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Scusate innanzitutto se, nel titolo del mio intervento, non ho fatto precedere al nome “Cartabia” la parola “riforma”, ma credo e spero che, leggendo queste mie brevi osservazioni, si comprenda che non è per mancanza di rispetto verso l’ex Ministro e Presidente Emerito della Corte Costituzionale, ma perché, purtroppo, sono assolutamente convinto che ci troviamo in presenza all’ennesima “spallata” al processo accusatorio e del diritto di difendersi attraverso il contraddittorio.

Il rischio, per noi avvocati, è che il canto delle sirene ci porti a sopravvalutare alcuni indubbi aspetti positivi della “Cartabia”, in particolare quelli relativi alla disciplina sanzionatoria. 

La legge contiene, infatti, alcune novità che consentono al giudice di applicare sanzioni finalmente proporzionate alla effettiva gravità delle condotte e, soprattutto, pensate nell’ottica del recupero e del reinserimento della persona, allontanando così l’idea della giustizia vendicativa e carcerocentrica[1].

Questa parte della “Cartabia” è sicuramente anche il frutto di un’idea della sanzione penale, più moderna e conforme ad uno stato liberale, quella stessa idea che noi avvocati cerchiamo di diffondere quando, per esempio, ci rechiamo nelle scuole parlando ogni anni con migliaia di studenti dei temi caldi della giustizia.

Abbandonata, infatti, ogni velleitaria finalità vendicativa (inutile, se non altro perché il danno alla vittima non potrà essere azzerato da nessuna sofferenza fisica o psicologica inflitta al condannato), la razionalità ha dimostrato e dimostra che le pene alternative al carcere convengono anche alla società (cioè a tutti noi), perché l’essere umano – che non è nato naturalmente né buono né cattivo – è portato a non commettere nuovamente un reato se gli viene offerta la possibilità di un riscatto sociale, in particolare attraverso una attività lavorativa, piuttosto che se lo si restringe per un periodo (lungo che sia) in pura cattività, fra le sbarre di una cella, trascorrendo il suo tempo senza imparare nulla.

Poi c’è da dire – ad onore del vero – che dietro le novità sanzionatorie della “riforma” (eccezionalmente voglio chiamarla così solo adesso), c’è anche (e soprattutto) quel tentativo di ridurre i tempi dei processi, che è l’unica vera musa ispiratrice della legge.

Favorendo soluzioni di anticipata definizione della causa, si ottiene il duplice effetto di far durare meno il processo, senza nemmeno arrivarci possibilmente, e, soprattutto, di ridurre i numeri delle impugnazioni, sempre di più mal tollerate nella prassi.

Del resto, è inutile nascondere che la “riforma” stessa nasce dall’esigenza di ottenere i fondi del PNRR attraverso l’impegno di ridurre sensibilmente la durata dei processi.

Ma non sono qui oggi a parlare degli aspetti sanzionatori della “Cartabia” ma a domandarmi e a domandarvi: a che prezzo dobbiamo accettare con favore questa umanizzazione della pena nel “nuovo” processo penale?

E’ presto detto: al prezzo dell’ennesimo sacrificio del giusto processo, perché ci viene chiesto di soprassedere ad una nuova realtà in cui la fase di cognizione, di formazione della prova in contraddittorio e, in generale, gli strumenti difensivi che si contrappongono alla pretesa punitiva vengono relegati, nella scala dei valori, ad un gradino decisamente più basso, troppo più basso, rispetto al funzionamento  (anzi, non esageriamo) ad una maggiore fluidità del sistema giustizia (tutta da verificare in concreto, peraltro).

Ed è questa nuova (o meglio rinnovata) scala dei valori che io reputo inaccettabile, rispetto alla quale, se proprio dovessi scegliere, rinuncerei alle positive novità sanzionatorie. Spiego subito perché.

Sono sempre stato convinto (e con me e prima di me ben altri esponenti dell’avvocatura) che il valore più importante della giustizia sia la “qualità” della giurisdizione, intesa come “qualità” del risultato probatorio; questo perché l’obiettivo primario dell’intervento del potere giudiziario sulla vita dei cittadini deve essere quello di evitare di incorrere nel più tremendo degli errori: la condanna dell’innocente, anche di un solo innocente, a fronte del quale soccombe l’idea del colpevole in libertà.

Ragionando in termini di “qualità” della giurisdizione, l’introduzione nel 1989 del processo accusatorio è giustificata dall’acquisizione, vorrei dire scientifica, derivante dall’esperienza anche di altri paesi, della prova che il metodo gnoseologico che più è in grado di avvicinare l’accertamento giudiziale di un fatto alla verità storica è quello del contraddittorio nella formazione della prova davanti ad un giudice terzo  e imparziale in condizioni di parità fra accusa e difesa.

Allo stesso modo il contraddittorio è, dunque, il metodo superiore ad ogni altro per una giurisdizione di “qualità”, il che significa per una giustizia dove la possibilità di errore giudiziario (cioè la condanna dell’innocente) è diminuita più possibile.

È altrettanto ovvio che il contraddittorio è un metodo di conoscenza, in modo particolare di formazione della prova, che richiede tempi assolutamente maggiori rispetto ad ogni altro modo di definizione della controversia, tutti accomunati, diramandosi poi in varie sottocategorie, nella utilizzazione ai fini della decisione di elementi di prova acquisiti unilateralmente (risparmiando, così, tempi e risorse).

Da qui nasce l’inevitabile conflitto fra la riduzione dei tempi del processo e la garanzia del pieno contraddittorio[2].

Quindi, semplificando all’estremo, tutto si riduce ad una scelta relativa alla scala dei valori: se e quale contemperamento è giusto trovare tra “qualità” della giurisdizione e tempi del processo?

La “Cartabia” risulta decisamente sbilanciata in sfavore della “qualità” della giurisdizione, al punto da rendersi, a mio avviso, incompatibile con un qualsiasi giudizio anche timidamente positivo dell’avvocatura penalista che si riconosce nei valori dell’UCPI.

Faccio solo un esempio di norma apparentemente marginale, ma che tradisce una evidente noncuranza del metodo di conoscenza del contraddittorio nella formazione della prova: art. 501 comma 1 ter cod.proc.pen., “la parte che ha chiesto l’esame di un consulente tecnico deposita l’eventuale relazione almeno sette giorni prima dell’udienza fissata per il suo esame”.

Mi ha colpito recentemente una mozione presentata al Congresso ordinario di Firenze dell’UCPI nella quale la Camera Penale di Como e Lecco ha definito l’intervento della “Cartabia” sull’art.501 cod.proc.pen. “marginale”, sostenendo che la nuova disciplina del deposito preliminare della perizia e delle consulenze è “opportuna” in quanto “permette di esaminare nel dettaglio profili tecnici assai complessi per i quali la disamina scritta è inevitabile”.

Questa sottovalutazione della gravità del vulnus creato dalla norma citata, a mio avviso, è preoccupante.

Un tempo avremmo detto che la prova, l’unica prova, è l’esame orale del consulente tecnico, nelle forme dell’esame diretto, del controesame, del riesame e dell’eventuale intervento residuale del giudice e che, invece, la relazione scritta viene depositata (e solo eventualmente) all’esito della prova orale.

Avremmo anche detto che la mancata anticipazione alla controparte (cioè al pubblico ministero) della tesi difensiva di natura tecnica è una espressione dell’ordine di assunzione delle prove (dove non è un caso che la difesa non preceda, ma segua l’escussione delle prove dell’accusa) ed è quindi una prerogativa irrinunciabile del diritto di difesa[3].

Ma davvero non si comprende il grave vulnus che può derivare dal dover anticipare alla controparte tutta la propria strategia difensiva, fino ad arrivare al punto di eliminare l’ordine stesso di assunzione delle prove previsto dal codice, nel caso in cui, come non è raro che accada, il giudice fissi per un’unica udienza l’esame dei consulenti del pubblico ministero e della difesa?

Preferirei, a quel punto, non depositare alcuna relazione scritta e contare sulla verbalizzazione integrale dell’intervento del mio consulente! Questo nei casi più delicati.

Nei casi più semplici è facile prevedere che la prassi sarà quella di esaminare il proprio consulente solo per fare alcune precisazioni (tanto la relazione scritta è già ampiamente conosciuta dal giudice e dalle parti), per finire con eliminare del tutto tale inutile orpello.

Sì perché è proprio questa la caratteristica delle prassi devianti: lasciare una piccola breccia adesso nel muro delle garanzie significa consentire una squarcio in un immediato futuro.

Ravviso, chiaramente, la tendenza del legislatore e della prassi verso un processo scritto, dove il contraddittorio è anticipato e per mezzo di memorie delle parti e dove il materiale probatorio utilizzato dal giudice per la decisione è sempre più costituito da elementi di prova formati fuori dal contraddittorio orale. Questa tendenza non può non imporre una riflessione all’avvocatura; pensiamo solo a quante volte l’escussione orale dei testimoni al dibattimento fa emergere una realtà diversa da quella cristallizzata nelle sommarie informazioni: praticamente sempre.

Come non accennare, poi, al nuovo criterio di giudizio (“la probabile colpevolezza”) dell’udienza preliminare (e dell’udienza predibattimentale), rispetto al quale non si è sentita alcuna voce di allarme nè prima nè dopo l’approvazione della (contro)riforma?

Domandiamoci: ove venisse applicato alla lettera, come potrebbe essere terzo e imparziale il giudice del dibattimento trovandosi di fronte un imputato che un altro giudice (addirittura del suo stesso ufficio in caso di udienza predibattimentale) ha appena giudicato probabilmente colpevole?

Quale altro colpo mortale doveva essere inflitto alla presunzione di innocenza per far alzare una levata di scudi?

Per fortuna (lo dico ironicamente) gli stessi giudici hanno capito che il nuovo criterio che dovrebbe fare da filtro all’udienza preliminare è inapplicabile (perché una prognosi sull’esito del dibattimento, non potendo sapere, in assenza della sfera di cristallo, quali prove porterà la difesa, non è cosa seria) e di fatto stanno continuando a rinviare a giudizio come hanno sempre fatto.

Mi viene in mente adesso un’altra “piccola” norma, quasi impercettibile, questa volta introdotta dalla riforma “Orlando” del 2017, anch’essa espressione di una concezione sbilanciata dei rapporti fra accusa e difesa.

All’art. 438 comma 4 cod.proc.pen. si prevede che “quando l’imputato chiede il giudizio abbreviato immediatamente dopo il deposito dei risultati di regia difensive, il giudice provvede solo dopo che sia decorso il termine non superiore a 60 giorni, eventualmente richiesto dal pubblico ministero, per lo svolgimento di indagini supplettive limitatamente temi introdotti dalla difesa”.

Essa obbedisce ad un finto principio di parità fra accusa e difesa, ma in realtà introduce un’inversione dell’ordine delle prove, perché dà all’accusa la possibilità di avere l’ultima parola contrastando con una prova nuova i risultati delle indagini difensive e frustrando il sacrosanto diritto della difesa di cristallizzare il materiale probatorio dopo il deposito delle proprie indagini (fatto salvo, ovviamente, il potere di integrazione del giudice).

Veniamo infine all’ultimo esempio che dà il senso di come il diritto di difendersi nel merito abbia scarsa considerazione nella “Cartabia” (in perfetta linea, peraltro, con le riforme degli ultimi anni)[4].

Ma si è mai visto un processo – in un sistema dove, a livello costituzionale, vige la regola della sanzione penale che consegue solo alla condanna definitiva a seguito di sentenza passata in giudicato – in cui il giudice di merito anticipi già l’applicazione della pena dopo la pronuncia della sentenza di primo grado (mi riferisco alle misure alternative alla detenzione), chiedendo addirittura il consenso all’imputato (per quanto riguarda i lavori di pubblica utilità – art.545 bis cod.proc.pen.), non solo, e svolga adempimenti tipici della fase esecutiva, prendendo contatti con l’UEPE, ecc.?

Per quanto apprezzabile sia la finalità di favorire l’applicazione delle misure alternative, superando le rigidità della fase esecutiva, con quale mentalità il giudice può sostituire una pena con una misura alternativa fissandone le modalità e i tempi dell’esecuzione, quando la sua sentenza potrà essere riformata dalla Corte di appello?

Ma l’istituto che più di ogni altro segna il conflitto fra merito della causa, imparzialità del giudice e anticipata implicita ammissione di colpevolezza è, senza dubbio, la giustizia ripartiva.

La quale – sia ben chiaro – in generale deve essere accolta come una benedizione, in quanto espressione di una cultura liberale e, in particolare, del superamento della visione della pena come vendetta e dell’idea, invece, di un percorso difficile ma non impossibile di avvicinamento dell’autore alla vittima, come uomo a uomo.

Ma che – allo stesso modo – risulta temporalmente incompatibile con il momento processuale della cognizione[5], dove l’imputato deve potersi difendere incondizionatamente e dove la vittima, a sua volta, deve potersi attendere una risposta dalla giustizia, prima di maturare un sentimento di perdono, di comprensione o anche solo di disponibilità all’incontro.

Tanto è vero che negli ultimi mesi ci sono stati almeno due esempi – a mia conoscenza – di omicidi efferati in cui l’imputato ha chiesto e addirittura in un caso è stato ammesso alla giustizia ripartiva durante il processo, dopo la condanna in primo grado; in entrambi le parti civili hanno rifiutato l’incontro perché richiesto in un momento prematuro. Già … prematuro è il termine più azzeccato per definire l’ingresso della giustizia riparativa nella vita di imputato e vittima prima della fase esecutiva.

Concludo con un auspicio: che l’avvocatura penalista italiana conduca una battaglia per riportare al centro del processo il contraddittorio come metodo di accertamento dei fatti, la parità fra accusa e difesa, la terzietà e l’imparzialità del giudice perché – lo dico senza alcuna retorica – io sono solo un piccolo testimone (come lo siamo tutti) di processi in cui il dibattimento, l’oralità della prova, il contraddittorio e l’imparzialità del giudice hanno salvato la vita a persone come me e come voi che, giudicate senza questo metodo, avrebbero fatto una brutta e ingiusta fine.

Sono assolutamente d’accordo con l’incentivare l’accesso ai riti alternativi, perché solo un numero ridotto di casi che giungono a dibattimento è in grado di far funzionare il sistema e perché la scelta di rinunciare a determinate garanzie è affidata alla consapevole volontà della difesa; ma proprio per questo, il giudizio “ordinario” deve potersi svolgere nella piena espressione del contraddittorio per la formazione della prova, sicché, alla fine, quello che farà la differenza fra “efficienza” e “giustizia” sarà – lo ripeto –un risultato probatorio di “qualità”, sul quale il giudice dovrà applicare la regola decisoria dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Avv. Michele Bontempi

Avvocato del foro di Brescia, membro Osservatorio Informazione Giudiziaria, Media e Pubblicità dell’UCPI

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NOTE:

[1] si pensi, ad esempio, alla giustizia ripartiva che, per la prima volta, entra nel processo, vedremo poi con quali riflessi.

[2] Al netto, ovviamente, di ogni considerazione attinente alla quantità delle risorse disponibili, dedicate al sistema “giustizia”, e all’organizzazione del loro utilizzo, aspetti per i quali dovrebbe aprirsi un altro discorso.

[3] Io, accusato, devo poter iniziare la mia difesa dopo che l’accusa ha finito di esporre il suo caso.

[4] Di peculiare la “Cartabia” ha l’insidia dell’invito di un legislatore che vorrebbe un giudice “paternalista” che, a fronte di una pena mite, si aspetta dall’imputato che non gli faccia perdere tempo nella difesa.

[5] Non voglio nemmeno commentare la norma che prevede che l’iniziativa di proporre un programma di giustizia riparativa possa partire dal pubblico ministero nella fase delle indagini.

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