prevenzione, la prova testimoniale non pare potere sottostare ai limiti di ammissibilità previsti dalle disposizioni del codice di rito civile o, comunque, a quelli previsti delle leggi civili[18], eccettuati, ovviamente, quelli che riguardano lo stato di famiglia e di cittadinanza (art. 193, c.p.p.). In considerazione di ciò, pare indubitabile la conclusione cui è pervenuta la prassi in tema di prevenzione patrimoniale, allorquando ha affermato che “la prova della donazione dei beni immobili non soggiace ai limiti di ammissibilità previsti dalla disciplina civilistica per le prove dichiarative e, pertanto, può essere fornita anche mediante testimonianze”[19].
Tale conclusione, anzi, consente di considerare in modo più approfondito i termini della testimonianza nel processo di prevenzione, soprattutto in tema di conseguenze sanzionatorie laddove, essa, non venga ammessa. In proposito, possono essere riprese le conclusioni alla quali è pervenuta una illuminata decisione di legittimità[20] che, dopo avere puntualmente considerato la questione della prova nel processo di prevenzione dall’ottica del diritto di difendersi provando anche ala lice della giurisprudenza della Corte EDU, ha espresso due principi di diritto di indubbio rilievo: a) il primo, secondo cui “nel procedimento di prevenzione, né la sua natura speciale rispetto al processo penale, né esigenze di speditezza nella trattazione e di più agevole consultazione degli atti, consentono di ritenere vietate le prove dichiarative, specie se queste costituiscano l’unico strumento a disposizione del proposto o dei terzi per superare un giudizio presuntivo e quindi per avvalersi del diritto di difesa rispetto alla contestazione di pericolosità o di illecita accumulazione di ricchezza; e neppure è consentito subordinarne l’ingresso nel processo di prevenzione secondo una sorta di gerarchia delle prove che orienta le scelte decisionali all’ammissione degli atti già costituiti e solo in via residuale anche delle testimonianze o di altre prove diverse a condizione che i primi vi offrano almeno un parziale riscontro”; b) il secondo, per il quale “il terzo interessato chiamato a partecipare al procedimento per la applicazione di misure di prevenzione, compresa la confisca con effetti ablatori definitivi del diritto di proprietà e destinatario della presunzione relativa di fittizia intestazione di beni in realtà riferibili al proposto, può dedurre col ricorso per cassazione il vizio di violazione di legge in caso il provvedimento impugnato non offra alcuna motivazione al rigetto delle istanze istruttorie, o la motivazione sia in contrasto con la disciplina positiva e con i principi del contraddittorio e del diritto alla prova ed alla controprova”.
Per ciò che riguarda le forme attraverso le quali l’esame testimoniale deve svolgersi, una prima conclusione di massima pare discende de plano dalle conclusioni alle quali si è pervenuti a proposito dell’applicazione analogica degli artt. 194 e ss., c.p.p., nel senso che, se per ciò che riguarda l’acquisizione e gli accorgimenti previsti dalle norme or dette sono applicabili al processo di prevenzione, non v’è ragione di non ritenere applicabili pure le forme di assunzione della testimonianza stabilite dagli artt. 497 e ss., c.p.p., in tema di giuramento del testimone (salvo che si tratti di persone indagate o imputate col proposto in un processo penale, nel qual caso devono essere rispettate le garanzie fissate dal c.p.p.) e di esame, controesame e contestazioni, sia pure, in relazione a ciò, con gli accorgimenti necessari visto che è il presidente del tribunale a condurre l’esame, ma sempre e comunque nel rispetto dei divieti apprestati dall’art. 499, c.p.p.[21]. Diversamente opinando, infatti, si verrebbe a determinare una ingiustificata differenziazione (non già, come potrebbe pensarsi, tra processo penale e processo di prevenzione, ma) tra regole applicabili all’interno del medesimo processo, determinandosi, quindi, una sorta di irragionevole abbondono dell’unitarietà delle forme del procedere con le ovvie ricadute in tema di mancato rispetto della conformità dello stesso procedere ai canoni costituzionali e sovranazionali del giusto processo.
Si è appena detto che l’esame, pur condotto dal presidente, deve essere rispettoso dei divieti previsti dall’art. 499, c.p.p.: di quei divieti, cioè, concernenti la formulazione di domande che possono nuocere alla genuinità delle risposte. Queste – è noto – constano, tanto delle domande c.d. suggestive – tali essendo quelle che tendono a suggerire al teste la risposta ovvero forniscono le informazioni necessarie per far rispondere il teste secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso la semplice conferma –, quanto delle domande c.d. nocive, finalizzate, cioè, a manipolare il teste, fuorviandone la memoria, poiché gli forniscono informazioni errate e falsi presupposti tali da minare la stessa genuinità della risposta. La disposizione del codice di procedura penale, è ovviamente riferita all’esame dalla parte che ha chiesto l’esame, ma è evidente che, come condivisibilmente osservato dalla giurisprudenza di legittimità, se il divieto di formulare domande che possono nuocere alla genuinità della risposta è espressamente previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste – in quanto tale parte è ritenuta dal legislatore interessata a suggerire al teste risposte utili per la sua tesi – “a maggior ragione, detto divieto deve applicarsi al giudice al quale spetta il compito di assicurare, in ogni caso, la genuinità delle risposte ai sensi del comma 6 della medesima disposizione”[22].
Tale conclusione, come è facile intendere, non può non trovare spazio nel processo di prevenzione. Se, infatti, l’art. 499 indica i criteri cui il giudice deve attenersi nell’ammettere o vietare le domandi, vietando in maniera assoluta le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte, e se, come si è visto, il divieto di porre tal genere di domande a fortiori si estende anche al giudice nel processo penale, esso non può che riproporsi e riaffermarsi laddove è il sistema ad imporre che l’esame sia condotto esclusivamente dal giudice. In tal caso, infatti, il giudice sostanzialmente assomma i poteri di fare domande attribuiti alle parti con tutto ciò che ne consegue in ordine ai divieti opposti dalla legge alle parti[23].
L’esame dell’imputato è previsto dall’art. 7, co. 5 e 6 del d.lgs. n. 159. Secondo il co. 5, “l’udienza è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell’interessato che ha chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice”; secondo il co. 6, “ove l’interessato non intervenga e occorra la sua presenza per essere sentito, il presidente lo invita a comparire, avvisandolo che avrà la facoltà di non rispondere”.
Le disposizioni or detta, sia pure con la grossolanità espressiva che di solito denota interesse più alla salvaguardia delle forme che alla definizione della sostanza, consentono di configurare l’esame del proposto come mezzo di prova rimesso alla disponibilità della parte. Conseguentemente, qualora detto esame sia richiesto ed ammesso, ovvero ritenuto necessario, il proposto deve manifestare il suo interesse alla effettiva assunzione dello stesso.
In sostanza, nel processo di prevenzione si ripropone la medesima situazione prevista per l’esame dell’imputato nel processo penale, con la conseguenza che esclusivamente laddove il proposto non affermi il suo interesse a rendere l’esame, l’omissione di esso può comportare conseguenze giuridicamente rilevanti[24].
Tanto il proposto, quanto gli interessati (art. 23, co. 3, d.lgs. n. 159 del 2011), nel corso del giudizio possono rendere le dichiarazioni che più ritengono utili alla loro difesa. Tale facoltà, però, sembra atteggiarsi in maniera diversa per il proposto e per gli interessati, dovendosi ritenere, per la posizione che questi ultimi assumono una volta costituiti in giudizio che la loro intenzione di rendere dichiarazioni corrisponda più ad un esame che non a quelle dichiarazioni spontanee che il proposto, così come l’imputato nel processo penale ai densi dell’art. 494, c.p.p., può rendere nel corso del giudizio.
Se è indubbio, infatti, che, diversamente dall’esame, le dichiarazioni che il proposto può rendere liberamente non rientrano nel novero dei mezzi di prova o delle prove dichiarative ma attengono essenzialmente alla sua difesa, così sembra non essere nel caso delle dichiarazioni dei terzi che possono fornire informazioni rilevanti, svolgendo, anche in tal modo, le loro difese così come previsto dal cit. art. 23. Il fatto che per costoro non sia previsto l’esame come invece accade per il proposto (che, come si visto è sentito quando è necessario e se vuole), non sembra incidere sulla assimilabilità della dichiarazione del terzo interessato – che può, da sola, risolvere la sua posizione e anche l’oggetto dell’accertamento – ed essere inquadrata più come mezzo di prova che come strumento di difesa. Le dichiarazioni degli interessati sono funzionali a raccogliere elementi di prova; a consentire, quindi, l’introduzione nel processo di dati che, come si diceva, possono risultare provati dalla stessa dichiarazione (si pensi all’ammissione dell’esistenza di un rapporto o di un negozio simulati) che, quindi, così come l’esame del proposto è, appunto, mezzo di prova.
In tema di prove, un accenno va fatto alla acquisizione di quelle costituite dagli scritti provenienti dal proposto o dai terzi interessati, intendendosi col termine scritto qualsiasi documento di qualsiasi natura (si pensi alle lettere) formato dal proposto o dal terzo interessato[25]. Rispetto a ciò, pare potersi dire che, mentre gli scritti provenienti dal proposto sono sempre acquisibili, anche d’ufficio, al processo, diversamente deve ritenersi per gli scritti provenienti dai terzi interessati.
Se, infatti, per gli scritti provenienti dal proposto – tanto laddove siano stati formati al fine del giudizio, quanto laddove invece siano precedenti all’attività processuale e, quindi, portati alla cognizione del giudice a seguito di qualsivoglia attività di reperimento che non sia in sé vietata – si verifica, nella sostanza, quanto previsto (e disciplinato) dall’art. 237, c.p.p., che, pur riferendosi ai documenti, implica, come si è detto, qualsiasi scrittura contenente informazioni – ovviamente rilevanti ai fini del giudizio – proveniente appunto dal soggetto che la scrittura ha formato[26], per ciò che riguarda gli scritti e i documenti dei terzi, mentre i primi, finalizzati al giudizio altro non possono essere considerati che semplici memorie, per i documenti e gli scritti comunque precedentemente redatti dagli interessati l’acquisizione di essi non può conseguire che a seguito del contraddittorio sull’ammissibilità e sulla rilevanza di essi.
- I limiti e i divieti probatori. Sui limiti (o i divieti) probatori, ancora una volta è l’art. 7, co. 4 bis a prevedere che l’ammissione della prova segua, oltre al giudizio sulla rilevanza e la non superfluità di essa, sulla verifica che la prova richiesta non sia una prova vietata dalla legge.
L’espressione utilizzata esprime meglio ciò che l’art. 191, co. 1, c.p.p. individua come inutilizzabile nel processo penale. Infatti, mentre quest’ultima disposizione, riferendosi alle “prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge” sembra (ma così non è) comprimere il concetto di prova vietata alla prova acquisita in maniera vietata, la disposizione di cui all’art. 7 non lascia spazio a dubbi: è vietata l’ammissione della prova, tanto laddove essa sia vietata in sé e, quindi, non acquisibile, quanto laddove sia stata acquisita con modalità che violano i divieti e, per tale ragione, non valutabile[27].
Nell’uno caso e nell’altro, infatti, si tratta sempre del rispetto delle regole di esclusione (dei divieti) che definiscono la legalità di quanto acquisibile e/o acquisito. E si ha, quindi, che, nell’ottica della disposizione, il concetto di prova vietata dalla legge è lo stesso concetto di prova illegale, in quanto la legalità della prova rispetto alla validità dell’atto si pone come presupposto.
L’acquisizione di una prova vietata (si pensi alla testimonianza del proposto nel processo di prevenzione), al pari di quella acquisita con modalità vietate da qualsivoglia disposizione dell’ordinamento (un esempio per tutti: le dichiarazioni o le informazioni anonime o estorte) comporta, dunque, che, quale che sia la qualificazione della modalità vietata (illegittima, illecita, abusiva, ecc.), se dal punto di vista delle categorie processuali essa è sempre e solo illegittima, dal punto di vista del referente sottostante (il divieto) la prova è sempre illegale.
L’interpretazione dell’inciso “prove vietate dalla legge”, al pari di quella dell’inciso “prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge” di cui all’art. 191, co. 1, c.p.p., una volta accettato che tali sono, oltre a quelle vietate in sé, anche quelle “assunte con modalità lesive dei diritti fondamentali del cittadino”[28] è indubbia, e ciò comporta, in applicazione analogica dell’art. 191, c.p.p., che anche nel sistema del processo di prevenzione debba ritenersi inutilizzabile anche ogni informazione che, per qualsivoglia ragione, sia stata ammessa ed acquisita in siffatti modi.
Vero, infatti, che l’art. 7, co 4 bis, d.lgs. cit., individua nel tempo successivo alla verifica della regolare costituzione delle parti l’ammissibilità delle prove e l’esclusione di quelle vietate dalla legge, e, quini, l’eliminazione a monte di qualsiasi informazione vietata. Parimenti vero, però: a) intanto che ogni errore sulla qualificazione della prova come vietata è sempre possibile, sicché può essere ammessa una prova poi risultata vietata; b) poi, che se, come si è visto, prova vietata è anche quella illegalmente acquisita, il mancato rispetto dei divieti che si riferiscono al quomodo dell’acquisizione può naturalmente sorgere in un tempo successivo a quello dell’ammissione delle prove senza che l’ammissione possa sanare (per così dire) l’illegalità commessa (si pensi ad una proposta sorretta da dati, indicazioni e allegazioni acquisiti in violazione di divieti).
In tema, va segnalato come, nel tempo, parte della giurisprudenza abbia cercato di aggirare il divieto di utilizzazione (e, prima ancora, di acquisizione) delle prove illegali. Facendo leva su una distorta lettura del principio di autonomia del processo di prevenzione rispetto al procedimento penale, di è detto, infatti, di una sorta di intrinseco affievolimento della sanzione dell’inutilizzabilità ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione.
Tale conclusione – decisamente ripudiata in sede nomofilattica – pare essere in toto errata, sia nell’impostazione del tema, sia nei risultati. Coma acutamente sottolineato dalla Corte di cassazione, la giurisprudenza della Corte EDU, da un lato, e quella costituzionale, dall’altro, impongono una lettura del processo di prevenzione in linea con i principi del giusto processo, ciò determinando, conseguentemente, che “anche ai fini del giudizio di prevenzione” è precluso l’impiego “di intercettazioni inutilizzabili a norma dell’articolo 271 del codice di rito, in quanto la inosservanza delle relative garanzie di legalità finirebbe, altrimenti, per contaminare e compromettere il giusto procedimento di prevenzione, che tale può definirsi soltanto se basato su atti legalmente acquisiti”[29].
La stessa linea interpretativa seguita in tema di intercettazioni è stata seguita allorquando è stato ritenuto illegittimo il decreto di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale nel caso in cui la prognosi di pericolosità qualificata del proposto sia stata fondata su dichiarazioni accusatorie indirette, inutilizzabili ai sensi dell’art. 195, co. 7, c.p.p., non essendo la fonte conoscitiva delle stesse identificata né identificabile[30]. E tale soluzione pare debba imporsi pure rispetto al divieto di testimonianza su voci correnti nel pubblico sancito dal terzo comma dell’art. 194, c.p.p.
Essa, invece, non sembra adottabile rispetto alle chiamate in correità non sorrette da riscontri esterni individualizzanti, in quanto la disposizione di cui all’art. 192, co. 3, c.p.p., lungi dal vietare qualcosa, stabilisce (soltanto, ma evidentemente non in senso riduttivo) una regola normativa di valutazione della prova che, in quanto tale, segna un limite al libero convincimento del giudice[31]. Da ciò, l’evidente conseguenza che, ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione, per l’accertamento della pericolosità del proposto il giudice può utilizzare le chiamate di correo, che, pur non integrando la prova nel processo penale perché prive di riscontri esterni individualizzanti, raggiungono comunque il livello di indizio, risultando intrinsecamente attendibili “sulla base” – come specifica la prassi – “di un approfondito e stringente vaglio critico delle dichiarazioni rese dal coimputato o dall’imputato in un procedimento connesso”[32].
- La valutazione della prova, il convincimento del giudice e la motivazione. Con i limiti di utilizzabilità che si sono visti, tutto ciò che è acquisito nel coso del giudizio a seguito di interlocuzione tra le parti o d’ufficio costituisce materiale valutabile ai fini della decisione. Può dirsi in proposito che la regola dettata dall’art. 526, co. 1, c.p.p., per il processo penale – “il giudice non può utilizzare ai fini della decisione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento” – si riproduce nel processo di prevenzione quale espressione di un principio processuale più generale quale è quello espresso dell’antico brocardo “iudex iuxta alligata et probata iudicare debet“, che, com’è noto, compendia in sé due principi, l’uno dei quali, appunto, quello che, nella accezione più ampia, vieta al giudice di fondare la sua decisione su mezzi di prova diversi da quelli (legittimamente) acquisiti.
Per ciò che riguarda i criteri di valutazione, il panorama giurisprudenziale, nonostante a volte non manchi qualche eccezione, è pressoché omogeneo rispetto all’indirizzo, secondo cui “nel giudizio di prevenzione, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall’art. 192 del c.p.p. né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti”[33]. E si ha, per fermare qualche esempio soltanto, che all’affermazione, secondo cui “nel procedimento di prevenzione il giudice può utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto”[34], o all’altra, per la quale “nel procedimento di prevenzione il giudice è titolare di un autonomo potere di valutazione degli elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali, che possono essere utilizzati … anche qualora non siano stati ritenuti sufficienti ad integrare la prova della partecipazione ad associazione mafiosa, in ragione della diversità tra il concetto di appartenenza (evocato dalla disposizione citata) e quello di partecipazione, necessaria ai fini di integrare il reato di cui all’art. 416 bis c.p.; non di meno, qualora vi sia stata condanna nel procedimento penale, il giudice della prevenzione potrà riferirsi ad essa come ad un fatto solo se passata in giudicato, mentre, qualora non sia definitiva, egli non potrà limitarsi a richiamare la sentenza, dovendo confrontarsi autonomamente con gli elementi probatori per verificare la sussistenza dei presupposti che legittimano l’applicazione della misura”[35], fanno da contraltare le affermazioni, per le quali “il giudice della prevenzione, in sede di verifica della pericolosità di soggetto proposto per l’applicazione di misura ai sensi dell’art. 1, comma primo, lett. b) d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non può ritenere rilevanti, in base al principio della valutazione autonoma, fatti per i quali sia intervenuta sentenza definitiva di assoluzione, atteso che la norma sopra richiamata richiede, quale presupposto applicativo della misura preventiva, la constatazione di ricorrenti attività delittuose produttive di reddito. L’unica ipotesi di possibile valutazione autonoma dei fatti accertati in sede penale che non abbiano dato luogo a condanna riguarda la sentenza di proscioglimento per prescrizione in cui il fatto sia delineato con sufficiente chiarezza”[36], ovvero che “nel procedimento di applicazione delle misure di prevenzione personale nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, il giudice può utilizzare le sentenze pronunciate nei confronti del proposto che sia stato assolto con la formula dell’insufficienza o contraddittorietà della prova, ma in tal caso la verifica dell’effettiva consistenza e sintomaticità degli indizi di appartenenza al sodalizio mafioso non deve essere condotta sulle risultanze probatorie acquisite nel giudizio penale e sulle reali ragioni del convincimento di non colpevolezza espresso dai giudici di merito”[37], o, anche, che “in tema di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, la presunzione di pericolosità correlata alla natura dell’attività delittuosa assunta a presupposto dell’applicazione della misura non comporta la riduzione del livello di verifica circa l’esistenza di un complesso di elementi fattuali idonei in concreto a legittimare la considerazione del proposto come indiziato di appartenenza all’associazione mafiosa”[38].
L’esistenza di troppa confusione è indubbia ed è evidente che laddove non si superi il momento della autonomia valutativa nel senso di far corrispondere ad essa l’autonomia della verifica nel contraddittorio del materiale probatorio e, quindi, il giudizio di prevenzione inteso come il luogo nel quale le prove effettivamente si formano e non si discutono soltanto quelle già formate, è quasi consequenziale il venire meno di qualsivoglia effettivamente autonomo criterio di valutazione che abbia ad oggetto, appunto, le prove formate nel contraddittorio e non pure la diversa valutazione che delle prove preconfezionate può essere data.
In lenea generale può dirsi che, pur non essendo defiiti, i canoni di valutazione cui attenersi ai fini della decisione sono indiiduabili a seconda che sia in discuzzione l’applicazione della misura persionale o l’adozione della confisca.
Nel primo caso, pare che un criterio di giudizio utilizzabile sia quello normalmente espresso con la formula “più probabile che non” nel gidizio civile. Se, infatti, non è concepibile che la sorte altrui possa essere affidata sic et simpliciter alla valorizzazione di sospetti e congetture, è giocoforza recuperare il senso del giudizio, individuando nella formula detta e in ciò che essa essprime l’organon valutativo utile alla bisogna.
Nel caso della confisca, invece, è la formula di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 159 che pare individuare nella acquisizione della certezza probaoria il criterio di giudizio da adottare. Se, infatti, la norma or detta stabilisce che il tribunale dispone la confisca dei beni di cui il proposto (o altri, nel caso di misura di prevenzione patrimoniale che coinvolga terzi gli aventi causa) “non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità … nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”, i termini utilizzati – i verbi “risulti …”, “risultino …” – escludono la possibilità di qualsivoglia altro criterio di giudizio che si distacchi dalla certa acquisizione della sussistenza delle condizioni alle quali la misura ablativa deve essere disposta.
Altro tema, concernente comunque la decisione, è quello costituito dalla motivazione del decreto. Il tema è ovviamente correlato ai vizi deducibili in sede di impugnazione ed in tal senso è stato trattato dalla giurisprudenza. Se, infatti, in punto di rilevanza del vizio di motivazione del decreto di primo grado, qualcosa parecdebba essere rivista rispetto a quella prassi che, riprendendo quella penale, tende ad escludere la possibilità che tale vizio comporti l’annullamento della sentenza di primo grado[39], per ciò che riguarda il vizio di moticazione decucibile in sede di legittimità il discorso debba muovere da più a monte rispetto a come normalmente lo si affronta.
Per cuò che riguarda il vizio di motivazione del decreto di primo grado, non si riesce a comprendere quale potrebbe essere la ragione logica e giuridica per la quale, a fropnte di una decisione totalmente immotivata non dovrebbe trovare applicazione la dispsizione del combinato disposto dagli artt. 125, co. 3 e 546, co. 3, c.p.p. Per un verso, infatti, è la gafranzia del doppio grado di giudizio di merito ad imporre la soluzione del necessario (doveroso, anzi) annullamento del decreto di primo grado da parte della corte d’appello[40]; per altro verso, è la natura di sentenza che assume il decreto ad imporre tale soluzione[41].
Per ciò che riguarda, invece, il vizion di motivazione del decreto di appello, ca conasiderato che, fino a quando si farà riferimento ai vizi deducibili in sede di legittimità secondo il catalogo predisposto dall’art. 606, co. 1, c.p.p., non soltanto non si caverà un rgagno dal buco, ma si perderà (ancora na volta) la possaibilità di valorizzare, nel suo concetto, quella “violazione di legge” cui fanno riferimenbto le norme di cui agli artt. 10 e 27 del d.lgs. n. 159 del 2011. Fino a quando, infatti, si dirà che, per la decisione di prevebzioone, non è prevista la decusione del vizio di motivazione (ma lo stesso vale anche per l’assunzione della prova decisdiva) non si comprenderà appieno come l’espressione violazione di legge (che di per sé non significa nulla) impone di individuare un referente normativo che, applicabile anche analogicamente, soddisfi ciò che la moticazione è nell’economia di qualaiasi decisione giudiziale (a prescondere, cioè, dall’ambito specifico di riferimento: civile, penale, tributario, di prevebzione, ecc.).
La prassi più recente in tal senso aiuta. E si ha che, riprendendo con maggiore incisività precedenti approdi, una non lonana decisione di legittimità[42] ha correttamente ritenuto integrata la violazione di legge per inesistenza della motivazione nel caso in cui la decisione di prevenzione, omettendo di confrontarsi con le informazioni probatorie esistenti, risulti affetta in sostanza dal vizio (classico) di mancanza della motivazione per infedeltà della decisione rispetto agli atti del procedimento. Nell’affermare ciò, la decisione de qua, precisando che “la motivazione è inesistente anche quando omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo ai fini della pronuncia sul punto oggetto di ricorso … [in quanto] … se il giudice ha l’obbligo di motivare il decreto a pena di nullità, tale obbligo, non solo deve estendersi a tutti i punti oggetto della decisione, ma la delimitazione del contenuto del dovere argomentativo non può essere rimessa alla insindacabile valutazione del decidente”, altro non ha fatto che offrire un’interpretazione del l’espressione violazione di legge, ponendo come termine sostanziale di comparazione l’art. 546, co. 1, lett. “c”, c.p.p.
Si è visto che il decreto ha natura di sentenza, sicché al decreto è applicabile il disposto dell’art. 546, c.p.p. e, in particolare, per quanto interessa la motivazione, il co. 1, lett. “c” che, facendo riferimento alla esposizione dei motivi e alla indicazione delle prove, evidentemente distingue la parte prettamente argomentativa della motivazione dalla parte informativa, con ciò enunciando un principio di semplice comprensione: che, cioè, la argomentazione, che in sé vale nulla o ben poco, assume rilievo in relazione alle informazioni alle quali attinge. Si tratta di un’operazione che, in relazione ai controlli, si sviluppa – o, per meglio dire, dovrebbe svilupparsi – nella verifica di una doppia corrispondenza: in primo luogo, tra sentenza e processo; poi, tra sentenza e logica.
Secondo logica, infatti, la decisione – qualsiasi decisione che debba essere motivata – “prima ancora che spiegare, deve informare”[43]; prima ancora di verificare se le informazioni (le prove) sono state valutate in maniera razionale è giocoforza, quindi, verificare se effettivamente il giudice ha utilizzato tutte le prove delle quali disponeva e se ha inteso in maniera corretta le informazioni che da quelle prove gli provenivano.
A ben riflettere, anche al di fuori del detto referente normativo, è la base del decidere che impone che sia così. Laddove si consideri, infatti, che le singole prove, giunti alla decisione, vanno messe insieme non in maniera schematica – le prove a favore da una parte, quelle contro dall’altro – ma “elaborando una teoria del caso e una storia del caso”[44], la teoria del caso (l’imputazione, nel processo penale; la proposta nel processo di prevenzione), non può che essere sorretta dalla storia del caso che, per soddisfare la teoria, non può essere né insufficiente, né incoerente e, quindi, non lacunosa nell’informazione né illogica nella ricostruzione del fatto attraverso le informazioni utilizzabili.
Detto quanto precede – che pare essere la via maestra per dar senso anche alla autonomia (nel caso, valutativa) nel giudizio di prevenzione – per ciò che riguarda il contenuto minimo della motivazione, in questa sede è sufficiente dire che, pur se riferita al decreto di appello, la prassi esattamente ritiene che la motivazione sia inesistente – integrando una violazione di legge rilevante ai fini dei vizi deducibili in sede di legittimità – anche quando omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo ai fini della pronuncia sul punto oggetto di ricorso. E ciò, in quanto ai sensi del combinato disposto degli artt. 125, co. 3, c.p.p., 7, co. 1 e 10, co. 2, d.lgs. n. 159 del 2011, è escluso che la delimitazione del contenuto del dovere argomentativo possa essere rimessa alla insindacabile valutazione del decidente, sussistendo, invece, per il giudice il dovere inderogabile di confrontarsi con gli elementi che sono stati prospettati dalle parti che, singolarmente considerati, sarebbero tali da poter determinare un esito opposto del giudizio[45].
Per altri versi, la giurisprudenza di legittimità ha esattamente sottolineato come in tema di applicazione delle misure di prevenzione “il giudice, nella motivazione riguardante la prognosi di pericolosità, non può integralmente demandare la valutazione dei fatti posti a fondamento della stessa all’esito di un procedimento penale, specie ove detto esito sia ancora incerto per intervenuto annullamento della decisione di merito in sede di legittimità. In tal caso, anzi, l’annullamento con rinvio della sentenza penale di condanna richiamata quale presupposto del giudizio di pericolosità sociale esige una motivazione rafforzata e realmente autonoma da parte del giudice della prevenzione”[46].
- La prova nel giudizio di appello. L’attività istruttoria del giudice dell’appello rispetta le forme e le cadenze del procedimento di primo grado. La norma di riferimento è l’art. 666, co. 5, c.p.p. (applicabile in forza del rinvio operato dall’art. 7, d.lgs., n. 159) che consente al giudice di chiedere alle “autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno”; inoltre, qualora sia necessario “assumere prove”, il giudice “procede in udienza nel rispetto del contraddittorio”, con la precisazione che ciò avviene “senza particolari formalità, anche per quanto concerne l’esame dei testimoni e l’espletamento della perizia” (art. 185, disp. att. c.p.p.).
L’estrema sinteticità del dato normativo – che si limita a semplici affermazioni di principio e alla fissazione di alcuni criteri di fondo – oltre a riproporre quanto di è già detto in relazione all’attività probatoria in primo grado, fa sorgere la necessità di una integrazione della disciplina tramite il ricorso alla regolamentazione generale delle prove contenuta nel Libro III del codice di procedura penale, nonostante ciò che caratterizza il processo di prevenzione non siano in sintonia con i principi cui si ispira il processo penale.
In proposito, la prassi in più di una occasione ha evidenziato che “nella valutazione della pericolosità sociale del proposto deve aversi riguardo alla situazione esistente al momento della decisione”, ed a tale regola “non si sottrae la valutazione del giudice di appello”, il quale, proposta “impugnazione sul punto della pericolosità”, ben può “esaminare d’ufficio se siano sopravvenuti alla decisione di primo grado elementi che inducano tanto a ritenere un’attenuazione di tale pericolosità quanto un aggravamento”[47]. In forza di ciò, si ritiene, ad esempio, che, nel giudizio d’appello di prevenzione non trovi applicazione il disposto di cui all’art. 603 del codice di procedura penale.
Ora, se è indubbio che nella legge di prevenzione non sussista alcuna disposizione che possa avere il senso di regola generale in punto di acquisizioni probatorie in appello, il problema è costituito dal fatto che, comunque, l’art. 10, d.lgs., cit., contiene una disposizione – il co. co. 1 bis – che, pur apparendo più ordinamentale che altro (visto che da essa non si trae alcuna indicazione circa la disciplina dell’acquisizione della prova in appello) ripropone comunque la necessità dell’individuazione di una regola generale. Ai sensi della disposizione or detta, infatti, “il procuratore della Repubblica, senza ritardo, trasmette il proprio fascicolo al procuratore generale presso la corte d’appello competente per il giudizio di secondo grado. Al termine del procedimento di primo grado, il procuratore della Repubblica forma un fascicolo nel quale vengono raccolti tutti gli elementi investigativi e probatori eventualmente sopravvenuti dopo la decisione del tribunale. Gli atti inseriti nel predetto fascicolo sono portati immediatamente a conoscenza delle parti, mediante deposito nella segreteria del procuratore generale”.
Evidente che la sequenza prevista – la predisposizione, prima; la trasmissione, poi; infine, il deposito di un fascicolo contenente elementi potenzialmente probatori sopravvenuti alla decisione di primo grado – abbia un senso esclusivamente ai fini delle determinazioni, tanto del procuratore generale, quanto, stante il deposito, delle altre parti, sulla eventuale acquisizione di tutto o di parte di tali elementi nel giudizio di appello. Parimenti evidente, però, che pur vigendo il principio del costante adeguamento della situazione di diritto a quella di fatto, è ignorata l’individuazione dell’organon (nel senso lessicale di strumento e, insieme, di metodo) utilizzabile a soddisfare l’esigenza di evitare l’ingresso nel giudizio di appello materiale probatorio vietato ovvero oltre il necessario.
Nota una parte della dottrina come la specificità del thema probandum potrebbe consentire di arricchire in appello le risultanze delle fasi processuali precedenti ma con posizione prioritaria delle parti rispetto all’iniziativa del giudice e, per quanto riguarda la determinazione sull’ammissione, col superamento di quelle espressioni (“se occorre”, “di cui abbia bisogno”) che, riferite all’acquisizione officiosa, solo in apparenza non sembrano divergere dal parametro della assoluta necessità ai fini della decisione di cui all’art. 603, co. 3, c.p.p., dalla quale, invece, effettivamente divergono in quanto palesano il rapporto esistente tra iniziativa officiosa e poteri delle parti in ordine alle regole che sovraintendono all’ammissione delle prove nel giudizio d’appello[48].
Secondo altra dottrina, invece, l’istituto della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale di cui all’art. 603 c.p.p. è tout court applicabile al procedimento di prevenzione[49], in quanto la libertà delle forme comunque superata dalla considerazione del portato di cui all’art. 111, co. 2, Cost. che impone in ogni processo il contradditorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale[50].
In effetti, nell’ipotesi in cui la parte intenda chiedere l’assunzione di nuove prove o la riassunzione di prove già acquisite nella precedente fase[51], l’operatività dell’art. 603 c.p.p. può ben configurarsi, con lo stesso limite costituito dalla assoluta necessità di quanto richiesto ai fini del decidere. In tal caso, infatti, salva la possibilità di richiedere l’acquisizione del novum sopravvenuto alla decisione di primo grado contenuto o meno nel fascicolo predisposto dal pubblico ministero, costituisce ovvio onere a carico dell’appellante di formulare con l’impugnazione le proprie richieste istruttorie, formulando, al momento dell’appello, l’indicazione degli elementi e delle fonti di prova sopravvenute o conosciute dopo la scadenza del termine utile per la proposizione dell’appello.
La tempestiva indicazione delle richieste istruttorie con la formulazione dell’impugnazione non pregiudica, infatti, la possibilità di richiedere l’ammissione di prove sopravvenute o scoperte dopo la scadenza del termine per impugnare con atto depositato prima dell’udienza ovvero direttamente nel corso della trattazione del giudizio di appello. Rispetto a tali prove, così come avviene anche nel procedimento di esecuzione, alla richiesta della parte, le altre parti possono ovviamente opporsi ovvero articolare richieste probatorie di segno contrario.
Quid juris – rectius: quale sanzione processuale è individuabile – nel caso in cui un elemento di prova (si pensi, esemplarmente, ad un atto trasmesso dall’autorità di polizia o dal pubblico ministero del primo grado direttamente alla corte d’appello) di cui non si sia mai discussa l’ammissione o di cui nessuno abbia fatto richiesta di acquisizione e sia stato comunque utilizzato ai fini della decisione?
Non par dubbio che se nel giudizio di appello – così come nel giudizio di primo grado – l’acquisizione di una prova implica sempre e comunque che essa sia acquisita a seguito di contraddittorio tra le parti, anche al fine di consentire la formulazione di prova del contrario, la sanzione di inutilizzabilità del dato probatorio ai fini del giudizio sembra discendere de plano dall’applicazione analogica dell’art. 526, co. 1, c.p.p., con la conseguente nullità della decisione entro l’ovvio limite costituito dalla rilevanza che la prova erroneamente utilizzata ha avuto ai fini del giudizio[52].
Una volta ammessa, l’assunzione della prova deve avvenire in modo da rispettare le regole del contradditorio stante, come s’è visto, l’obbligo costituzionale di svolgere ogni processo nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale[53].
- La “prova nuova” nella revocazione della confisca definitiva. La sopravvenienza di prove nuove è considerata dal co. 1, lett. “a” dell’art. 28 del d.lgs, n. 159, secondo cui la revocazione della confisca divenuta definitiva può essere richiesta, appunto, “in caso di scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento”.
La formula è sostanzialmente sovrapponibile a quella utilizzata per la revisione dall’art. 630, co. 1, lett. “c”, c.p.p., che prevede, appunto, che il rimedio rescissorio possa essere richiesto “se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove”, idonee a rimettere in discussione il giudicato.
Tale sostanziale identità rispetto al novum rilevante individuato dal diritto vivente per la revisione pare dover comportare che, anche ai fini della revocazione, per “prove nuove sopravvenute” debbano intendersi, non solo quelle temporalmente sopravvenute al giudicato o quelle successivamente scoperte, ma anche le prove non acquisite nel precedente giudizio e le altre che, pur se acquisite, non state meppure implicitamente valutate[54].
A sostegno della conclusione or detta, con l’identità del dato testuale concorrono anche ragioni (lato sensu) sistematiche e, soprattutto, i limiti imposti ai motivi deducibili in sede di legittimità del provvedimento ablativo. Si tratta di ragioni, tutte, che, ove non considerate, renderebbe addirittura patetico l’istituto in esame laddove si volesse ritenere che il novum rilevante debba essere costituito esclusivamente da quello temporalmente sopravvenuto, dimenticando, così, che l’istituto revocatorio deriva da quella “revoca in funzione di revisione” già individuata dalla prassi che ha introdotto il rimedio rescissorio e che ha definito le prove nuove sopravvenute, individuandole proprio in quelle che il diritto vivente aveva individuato per la revisione penale[55].
Vero ciò, deve rilevarsi, dunque, come sia ancora valido quanto da tempo affermato per la revoca ex art. 7 L. n. 1423 del 1956 dalla giurisprudenza di legittimità[56]: e, cioè, che ai fini, oggi, della revocazione, la situazione probatoria dimostrativa del difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura, oltre che derivare da situazioni sopravvenute, può ben riferirsi ad un elemento non considerato nei passaggi argomentativi e nei presupposti formali della decisione; con l’ulteriore specificazione che per omessa considerazione di elemento di valutazione si intende, non soltanto il caso di assoluta mancanza di considerazione dell’elemento stesso, ma altresì l’apparente ponderazione di esso, che, seppure indicato, non è stato, però, effettivamente considerato.
Anche perché, come si e. ccvennato, a sostegno di tale conclusione militano altre ragioni. In particolare: a) quella che immediatamente si coglie riflettendo sui limiti entro i quali l’art. 10 del d.lgs. in esame limita la verifica di legittimità. Si sa, infatti, che “il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione, in coerenza con la natura e la funzione del relativo procedimento, è limitato alla violazione di legge e non si estende all’iter giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante, nel qual caso ci sarebbe comunque violazione di legge”[57]; b) l’altra, conseguente al fatto che la prassi ha sempre escluso che, in tema di decisioni di prevenzione, fosse azionabile l’istituto della correzione dell’errore materiale o di fatto di cui all’art. 625 bis c.p.p., argomentando nel senso dell’applicabilità di quell’istituto soltanto alle sentenze di condanna e non ai decreti e, in sintesi, sull’impossibilità di estendere il rimedio alle misure di prevenzione (anche soltanto rispetto alle statuizioni patrimoniali), perché comunque esiste, in tal caso, l’apposito rimedio ad hoc costituito, appunto, dalla revoca ex art. 7 L. n. 1423 del 1956 e dall’art. 28, d.lgs. cit.[58].
Pare evidente come tali situazioni comportino che il controllo sul giudizio rimanga del tutto pregiudicato, non già soltanto in punto di tenuta logica della decisione di merito in quanto atto, ma, soprattutto, in relazione alla effettiva rispondenza del giudizio al portato degli elementi di prova esistenti e alla ponderazione di essi[59]. E si ha, quindi, che i limiti di deducibilità dei vizi relativi alla ricostruzione delle vicende rilevanti e l’esclusione della possibilità di agire ex art. 625 bis c.p.p. nel caso di errata lettura di elementi probatori da parte del giudice di legittimità, si pongono come dati di indubbio rilievo al fine di considerare novità rilevante anche l’omessa considerazione di dati di prove esistenti agli atti.
Conseguentemente, l’ambito dell’azione revocatoria fondata sull’esistenza di prove nuove deve essere definito, non già solo dall’esistenza di novità sopravvenute o scoperte alle decisioni di merito non più soggette ad impugnazione, ma, così come per la revisione penale, anche da quegli elementi di prova che, non considerati, hanno prodotto un giudizio viziato dall’omessa valutazione di quanto pure esistente in atti. Soltanto in tal modo, per altro, l’istituto della revocazione – appunto con i limiti di deducibilità del novum segnati in tema di revisione penale – andrebbe a coprire pure l’ambito di operatività del controllo motivazionale, precluso dal disposto dell’art. 10 del d.lgs. n. 159 al giudice di legittimità, nella misura tale vizio sia costituto dall’omesso esame di specifiche deduzioni relative ad errori di lettura e alla mancata considerazione da parte del giudice di merito del materiale probatorio esistente in atti (il classico vizio di illogicità per travisamento del fatto o della prova).
La prassi, però, offre diverse e contrastanti interpretazione dell’inciso normativo concernente la prova nuova rilevante per la revocazione.
Un indirizzo interpretativo, riprendendo precedenti nello stesso senso, afferma “in tema di confisca di prevenzione, costituiscono prove nuove deducibili a fondamento tanto della domanda di revoca ex tunc, ai sensi dell’art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, quanto della domanda di revocazione, ai sensi dell’art. 28, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, elementi di prova preesistenti alla definizione del giudizio che, sebbene astrattamente deducibili in tale sede, non siano però stati concretamente dedotti e perciò mai valutati”[60]. E si ha, quindi, come già osservato in precedenti arresti di legittimità[61], che l’esistenza di un modello normativo tipizzato (l’art. 28, cit., appunto) è un dato che deve portare l’interprete verso linee il più possibili comuni tra le due dette forme procedimentali, conformi ai consolidati orientamenti maturati sul terreno della revisione in ambito penale[62].
Un diverso indirizzo interpretativo è quello, secondo cui “la definizione di prova nuova e sopravvenuta può essere attribuita solo agli elementi non dedotti e non deducibili, perché non ancora formatisi o perché non noti, con esclusione, invece, degli elementi già dedotti e di quelli che, pur essendo deducibili, non sono stati, per qualsiasi motivo, dedotti”[63]. Alla base di tale conclusione vi è la considerazione congiunta del dato testuale – che, come si è visto, fa riferimento alla “scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento” – e dei diversi interessi in discussione (la libertà personale, nel caso della revisione; il patrimonio, nel caso della revocazione). Ciò che tale indirizzo pare non adeguatamente considerare è che, come detto, la formula normativa è pressoché identica a quella di cui all’art. 630, lett. “c”, c.p.p., sicché, a sostanziale parità di dato letterale, sembra risultare affatto incongrua ed esegeticamente poco ortodossa l’individuare di criteri interpretativi diversi a seconda della materia trattata o degli interessi in gioco.
Tra l’uno e l’altro degli indirizzi or detti indirizzo se ne può individuare un terzo: quello, secondo cui “la revoca della confisca per difetto genetico dei presupposti di adozione può disporsi in presenza di elementi nuovi, non necessariamente sopravvenuti purché mai valutati nel corso del procedimento di prevenzione, stante il carattere di rimedio straordinario che non può trasformarsi in un anomalo strumento di impugnazione”[64].
Ora, senza ripetere quanto già detto, va ribadito (e decisamente) che il processo di prevenzione soffre di limitazioni, tanto in relazione alla divisione dell’onere probatorio tra le parti e all’obbligo accertativo officioso del giudice a seguito della allegazione della parte, quanto nella deduzione dei vizi delle decisioni di merito in sede di legittimità, che necessariamente incidono sulla delimitazione del concetto di prova nuova a fini revocatori, in quanto si pongono come indubbi impedimenti allo sviluppo effettivo della completezza e della verifica della prova, tanto nel momento acquisitivo, quanto, soprattutto, in quello valutativo di essa.
Tali limitazioni pare impongano di riempire di contenuto il mal confezionato testo dell’artt. 28, co. 1, lett. “a” del d.lgs. n. 159, e, quindi, dare ad esso un significato compiuto che rispetti, innanzi tutto, la ratio di garanzia che la revocazione ontologicamente esprime in un sistema processuale che, in punto di garanzie, risulta appunto compromesso nell’attività e nei controlli in itinere sulla prova e nella compiuta valutazione della stessa.
Tali limiti in ordine alla prova – derivanti, in sintesi, dall’omesso accertamento officioso sulle allegazioni, dalla non deducibilità dei vizi relativi alla ricostruzione delle vicende rilevanti, dalla esclusione della possibilità di agire con l’incidente di esecuzione per rilevare l’omessa valutazione complessiva degli atti e, infine, dall’esclusione della possibilità di azionare l’art. 625 bis c.p.p. nel caso di errata lettura di dati di fatto da parte del giudice di legittimità – pare impongano la conclusione già detta: che è, cioè, esegeticamente più ragionevole considerare prova nuova, non soltanto quella temporalmente sopravvenuta alla decisione – anche nel caso in cui essa sia preesistente e non sia dedotta – ma pure l’omessa considerazione di dati di fatto (rectius: di prove) che, esistenti in atti, non sono stati degnati di considerazione nel corso del giudizio.
Detto ciò, per completezza va volta l’attenzione sulla valutazione della prova nuova nel giudizio di revovcazione e, quindi, alla necessaria comparazione di tale prova con quelle evocate a sorreggere il provvedimento di confisca.
Tale giudizio, come sostenuto dalla prassi e in dottrina “non richiede soltanto il confronto di ogni singola prova nuova, isolatamente presa, con quelle già esaminate, occorrendo, invece, che la pluralità delle prove riconosciute nuove sia valutata anche unitariamente, vagliandosi, in una prospettiva globale, l’attitudine dimostrativa di esse, da sole o congiunte a quelle del precedente giudizio, rispetto al risultato finale del riconoscimento della insussistenza ab origine dei presupposti per l’applicazione della misura”, per cui, essa, “non può essere confinata nei termini dell’astrazione concettuale, ma deve ancorarsi allo specifico contesto procedimentale già esistente e svilupparsi in termini realistici, così da non potere ignorare evidenti segni di inconferenza e/o inaffidabilità delle nuove prove”[65].
L’inconfutabile conclusione sul necessario giudizio di comparazione tra la situazione probatoria utilizzata ai fini dell’adozione del provvedimento e il novum proposto non pare necessiti di alcuna aggiunta. Essa, invece, sembra apportare ulteriore conforto alla tesi dell’individuazione del novum rilevante che si è sostenuta: la necessità di approdare ad un concetto di prova nuova che comprenda anche la prova che, pur presente negli atti, non sia stata valutata dal giudice di merito risulta, infati, comprovata dall’ontologica contrapposizione che si pone tra prove nuove e prove già valutate; cosa che conferma che la proponibilità del rimedio revocatorio dipende, non già soltanto dalla mancata esistenza o dalla mancata acquisizione della stessa agli atti processuali, ma, viepiù, dalla mancata valutazione della prova esistente agli atti, che non si comprende come mai possa essere comparata nel giudizio di revocazione se mai ponderato, in precedenza, il suo effettivo portato informativo ai fini dell’adozione della decisone.
Prof. Avv. Sandro Furfaro
___________________________
(NOTE) :
[1] Sulla esclusività della giurisdizione di prevenzione, l’autonomia del processo di prevenzione e le conseguenze da trarre, nonché sulla ovvia trattazione della prova in tale processo, si rinvia, volendo a Furfaro, Diritto processuale delle misure di prevenzione, Giappichelli Editore in corso di stampa.
[2] L’Ordnungswidrigkeiten è un procedimento amministrativo al quale si applicano i principi fondamentali del processo penale tedesco (il principio inquisitorio, per cui è lo Stato ad essere responsabile dell’accertamento dei fatti; la presunzione di innocenza; il diritto di essere ascoltati e la facoltà di rimanere in silenzio; il diritto di avere accesso agli atti e di contraddire; il principio del ne bis in idem). L’iniziativa è discrezionale è non obbligatoria e, nonostante l’applicazione dei principi suddetti, la fase delle indagini è di assoluta competenza dell’autorità amministrativa proponente che, laddove il fatto non costituisca anche un illecito penale, agisce con gli stessi poteri attribuiti al pubblico ministero. L’intervento successivo dell’autorità giudiziaria ordinaria è previsto soltanto a livello di impugnazione della decisione emessa dall’autorità amministrativa preposta al procedimento. Sulle Ordnungswidrigkeiten, Sieben, Linee generali del Diritto Amministrativo Punitivo in Germania, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, 35 ss.
[3] L’art. 7 bis, co. 2 sexies dell’Ordinamento giudiziario, d’altro canto, stabilisce che: “presso il tribunale del capoluogo del distretto e presso la corte d’appello, sono istituite sezioni ovvero individuati collegi che trattano in via esclusiva i procedimenti previsti dal codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. … A tali collegi o sezioni, ai quali è garantita una copertura prioritaria delle eventuali carenze di organico, è assegnato un numero di magistrati rispetto all’organico complessivo dell’ufficio pari alla percentuale che sarà stabilita con delibera del Consiglio superiore della magistratura e comunque non inferiore a tre componenti. Se per le dimensioni dell’ufficio i magistrati componenti delle sezioni o collegi specializzati in materia di misure di prevenzione dovranno svolgere anche altre funzioni, il carico di lavoro nelle altre materie dovrà essere proporzionalmente ridotto nella misura che sarà stabilita con delibera del Consiglio superiore della magistratura. Il presidente del tribunale o della corte d’appello assicura che il collegio o la sezione sia prevalentemente composto da magistrati forniti di specifica esperienza nella materia della prevenzione o dei reati di criminalità organizzata, o che abbiano svolto funzioni civili, fallimentari e societarie, garantendo la necessaria integrazione delle competenze”.
[4] Per altro, che qualcosa (anzi, molto di più) debba essere fatto per allineare il processo di sicurezza alle regole del giusto processo rassegnato dalle disposizioni costituzionali e sovranazionali dette pare essere il necessario portato dell’ampiezza cui esse si dirigono. Le disposizioni costituzionali, in particolare, trascendano gli specifici ambiti del processo penale di cognizione, per investire tutti quei settori dell’ordinamento laddove, per la realizzazione dell’amministrazione della giustizia (rectius: per l’attuazione della giurisdizione evocata dal co. 1 dell’art. 111. Cost.) sia comunque richiamato un modulo processuale. E se ciò sembra essere stato finora poco considerato nelle branche del diritto diverse da quella della cognizione penale (ma si vedano, per ciò che riguarda il processo civile, Chiarloni, Giusto processo (dir. proc. civ.), in Enc. dir., App. II, Milano, 2008, 403 ss.; Vidiri, Giusto processo, accertamento della verità materiale e “imparzialità” del giudice, in Riv. Dir. Proc., 2012, 1547 ss.), non per questo il tema non è di carattere generale, implicando, appunto, la considerazione delle posizioni considerate dalla disposizione costituzionale, un’innegabile esigenza di definizione del rapporto tra i soggetti in relazione ai poteri e agli obblighi ad essi conferiti.
[5] Dalla vasta gamma di decisioni rese dalla Corte sovranazionale (si veda, una per tutte, Corte EDU, 14.2.2002, Visser c. Paesi Bassi), si coglie una regola generale indubbia: quella, secondo cui tutto il materiale probatorio deve essere presentato e discusso nel corso di una pubblica udienza, alla presenza dell’interessato, nell’ambito di una procedura adversary, poiché è insito nel concetto di giusto processo che alla parte che subisce la richiesta e l’acquisizione di una prova sia adeguatamente garantita la possibilità di opporsi alla richiesta o di formulare prova del contrario rispetto a quella che si è acquisita o si vuole acquisire.
[6] In tal senso, Cass. pen., Sez. I, 6.5.1993, Li Vigni, in Cass. pen., 1994, 1649; Cass. pen., Sez. I, 11.3.1993, Saia, ivi, 1994, p. 1649; Cass. pen., Sez. I, 8.6.1992, Avignone, in Riv. pen., 1993, 647.
[7] Cass. pen., Sez. I, 11.1.1994, Del Sorbo, in Mass. Uff., 196658; Cass. pen., sez. I, 2.3.1993, D’Angelo, in Cass. pen., 1994, 1069; Cass. pen., Sez. I, 17.12.1991, Granata, ivi, 1993, 434.
[8] La disposizione è la seguente “[il tribunale] dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”, e riproduce in toto quella di cui all’art. 2 ter, l. n. 474 del 1965.
[9] Silvestri, La trasmigrazione e l’utilizzazione degli atti, in Misure di Prevenzione, a cura di Furfaro, Torino, 2013, 221.
[10] La norma, al co. 2 stabilisce che “quando si procede nei confronti di persone imputate del delitto di cui all’art. 416-bis del codice penale o del delitto di cui all’art. 75 della l. 22 dicembre 1975, n. 685, il pubblico ministero ne dà senza ritardo comunicazione al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona per il promovimento, qualora non sia già in corso, del procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione, ai sensi della l. 31 maggio 1965, n. 575” (co. 1), e, “successivamente, il giudice penale trasmette a quello che procede per l’applicazione della misura di prevenzione gli atti rilevanti ai fini del procedimento, salvo che ritenga necessario mantenerli segreti”.
[11] Ammoniva Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, 1936, 280, che “quando si parla di provare un fatto, questo avviene per il solito scambio tra l’affermazione e il fatto affermato”.
[12] In tal senso, come ricordava Cordero, Procedura penale, sesta ed., Milano, 2001, 560, tutti i processi sono “macchine retrospettive”.
[13] White collar crime, New York 1959, 54.
[14] Si veda, in particolare, Cohen, Delinquent boys, the culture of the gang, New York, 1960.
[15] Cloward, Ohlin, Delinquency and opportunità: a teory of delinquent gangs, Glencoe, 1960.
[16] Cressey, Delinquency and opportunità: a teory of delinquent gangs, Glencoe, 1972.
[17] Glaser, Crime in our changing society, New York, 1978.
[18] Si pensi, ad esempio, ai limiti previsti dall’art. 1417, c.c., in tema di simulazione, già considerati inapplicabili nel giudizio penale da Cass. pen., Sez. V, 28.2.1991, Cultrera, in Mass. Uff., 186893.
[19] Cass. pen., Sez. VI, 30.4.2019, Hanoman, in Mass. Uff., 277563.
[20] Si tratta di Cass. pen., Sez. I, 6.7.2016, Barberio e alt., in Mass. Uff., 268652.
[21] In proposito, v’è da precisare, innanzi tutto, che il presidente – a meno che l’esame non sia stato disposto d’ufficio – pone le domande su quanto allegato dalle parti che, in ogni caso, possono sollecitarlo in tal senso; poi, che, anche laddove proceda a seguito di ammissione d’ufficio, le parti non sono affatto private dell’esame, sia pure mediato. Può dirsi, dunque, che, nonostante nel processo di prevenzione non è previsto quel sistema di esame e controesame che definisce lo svolgimento della dialettica processuale nel processo penale, l’intervento delle parti nel corso dell’esame di prevenzione è in line di massima garantito.
[22] Cass. pen., Sez. IV, 6.2.2020, N.N., in www.sistemapenale.it, 2020. Nello stesso senso, Cass. pen., Sez. III, 18.1.2012, B., ivi, 252134; Cass. pen., Sez. III, 11.5.2011, M., ivi, 250615, in tema di domande suggestive rivolte a testimone minorenne.
[23] In punto di conseguenze della violazione del divieto di porre domande suggestive o nocive, la prassi in materia penale (si vedano, da ultimo, Cass. pen., Sez. III, 25.6.2019, B., in Mass. Uff., 277988; Cass. pen., Sez. III, 16.9.2019, R., ivi, 277399) è orientata nel senso di escludere l’inutilizzabilità o la nullità della deposizione non essendo previste tali sanzioni dall’art. 499, co. 3, c.p.p., né potendo essere, l’inutilizzabilità, desunta da altre previsioni normative. Le ricadute della violazione ricadono, dunque, sulla motivazione della decisione, nonostante – pare ovvio – il danno fatto sia difficilmente riparabile.
[24] Si veda, in particolare, Cass. pen., Sez. VI, 24.9.1996, Macrì, in Mass. Uff., 206015.
[25] Su ciò che deve intendersi per scritto, Maggio, Prova documentale, in Enc. Giur., XXV, Roma, 1991, 13 ss. Il dubbio, invece, su cosa debba intendersi per provenienza pare dovere essere risolto nel senso già proposto dalla dottrina e dalla giurisprudenza penale a proposito dell’art. 237, c.p.p., intendendo, cioè, il lemma non riferibile a ciò che proviene dal soggetto in quanto in suo possesso, bensì lo scritto formato dal soggetto. In tema, Ubertis, Variazioni in tema di documenti, in Cass. Pen., 1992, 2522; D’Isa, Sulla disciplina dei documenti nel processo penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1992, 1413.
[26] In tema,
[27] La distinzione si deve alla dottrina tedesca distingue che comunque riconnette univoche conseguenze, tanto laddove prova non sia acquisibile (Beweiserhebungsverbot), quanto nei quali in cui l’acquisizione, possibile, avviene però contro regola e, quindi, la prova non è valutabile (Beweisverwertungsverbot).
[28] Corte cost., 4.4.1973, n. 34
[29] Cass., Sez. Un., 25.3.2010, Cagnazzo, in Mass. Uff., 246271.
[30] Cass., Sez. V, 27.10.2010, Cassano, in Mass. Uff., 249691.
[31] Parte minoritaria della dottrina processuale penale ritiene che la disciplina di cui all’art. 192, co. 3, c.p.p. contiene invece un vero e proprio divieto di utilizzazione delle chiamate di correo non sorrette da riscontri che ne confermano l’attendibilità. Secondo Nobili, Art. 192, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, Torino, 1990, 418, “il precetto sui necessari riscontri – anche indiziari (comma 2) – esclude (vieta) l’utilizzabilità di dichiarazioni che, al momento del decidere, risultino rimaste prive di tali c.d. riscontri”. Pur volendo considerare ciò, non sembra che la conclusione muterebbe nel processo di prevenzione. A prescindere, infatti, dalla autonomia del giudizio di prevenzione, nel caso mancherebbe pur sempre un referente generale del divieto e della illegalità della prova, tale non potendo essere la violazione di una regola di giudizio applicabile esclusivamente in un definito sistema processuale.
[32] Cass., Sez. V, 31.3.2010, Spina, in Mass. Uff., 247502.
[33] Così, Cass. pen., Sez. V, 12.11.2013, L., in Mass. Uff., 258939; Cass. Pen., Sez. I, 29.4.2011, Bagalà, ivi, 250278; Cass. pen., Sez. I, 21.10.1999, Castelluccia, ivi, 215117; Cass. pen., Sez. II, 19.3.1998, Bonventre, ivi, 211908.
[34] Cass. pen., Sez. Un., 25.3.2010, Cagnazzo, cit.; Cass. pen., Sez. II, 30.4.2013, Chianese, in Mass. Uff., 256819; Cass. pen., Sez. VI, 8.1.2013, Parmigiano, ivi, 254417.
[35] Cass. pen., Sez. V, 17.12.2015, Mannina, in Mass. Uff., 265862.
[36] Cass. pen., Sez. I, 7.1.2016, Pandico, in Mass. Uff., 236664; Cass. pen., Sez. I, 24.3.2015, Scagliarini, cit.; Cass. pen., Sez. VI, 18.9.2014, Catalano, ivi, 261591.
[37] Cass. pen., Sez. VI, 11.11.2014, Gelsomino, in Mass. Uff., 261842
[38] Cass. pen., Sez. I, 3.2.2010, Russo, in Mass. Uff., 246308.
[39] In penale, tra le tante, Cass. pen, Sez. VI, 4.6.2019, Aiello e alt., in Mass. Uff., 276831.
[40] Non è questa la sede per approfondimenti in tema di doppio grfado di giudizio nel processo di prevenzione, rimandando laddove lo si voglia a Furfaro, Diritto processuale delle misure di prevenzione, cit., qui va solo ricordsato che se è l’appello ad essere deputato alla verifica della decisione di primo grado in punto merito e di legittimità, e se, in estrema sintesi, il diritto al riesame di merito della decisione impugnata niente altro è che il diritto a riesaminare le prove acquisite nel giudizio conclusosi con la decisione impugnata, è giocoforza che la motivazione di quest’ultima abbia un contenuto strutturale minimo syl col quale validamente confrontarsi.
[41] Sulla natura di sentenza del decreto di pre venzione, Cass. pen., Sez. Un., 29.10.2009, Galdieri, in Mass. Uff., 255174; Cass. pen., Sez. VI, 1.10.2015, Viviani, ivi, 264742; Cass. pen., Sez. V, 27.1.2015, Arpaia, ivi, 265136.
[42] Ci si riferisce a Cass. pen., Sez. VI, 16.5.2016, Caliendo, in questa Rivista on-line, che ha ribadito, anche che al decreto di prevenzione debba essere riconosciuta la batura di sentenza.
[43] Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto, motivazione, Milano, 2013,346.
[44] È sempre Iacoviello, La Cassazione penale, cit.,460.
[45] Cass. pen., Sez. VI, 15.6.2016, Caliendo, cit.
[46] Cass. pen., Sez. I, 22.1.2014, Bonavota, in Mass. Uff., 259672. In puntodi necessità della motivazione rafforzata anche in materia di prevennzione, ampliamente, volendo Furfaro, Diritto processuale delle misure di prevenzione, cit.
[47] Cass. pen, Sez. VI, 30.1.1998, Gulli, in Mass. Uff., , 210822. Nello stesso senso, Cass. pen., Sez. I, 12.11.2002, Riccardi, ivi, 223793. Si veda anche Cass. pen., Sez. I, 16.10.1995, Spezio, in Cass. Pen, 1996, 2753, secondo cui “poiché il procedimento di prevenzione è informato alla regola rebus sic stantibus, sussistendo la possibilità di un costante adeguamento della situazione di diritto a quella di fatto, la quale può modificarsi in senso favorevole o contrario al prevenuto, il convincimento del giudice del gravame può ben fondarsi su elementi non esaminati in primo grado; il giudice dell’appello può pertanto correttamente disporre l’acquisizione agli atti della ulteriore documentazione, inerente al giudizio di pericolosità, prodotta in quella sede dal pubblico ministero”. In tal senso, più di recente, Cass. pen., Sez. V, 18.10.2019, Tocchio, ivi, 278038; Cass. pen., Sez. VI, 13.9.2017, P.G. in proc. Iusco, ivi, 271375.
[48] In tal senso, Margaritelli, L’appello e il giudizio di appello, in Misure di prevenzione, a cura di Furfaro, Milano, 2013, 608-609.
[49] In tal senso, sussistendo comunque i presupposti di cui all’art. 603 cit., Filippi, Cortesi, Il codice delle misure di prevenzione, Torino, 2011, 179; Guerrini, Mazza, Riondato, Le misure di prevenzione, Padova, 2004, 235. Più in generale, Molinari, Papadia, Le misure di prevenzione, Milano, 2002, 167.
[50] Così, Filippi, Cortesi, Il codice delle misure di prevenzione, cit., 179.
[51] Va ricordato che rientrano nella nozione di prove nuove “anche quelle che, pur provenendo dalla medesima fonte già assunta in primo grado, abbiano contenuto nuovo rispetto al precedente bagaglio valutativo” (così, tra le tante, Cass. pen., Sez. I, 14.10-2014, Arshad e alt., in Mass. Uff., 258980 e che “ai sensi dell’art. 603, co. 2, c.p.p., il giudice di appello è tenuto a disporre la rinnovazione delle nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, salvo il limite costituito da richieste di prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti; diversamente nell’ipotesi contemplata dall’art. 603, co. 1, c.p.p., la rinnovazione è subordinata alla condizione che il giudice ritenga, nell’ambito della propria discrezionalità, che i dati probatori già acquisiti siano incerti e che l’incombente processuale richiesto rivesta carattere di decisività” (così, sempre tra le tante, Cass., pen., Sez. II, 10.5.2012, Lo Bianco e alt., ivi. 253525).
[52] In tal senso, nel caso di utilizzazione di documento utilizzato nel giudice di appello penale senza l’osservanza del contraddittorio, si veda, da ultimo, Cass., Sez. III, 3.11.2020, S., in Mass. Uff., 280504
[53] Così, Filippi-Cortesi, Il codice delle misure di prevenzione, cit., 179.
[54] Così, per la revisione, Cass. pen., Sez. Un., 26.9.2001, Pisano, in Mass. Uff., 220443.
[55] Ci si riferisce a Cass. oen., Sez. Un., 19.12.2006, Auddino, in Mass. Uff., 234955.
[56] Si vedano, oltre a Cass. pen., Sez. Un., “Auddino”, cit., Cass. pen., Sez. I., 6.3.1992, Santapaola, in Mass. Cass. Pen., 1992, 5, 52. In tempi più recenti, nello stesso senso, Cass. pen., Sez. VI, 17.9.2004, Cerchia e alt., in Riv. Pen., 2005, 741; Cass. pen., Sez. I, 12.4.2005, SIB S.p.A, ivi, 2005, 943.
[57] Così, Cass. pen., Sez. II, 16.4.2009, Di Salvo, in Mass. Uff., 244151.
[58] In tal senso, Cass. pen., Sez. I, 12.1.2017, Pelle e alt., cit.; Cass. pen., Sez. II, 16.9.2015, Saracino, cit.; Cass. pen., Sez. VI, 8.10.2009, Cacucci, in Mass. Uff., 245772; Cass. pen., Sez. I, 12.6.2002, Mazzaferro e alt., in Mass. Uff., 2220095.
[59] Va ricordato, in proposito, che Cass., Sez. Un., 30.10.2003, Calò, in Giust. Pen., 2004, III, 350, facendosi carico dell’esigenza dell’armonico combinarsi delle norme e degli istituti del sistema al fine di evitare quanto più possibile la perpetrazione di ingiustizie “giustificate” da testi motivazionali all’apparenza ineccepibili, non ha mancato di rilevare “l’incoerenza di un sistema processuale che riconosce – prima – la censurabilità mediante ricorso per cassazione del vizio di mancata assunzione della prova decisiva ex art. 606, 1° co., lett. d, C p.p. e la revisionabilità – poi – della sentenza di condanna sulla base di prove “nuove” ai sensi dell’art. 630, 1° co., lett. c, C.p.p., intendendosi per tali non solo quelle sopravvenute o scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle acquisite e preesistenti e che, pur decisive, non siano state valutate neanche implicitamente dal giudice”.
[60] Cass. pen., Sez. I, 5.12.2020, Venuti, in Mass. Uff., 280856. In motivazione la decisione or detta ha precisato che, siccome tanto la procedura di revoca ex tunc delle misure di prevenzione di cui all’art.7. l. n.1423 del 1956, quanto la revocazione della confisca di cui all’art. 28 del d.lgs. n.159 del 2011 rappresentano la proiezione nello specifico settore delle misure di prevenzione, dell’istituto della revisione di cui agli artt. 629 e ss., c.p.p., trattandosi di istituti finalizzati a rimediare, in via straordinaria, ad una sostanziale ingiustizia della decisione.
[61] Si vedano, esemplarmente, Cass. pen., Sez. I, 19.6.2019, Castaldo, in Mass. Uff., 276874; Css. pen., 1.2.2018, Oliveri, ivi, 273361.
[62] Il ragionamento interpretativo andrebbe operato, insomma, in modo analogo rispetto alla revoca e alla revocazione, e in modo analogico rispetto alla revisione penale, per cui la limitazione letterale alla produzione delle sole prove sopravvenute di cui all’art. 28, d.lgs. cit., non può che fare riferimento alla nozione di prova nuova elaborata dalle Sezioni Unite nella detta decisione “Pisano” intervenuta in tema di revisione, con la conseguenza, che, per prove nuove rilevanti anche ai fini della revocazione non devono intendersi solo le prove sopravvenute alla decisione definitiva e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente (in tal senso, già Cass. pen., Sez. V, 4.11.2015, Baratta, in Mass. Uff., 265922).
[63] In tal senso Cass. pen., Sez. VI, 9.5.2019, De Virgilio, in Mass. Uff., 276075; Cass- pen., Sez. II, 14.7.2020, Trupia, ivi, 279488; Cass. pen., Sez. VI, 6.10.2015, Alvaro, ivi, 265081; Cass. pen., Sez. V, 30.11.2017, Lagaren, ivi, 272104.
[64] In tal senso, Cass. pen, Sez. II, 12.3.2019, P.G. in proc. Ficara, in Mass. Uff., 276063; Cass. pen., Sez. V, 24.3.2017, Di Giorgio, ivi, 270238.
[65] Cassano, I rapporti tra processo penale e procedimento di prevenzione, in Misure di prevenzione, cit., 192.
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Prof. Avv. Sandro Furfaro
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