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La riflessione sul concorso del terzo nel reato di corruzione vuole rappresentare un momento di confronto sulla fattispecie che continua ad avere coni d’ombra e criticità, nell’ottica della tipicità della condotta.

La premessa, per quanto potrebbe apparire paradossale, è che l’Italia mantiene, ormai da anni ed in maniera stabile, la 42^ posizione nella classifica mondiale dei Paesi con il più alto Indice di Percezione della Corruzione (CPI).

Tale situazione ha indotto il legislatore, anche sulla spinta della Comunità Europea, ad assumere un atteggiamento altamente punitivo modificando i limiti edittali di pena e i termini di prescrizione del reato, consentendo l’utilizzo di mezzi di ricerca della prova più invasivi (tra i quali il c.d. trojan) e inserendo il reato in trattazione nel novero delle fattispecie ostative in fase esecutiva.

La modifica legislativa, comunemente denominata “legge Spazzacorrotti”, è stata oggetto di dichiarazione di incostituzionalità nella parte in cui prevedeva l’applicazione della novella (ma solo per la fase esecutiva) ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge di modifica.

La questione che interessa quest’oggi, tuttavia, è legata esclusivamente al profilo della tipicità della condotta in punto di partecipazione del terzo nel reato.

In sostanza la condotta tipica di cui all’art. 319 c.p. (corrotto), in combinato con l’art. 321 c.p. (corruttore) è quella del p.u. che, al fine di omettere o ritardare, aver omesso o ritardato, compiere o aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio riceva denaro o altra utilità per sé o per altri, ovvero ne accetti la promessa; il corruttore incarna il ruolo del soggetto che dà o promette al p.u. o all’incaricato di pubblico servizio il denaro o le utilità, al fine di farsi promettere e/o ottenere l’omissione, il ritardo o il compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio.

La questione è di poco conto nell’ipotesi dello schema tipico della condotta, nella quale promessa e dazione sono contestuali e al fatto partecipano, esclusivamente, corruttore e corrotto. Basti pensare all’ipotesi classica del privato che ottiene la promessa dal p.u. ed ottiene la dazione della somma di denaro; tale ipotesi è quella che le SS.UU., nella nota sentenza MILLS, n. 15208 del 25/02/2010, rv. 246583, definiscono “il fatto della dazione o effettiva prestazione, come momento di maggiore concretezza dell’attività corruttiva nel quale rimane assorbita e si confonde l’eventuale promessa preventiva, e soltanto in via sussidiaria, ove l’anzidetto aspetto fattuale non si verifichi, la promessa accettata”.

In sostanza, tale principio afferma che il momento consumativo della fattispecie è ben definito ed individuato dalla promessa del p.u.; la dazione assorbe in sé la promessa e fa perdere a quest’ultima la propria autonomia rendendola atto prodromico che alla prima si salda e con essa si confonde.

Il problema è legato, viceversa, all’ipotesi in cui la dazione avvenga in un momento differente rispetto alla promessa, e alla rilevanza della condotta del terzo estraneo (all’accordo originario tra corruttore e corrotto) nella fase esecutiva (dazione postuma).

L’ipotesi classica è quella del soggetto terzo incaricato di far pervenire al corrotto il denaro o l’utilità oggetto del patto corruttivo in un momento postumo rispetto al sorgere dell’incontro delle volontà tra corruttore e corrotto.

Le SS.UU, nella sentenza citata, venivano chiamate a dirimere un contrasto sorto in seno a diverse sezioni e afferente la rilevanza della condotta della dazione postuma, qualificata da alcune pronunce di legittimità quale post-factum non punibile, e all’individuazione del momento consumativo della fattispecie, anche nella prospettiva della decorrenza dei termini di prescrizione del reato.

In buona sostanza, il problema iniziale era quello, del resto già affrontato nelle sentenze della VI sez. penale, n. 33435, ric. Battistella – 04/05/2006, ed in quella del 09/07/2007, n. 35118 ric. Fezia, di individuare il momento dal quale far decorrere il termine di prescrizione e, dunque, il momento consumativo della fattispecie.

La soluzione adottata, per come già anticipato, è quella di individuare il momento di concretizzazione della promessa quale momento consumativo del reato che, se non seguito dalla contestuale dazione del denaro e/o utilità, va spostato nel momento dell’effettiva dazione.

Si attribuisce rilievo alla condotta postuma al sorgere dell’accordo, ferma restando la punibilità della condotta per il sol fatto di promettere l’atto contrario ai doveri di ufficio; trattandosi di un reato di pericolo l’anticipazione della soglia di punibilità determina che la mera promessa costituisce, di per sé sola, fatto penalmente rilevante e punibile in ragione della tutela rafforzata del bene giuridico protetto.

Tuttavia ciò non significa che l’effettiva ricezione di quanto ha formato oggetto della promessa sia elemento estraneo alla fattispecie, in quanto aspetto centrale della condotta antigiuridica; del che la Suprema Corte individuava due ipotesi di esplicazione della fattispecie di reato.

La prima è quella, c.d. tipica, che vede coincidere la promessa e la dazione in un momento contestuale, di guisa che la seconda assorbe la prima relegandola ad atto prodromico che in essa si salda e si confonde, e fissa il momento consumativo della fattispecie al momento della “contestualità” delle condotte tra corrotto e corruttore.

Ciò ovviamente non significa che la mancata dazione del denaro o dell’utilità faccia venir meno la rilevanza della condotta della “mera” promessa a cui non è seguita la dazione perché, come già detto, in assenza di condotta postuma l’anticipazione della soglia di punibilità da rilievo al primo momento, che in sostanza cristallizza il momento di consumazione del reato.

Il problema si pone nell’ipotesi nella quale la dazione avvenga a distanza di tempo e, per quanto ci interessa, ad opera di un terzo estraneo all’originario accordo corruttivo.

La Suprema Corte, che in realtà nella nota sentenza MILLS era stata chiamata a decidere in ordine alla rilevanza del momento “postumo” nello schema della fattispecie, e all’incidenza di tale fatto sul momento iniziale della decorrenza del termine di prescrizione del reato, ha stabilito due principi.

Il primo è che in ipotesi di dazione postuma del denaro e/o dell’utilità dell’accordo corruttivo il termine di prescrizione del reato decorre dal momento in cui il corrotto o il terzo (nel cui interesse l’atto contrario è stato emesso, ritardato, posticipato e/o omesso) ha la materiale disponibilità della res potendo disporre uti dominus.

Il secondo principio codificato afferisce alla c.d. “forma contratta o sussidiaria” della fattispecie, che sussiste ogni qual volta il ricevimento dell’utilità avviene in maniera postuma alla promessa, attribuendo al reato le caratteristiche proprie del “reato progressivo”, di tal che si assiste ad un passaggio da un minus (la promessa, di per sé sola idonea ad essere qualificata quale momento di consumazione del fatto/reato) al maius (la dazione, che non solo pospone il termine dal quale far decorre la prescrizione del reato ma costituisce condotta, c.d. post-factum, penalmente rilevante).

Ed è in tale ultima ipotesi che assume rilievo la condotta del terzo estraneo all’accordo iniziale.

Si pensi, ad esempio, al terzo che viene incaricato dal corruttore di consegnare la somma di denaro al corrotto (ovvero al terzo beneficiario) e che non partecipava all’accordo corruttivo iniziale; seguendo i binari dei principi codificati dalla sentenza Mills si dovrebbe dedurre che la condotta del terzo rappresenti un post-factum punibile, a prescindere dalla conoscenza dell’accordo e dalla partecipazione al medesimo.

In sostanza, se il momento consumativo finale della fattispecie nell’ipotesi della condotta c.d. progressiva (forma contratta) è individuato nella consegna della res oggetto dell’accordo, e tale condotta rientra in una porzione di fatto penalmente rilevante, il terzo non potrebbe essere esente da responsabilità. La sua partecipazione al reato, seppur postuma, dovrebbe desumersi proprio dalla rilevanza della porzione della condotta postuma dalla quale si fanno discendere incidenze in termini di momento consumativo (maius) e decorrenza dei termini di prescrizione del reato.

Eppure una tale conclusione non pare trovare spazio nello schema tipico della fattispecie di reato.

Invero, il delitto di corruzione è un reato a concorso necessario ed ha una struttura bilaterale; in tale prospettiva il concorso del terzo è ravvisabile solo laddove costui fornisca un contributo nella forma della realizzazione o del suggerimento fornito all’uno o all’altro dei concorrenti necessari, ovvero si realizzi in un’attività di intermediazione finalizzata a realizzare un collegamento tra gli autori necessari (Sez. VI, n. 33435 ric. Battistella).

Il focus dell’attenzione va spostato, per quanto ci riguarda, all’ipotesi del contributo del terzo alla sola fase esecutiva, laddove la condotta sia funzionale alla realizzazione. Diverse decisioni di legittimità hanno concluso per la soluzione negativa, affermando il principio secondo il quale non integra gli estremi del concorso di persone nel reato la condotta del terzo che, dopo la conclusione dell’accordo corruttivo rispetto al quale è rimasto estraneo, ed in assenza di momenti di novazione del medesimo, si adoperi per la realizzazione dello stesso, non essendo configurabile una partecipazione postuma al delitto (Cass. Pen. Sez VI, n. 18125 del 22/10/2019 ric. Bolla).

A rafforzare il principio testé esposto è intervenuta altra decisione (sez. VI pen., n. 46404 del 29/10/2019, ric. Genco) che ha chiarito che la partecipazione alla sola fase esecutiva di quanto già pattuito nell’accordo non modifica la struttura del medesimo, di guisa che non consente di ritenere che la condotta del terzo aggiunga all’unico patto pregresso, concluso tra terzi, un nuovo contraente postumo.

Sulla scia dei principi sin qui enucleati è intervenuta altra sentenza (se. VI pen. n. 4215 del 18/01/2022, ric. Condoleo) che ha affermato con maggiore chiarezza il principio secondo il quale la mera attività di esecuzione ed adempimento dell’accordo, senza alcuna partecipazione al medesimo, non assume rilevanza in termini di partecipazione nel reato di corruzione; la mancata dimostrazione della partecipazione al medesimo e dell’eventuale ruolo di collegamento tra corruttore e corrotto (a cui danno rilievo le sentenze della VI sez. pen. n. 26740 del 18/09/2020 ric. Trovato e n. 24535 del 10/04/2015, ric. Mogliano) fanno venir meno la rilevanza della condotta del terzo ai fini della configurabilità del concorso nel reato di corruzione.

Tuttavia, altra decisione della VI sez. pen., n. 28988 del 31/05/2022, ric. Cirillo, affronta la problematica della partecipazione del terzo alla sola fase esecutiva attribuendole rilevanza in termini di partecipazione nel reato di corruzione; anche in tale ultima ipotesi non v’è prova che il terzo avesse partecipato all’accordo iniziale tra corruttore e corrotto.

La censura contenuta nella sentenza de qua prende l’abbrivio dal principio secondo il quale l’attività del soggetto terzo, che avrebbe consentito al corrotto di venire in possesso delle somme di denaro oggetto dell’accordo corruttivo mediante l’emissione di F.O.I. in favore del corruttore, rappresenti una evidente “messa a disposizione del prezzo della corruzione”, di guisa che la stessa non possa essere intesa quale mera attività di esecuzione e adempimento dell’accordo intercorso tra terzi.

In buona sostanza la condotta del terzo, nel caso di specie, è stata intesa quale “piena e consapevole compartecipazione nella condotta di messa a disposizione del pubblico ufficiale corrotto della provvista di denaro costituente il prezzo della corruzione”, con la conseguenza di attribuire rilevanza ai fini del concorso a prescindere dalla dimostrazione che la stessa possa aver rappresentato una novazione dell’accordo originario.

Orbene, con tale ultima decisione la VI sezione della suprema Corte pare abbia inteso sovvertire i principi contenuti nelle precedenti sentenze; invero, al netto delle alchimie lessicali contenute nella sentenza, quello che lascia perplessi è il principio secondo il quale si è inteso dare rilevanza alla condotta postuma del terzo, qualificata come intermediazione funzionale a consentire al corrotto di venire in possesso delle provviste oggetto della corruzione, pur in assenza di dimostrazione di novazione del patto corruttivo.

Invero, tutte le precedenti sentenze di legittimità attribuivano neutralità alla condotta del terzo, funzionale a consentire al corrotto di venire in possesso delle provviste oggetto dell’accordo corruttivo, in tutte le ipotesi in cui non era dimostrato che tale comportamento fosse contenuto nell’originario accordo, ovvero che rappresentasse una novazione del medesimo, in fase postuma, con la partecipazione del terzo.

La sentenza da ultimo citata, viceversa, attribuisce rilievo alla condotta di emissione delle fatture per operazioni inesistenti, funzionale alla consegna delle provviste al corrotto, e fa desumere da siffatta condotta, in via del tutto inferenziale e per certi versi apodittica, la prova della conoscenza dell’accordo e l’impiego di competenze professionali (sic?) intese quale intermediazione consapevole ai fini del passaggio del prezzo della corruzione.

Orbene, poiché la sentenza non dà atto della prova della conoscenza dell’accordo corruttivo, e men che meno della partecipazione del ricorrente al medesimo nella fase originaria, non può che intendersi che si sia desunto che la condotta postuma del terzo abbia rappresentato una novazione dell’accordo, in punto di modalità di percepimento delle utilità da parte del corrotto. Di certo, tuttavia, tale convinzione non può essere desunta, ad avviso di chi scrive, dalla mera attività di emissioni di fatture per operazioni inesistenti funzionali alla consegna delle provviste al corrotto.

Sotto tale ultimo profilo, invero, disparate potrebbero essere state le ragioni che hanno indotto il terzo a porre in essere le condotte in argomento; ad esempio si potrebbe pensare che la condotta del terzo sia stata motivata dall’interesse a percepire utilità proprie (commissioni) per le operazioni poste in essere, con totale disinteresse delle motivazioni poste a fondamento dell’accordo originario e della finalità di far percepire al pubblico ufficiale le provviste dell’accordo corruttivo (del quale potrebbe essere stato all’oscuro).

È ovvio che una condotta di tal fatta potrebbe assumere rilievo in ordine a diversa fattispecie di reato, ma non certo ai fini del concorso nel reato di corruzione.

La soluzione adottata dalla suprema Corte, nel caso di specie, sembra attribuire rilievo alla condotta a titolo oggettivo, a prescindere dal reale accertamento dell’elemento volitivo ed in assenza di dimostrazione del fatto che l’attività in argomento abbia rappresentato modalità di dazione originaria dell’accordo, ovvero integrazione del medesimo.

La qualificazione di tale condotta quale attività di intermediazione/collegamento tra corruttore e corrotto (a cui danno rilievo le sentenze della VI sez. pen. n. 26740 del 18/09/2020 ric. Trovato e n. 24535 del 10/04/2015, ric. Mogliano), in assenza di prove dimostrative di tale assunto, finisce con l’essere apodittica.

Se tale conclusione dovesse trovare seguito in altre pronunce di legittimità si auspica un intervento delle SS.UU. che risolvano la questione fornendo i criteri ermeneutici ai quali fare riferimento per qualificare la condotta del terzo quale “mera attività di esecuzione e adempimento dell’accordo illecito intercorso tra terzi”, irrilevante ai fini della responsabilità, ovvero attività di intermediazione e/o collegamento (seppur postumo) che incide in punto di rilevanza penale della condotta, a prescindere dalla dimostrazione della partecipazione al patto corruttivo.

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Michele Novella – penalista – Foro di Palmi

 

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